Slideshow. Enzo Zirilli

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Slideshow. Enzo Zirilli.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Enzo Zirilli?


Enzo Zirilli: Difficile rispondere di se stessi. Però mi piace usare una “quote” di un giornalista tedesco, Manfred Papst – che, peraltro, non ho mai conosciuto personalmente – che mi ha descritto come “A crazy poet on the drums.”. Mi sento molto rappresentato da questa definizione, dal momento che mi piacciono molto il rischio, l’avventura e sono un romantico/sentimentale. Non sono molto avvezzo ai giochi di palazzo e di potere, anzi per niente.



JC: Ci racconti ora dei tuoi ultimi lavori discografici?


EZ: Ce ne sono molti e li amo tutti come fossero parti di me, ma gli ultimi ai quali sono particolarmente legato sono: Radio Londra, un quartetto con due chitarre, Jim Mullen e Luca Boscagin e Ross Stanley all’organo; Singing Ornette, un’idea molto originale della cantante/autrice Barbara Raimondi che ha omaggiato la musica di Ornette Coleman, insieme a Furio Di Castri, Mauro Negri ed il sottoscritto, scrivendo i testi sui soli di Don Cherry e Ornette appunto; Lifestories è invece una band da sogno; è un album registrato con Jim Mullen, Dario Deidda e Julian Mazzariello, alcuni dei miei musicisti preferiti ed è stato prodotto da un caro amico e fantastico musicista, Matteo Saggese.



JC: Ci sveli il primo ricordo che hai della musica?


EZ: Non ho un ricordo temporale esatto ma ne ricordo il sapore: le canzoni dei Beatles o più in generale le belle canzoni che mi rimanevano in testa e che cantavo costantemente.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


EZ: Non c’e un motivo razionale. Può sembrare retorico, ma credo sia stata la musica, soprattutto il Jazz, a scegliere me.



JC: E in particolare un batterista jazz?


EZ: L’idea di poter suonare una musica che fosse la casa di tutte Le musiche, dandomi la possibilità di essere sempre me stesso ed allo stesso tempo diversi “me stesso”, mi ha spinto a scegliere il Jazz.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


EZ: Il Jazz per me, oltre ad essere la mia linfa vitale è una “disciplina di totale libertà”. La ritengo la forma d’Arte più geniale degli ultimi 100 anni.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


EZ: Si tratta di una filosofia di vita, un continuo afflato di spiritualità, amore, passione, libertà, gratitudine, comprensione, amicizia, rabbia, riso, lacrime, gioia e malinconia.



JC: Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


EZ: Se registro, se salgo su un palco con un Artista è perché lo stimo, umanamente prima ancora che musicalmente: deve essere una cosa dalla quale mi sento rappresentato e che in qualche modo mi appartiene, se no per me ha poco senso. Questo per dire che amo quasi tutte Le cose che ho registrato anche se Enklisis, del 1992, registrato in quartetto con Andrea Allione, Aldo Mella e Andrea Ayassott ha per me un valore affettivo speciale. Lo ritengo il mio primo album “importante”, la band era davvero forte e, a distanza di 20 anni, è un album che suona modernissimo e che ascolto sempre volentieri.



JC: E un altro lavoro a cui sei molto affezionato?


EZ: Shapes in trio con il mio grande fratello d’arte e di vita Dado Moroni e Peter Washington al basso. Per me un grande riconoscimento perché quel trio era nato con Lewis Nash, ed essere chiamato da Dado per sostituire un tale gigante è per me motivo di grande orgoglio! Poi, ovviamente, gli album registrati con Scenario dedicati ai Beatles.



JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


EZ: Moanin di Art Blakey, il primo album che mi ha avvicinato al Jazz. Non sapevo come chiamarla quella musica, semplicemente la sentivo in casa perché mio fratello, musicista ed appassionato di Jazz, la ascoltava ed io mi sono innamorato delle melodie e del ritmo contenute in quell’album, che è a tutt’oggi uno dei miei preferiti. Poi direi sicuramente A love supreme di Coltrane, The dark side of the moon dei Pink Floyd e il White album dei Beatles.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?


EZ: I miei Maestri nella musica sono stati, anche se un po’ inconsapevolmente, i miei genitoriin primis; non li ringrazierò mai abbastanza per avere intuito un grande amore e per avermi trasmesso i valori morali della vita. Poi sicuramente mio fratello Paolo, i miei Maestri di quando ero un ragazzino cioé Silvio Ronconi e Giorgio Gandino. Durante il mio percorso artistico, tra quelli che ho conosciuto personalmente e non, mi sono stati imprescindibili Larry Nocella, Massimo Urbani, Luigi Bonafede, Bill Evans, John Coltrane, Charles Mingus, Thelonious Monk e Bach. Non posso non considerare come influenze fortissime per il mio sentire e vedere le cose: Van Gogh, Turner, Dostojevski, Fellini, Pasolini, Totò, Eduardo De Filippo, Pirandello, Sciascia. Ma dimentico molti, di sicuro.



JC: E i batteristi che ti hanno maggiormente influenzato?


EZ: Sicuramente Art Blakey, Elvin Jones, Roy Haynes, Tony Williams e Jack De Johnette… lo spero anche



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


EZ: Ogni momento che vivo con la musica per me è in se unico e speciale, ma essere stato invitato da Jack DeJohnette a suonare con lui ed aver suonato con Eddie Gomez sono state due esperienze molto emozionanti.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


EZ: Essenzialmente sono quelli che fanno parte della mia specie animal/umana, quelli con cui condivido pensieri, emozioni, sentire e vivere.



JC: Vivi a Londra da parecchi anni: in cosa è diverso l’ambiente jazz inglese da quello italiano?


EZ: Londra è una città fantastica, anche faticosa, ma piena di energia e slancio artistico, in tutti gli ambiti. è un posto dove ancora la meritocrazia è un fattore molto importante, al contrario dell’Italia, dove mi sembra essere stata scientemente mortificata. Questo è il motivo per il quale, dieci anni fa ho sentito forte il bisogno di cercare in una città come Londra le risposte che cercavo e che sono giunte puntuali. Riguardo le differenze, trovo Londra e l’approccio artistico anglosassone molto più legato al risultato collettivo piuttosto che a quello individuale. La trovo una gran bella cosa.



JC: Come vedi, da fuori, la situazione della musica in Italia?


EZ: La vedo come la vedevo 10 anni fa, non mi sembra cambiata, semmai la vedo deteriorarsi sempre più. Cartelloni dei Festival sempre appannaggio dei soliti cinque o dieci artisti, nessuno spazio a quei tanti musicisti di gran valore che, nonostante l’essere sulla scena da 30 anni, non si occupano molto del marketing. Pochissimo spazio ai giovani. Mi sembra che la musica, conti sempre meno e l’ufficio stampa o il manager sempre di più. Lo stesso dicasi per la cultura. Il Jazz è solo una versione in miniatura di ciò che avviene su più larga scala.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


EZ: Ho diversi progetti in mente; mi piacerebbe fare il primo disco a nome mio, dedicato alle musiche dei compositori con i quali ho lavorato e che mi hanno colpito di più, nel corso di tutti questi anni. Il terzo album con Scenario dedicato ai Beatles e un lavoro dedicato al genio compositivo di Joe Henderson, che ritengo molto sottovalutato.