Swiss Jazz: Susanne Abbuehl – The Gift

Yeahwon Shin - Lua ya

ECM Records – ECM 2322 – 2013




Susanne Abbuehl: voce

Matthieu Michel: tromba

Wolfert Brederode: pianoforte, harmonium indiano

Olavi Louhivuori: batteria, percussioni






La convergenza tra l’etereo carillon e i bagliori da glaciale albeggiare nell’introduttiva The Cloud, l’intimismo vibrante di Wild Nights, lo swing dolce e narcotico di Fall, Leaves, Fall e delle due versioni dell’incantatoria This and my Heart, le preziosità recitative in If bees are few rendono quanto composito sia, nell’apparente, prescelta economia formale, questo impressionistico puzzle di sedici tessere: in The Gift predominano le più umbratili tinte e lo spleen delle stagioni letargiche, che alonano e conformano la dimensione spettacolare per interventi e valori di sottrazione.


Grande l’armonizzazione d’insieme, fluida e riflessiva, della tastiera del “concreto sognatore” Brederode, già sperimentato e assai fedele compagno delle incisioni di Abbuehl, che non operando certo con timidezza, svelando anzi grandi sensibilità ed eclettismo linguistico (Ashore at last, Shadows on Shadows), predilige prodursi entro una dimensione eminentemente orizzontale, senza mai davvero contendere la scena alla forte dualità cantato-tromba, trovando sponda e vario complemento nelle interpunzioni mercuriali dei calibrati, vibranti metalli del già variamente apprezzato, “incisivo percussore” finnico Olavi Louhivuori, che sostengono con discrezione la scena, non lesinando i rintocchi d’apporto melodico e intervenendo con veemenze più teatrali al crescere delle tensioni, ed è dall’incontro di questi due elementi che si genera la propulsione ritmica a scandire le dinamiche di tale suggestiva formazione bass-less.


Bruciante e apollinea, la dualità voce-ottone si articola in un testa-a-testa mai competitivo che scolpisce anzi un contrappunto ammaliante.


Il timbro brunito della vocalist bernese, che potrà facilmente richiamare certe signore della canzone di analogo feeling interpretativo e cameristico raccoglimento, giunge con sobrietà di mezzi ad appagare l’attenzione con l’espansione misurata e la microvibrazione della nota semplice, ed il sobrio velluto vocale non s’impiglia su ripiegamenti d’innecessari virtuosismi; l’interpretazione di Susanne Abbuehl può nel suo respiro vantare ascendenze addirittura nella metafisica “domestica” del Lied romantico e del suo tramonto, ed è in quest’ultima, transitiva dimensione che può collocarsi la dominante cornice emotiva, e superfluo apparirebbe il puntualizzare la provenienza dei testi da materiali poetici (in primis, gli asciutti stupori da Emily Dickinson).


Polimorfe ed immaginifiche le eloquenze della tromba di Matthieu Michel, più probabile co-protagonista almeno nel carattere di ruolo, d’inesauribile dotazione nel tocco ad ampissimo spettro che trascende il calore della solida comunicativa old-school, operando piuttosto una personale, ampia sintesi che, sì, slancia radici verso i grandi forgiatori d’ottone, ma s’apre anche alle più nuove e diverse seduzioni dei “soffiatori di vetro” che incarnano i diversi protagonismi dello strumento.


Intuitivamente osando un “quid” ulteriore nel distacco da certe pesantezze della “materia” musicale, il vigile stato onirico qui predominante modella l’accorta calibratura nella dispensazione dei volumi sonori, privilegiando nelle sue dilatazioni espositive le efflorescenze dell’istantaneità rispetto all’esito compositivo, certamente e comunque non di poco fascino. Le statuarietà sobrie e di chiaroscurale fascino qui permangono eminentemente aliene da barocchismi e graziate da un accessibile charme “naturale” – accessibile come e il pulsare sommesso ma inarrestabile dei corsi vitali e le forze sottili e insieme dirompenti dell’ispirazione profonda.