The Bad Plus @ Teatro Rossetti, Vasto

Foto: Fabio Ciminiera










The Bad Plus @ Teatro Rossetti, Vasto.

Vasto, Teatro Rossetti – 1.12.2013

Ethan Iverson: pianoforte

Reid Anderson: contrabbasso

David King: batteria


Questa formazione è la combinazione delle personalità dei tre musicisti del gruppo: incidentalmente, noi suoniamo i tre strumenti che la rendono un piano trio. Si può partire da questa affermazione, fatta da Ethan Iverson, Reid Anderson e David King nel corso dell’intervista registrata in occasione del concerto di apertura della nuova stagione del Teatro Rossetti di Vasto, per entrare all’interno della musica di The Bad Plus. Un approccio personale, “laico” nei confronti della forma che ne contiene i suoni, progressivo nella voglia di ricercare soluzioni e collettivo nel radicale bisogno di condurre insieme il discorso sonoro.


The Bad Plus sono una delle più importanti formazioni del piano trio attuale, con tutte le accezioni che si possono agganciare a questa affermazione. L’ingrediente inaspettato, l’elemento “cattivo” che da il nome alla formazione è proprio l’intenzione – forte e sottolineata, quanto ironica e possibilista – di muoversi in modo non convenzionale all’interno del proprio contesto sonoro e di eludere per quanto possibile ogni concetto prestabilito. Alla base della musica di The Bad Plus c’è l’incontro di tante suggestioni diverse, una stratificazione di possibilità divergenti e persino in contraddizione, ridotte all’unità da un lavoro certosino condotto sui vari elementi musicali. Si può partire dal senso collettivo della musica, tanto quanto si può prendere in considerazione il metodo di costruzione di un repertorio capace negli anni di accogliere brani di varia provenienza per sottoporli a un trattamento preciso e rigoroso. Un altro punto di partenza potrebbe essere una scrittura musicale che cerca di svincolarsi dagli stilemi pur tenendo conto di quanto avvenuto in un secolo di storia del jazz. E ancora la stessa idea che, al giorno d’oggi, concetti come definizione, ridefinizione, paradigma siano decisamente più sfuggenti e precisi che in altri momenti e, anzi, questa “mobilità” diventa una risorsa proprio nel momento in cui rigore e apertura si incontrano per attraversare e ricomporre il materiale e l’ispirazione. Tutto questo – e molto altro, si potrebbe aggiungere… – viene preso in considerazione dal trio, manipolato, centrifugato e, aspetto dirimente e fondante, riportato alla luce al termine di un processo personale. A maggior ragione se si considera che la formazione fa della stabilità e dell’interazione fra i suoi tre componenti uno dei punti di forza.


Rigore e ispirazione, dialogo e concentrazione, ironia e celebrazione. Il concerto si snoda con grande rispetto e dedizione da parte dei tre. Iverson, Anderson e King propongono un discorso articolato su più livelli. Il nucleo fondante è il dialogo collettivo, spinto con fervore elegante ed ostinato, con dedizione e forte partecipazione: in questo senso, nel concerto si avverte una sorta di ritualità iconoclastica, dove si confrontano il senso della celebrazione unito alla voglia di scardinare – dove e come possibile – le matrici espressive. La necessità dell’improvvisazione e della creatività si fondono in un discorso unitario dove riesce spesso difficile isolare la voce del solista a favore di una estrema compattezza da parte del trio. Ma, allo stesso tempo, i ringraziamenti cantati da Reid Anderson intervengono a spazzare via le atmosfere più solenni. L’aspetto più rimarchevole è che si passa dalla costruzione alla ruvida ed eccentrica messa in discussione dei principi alla dissacrazione con estrema naturalezza, senza strappi. Rigorosamente acustici, completamente rivolti alle proprie composizioni, i tre musicisti conoscono il palco e le sue regole: se il messaggio è nel continuo meccanismo di scomposizione e ricomposizione degli elementi, condotto con grande dedizione e attitudine collettiva, intorno a questo centro vengono alternati momenti più rilassati e prese di posizione sferzanti, per cercare sempre una collocazione nuova ai vari ingredienti. Il filo tracciato dal trio nel concerto diventa così una combinazione dove composizione e estro del momento si mescolano in una maniera efficace, rodata dalla grande quantità di concerti che il trio ha alle spalle e animata della determinazione con cui affronta la musica.


Nella storia della musica e dell’arte, le ridefinizioni e i rivolgimenti sono sempre stati all’ordine del giorno, il “motore” intrinseco dell’evoluzione, del confronto e del progresso. Nel jazz, vista la sua storia “ristretta” in poco più di un secolo, sommovimenti e cambi di prospettiva sono avvenuti secondo scadenze davvero ravvicinate per arrivare dalle origini sino alle forme attuali. E questo, come ogni cosa umana, ha avuto conseguenze positive e negative, riflessi diversi per entità e significato. Se da una parte ci si ritrova davanti ad una forma d’arte in perenne e inquieto cambiamento, sono numerosissimi i musicisti e le formazioni ad essere stati indicati come the next big thing. E, forse, questo è uno dei motivi per cui Iverson, Anderson e King tengono a ribadire come loro prestino poca attenzione al confronto con la storia del jazz, per puntare giustamente e in modo più diretto allo sviluppo della musica e della voce del trio, secondo le intenzioni e le personalità dei suoi tre componenti.