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Amiri Baraka. In memoriam.
LeRoi Jones
Giovedì scorso è morto Amiri Baraka che resterà per sempre un jazzista strictu senso: meglio noto come critico musicale, è pero decisivo nella storia della jazz-poetry che dalle prime esperienze beatnik con lui passa decisamente a un ruolo afro, come dimostra i tre lavori su disco a suo nome: It’s Nation Time – African Visionary Music (1972, con un proprio gruppo), New Music – New Poetry (1982, con David Murray e Steve McCall), A Black Mass (1999, con Sun Ra And The Myth Science Arkestra). Ma è soprattutto dell’Amiri Baraka operatore culturale che occorre parlare, onde rimarcare l’eccezionale di un suo libro che fa epoca da ormai mezzo secolo.
Amiri Baraka nasce come LeRoi Jones a Newark il 7 ottobre 1934, si laurea ad Haward in Letteratura e si rivela al pubblico statunitense con il saggio Cuba Libre. In Italia viene conosciuto con quattro poesie grazie all’antologia curata da Fernanda Pivano Poesia degli ultimi americani (1963), mentre qualche mese dopo nel LP The New Art Quartet (1964) recita il poema Black Dada Nihlismus accanto ai freejazzmen Roswell Rudd, John Tchicai, Lewis Worrell, Milford Graves. A parte Il Popolo del blues, le uniche apparizioni editoriali risalgono entrambe al 1971: con due liriche nella raccolta Poesia e rabbia (Accademia Sansoni) a cura di Gianni Menarini e per Einaudi con Quattro commedie per la rivoluzione nera, ossia Morte sperimentale unità Nr. 1, Una messa nera, Gran bontà della vita, Cuore matto.
Jones ispira infine i due testi sul jazz apparsi di lì a poco: Free Jazz/Black Power (Champ Libre, Paris 1971) di Philippe Carles e Jean-Louis Comolli e Canto nero (Guaraldi, Rimini 1973) di Giampiero Cane, il quale racconta proprio in Amiri Baraka. Ritratto dell’artista in nero che lavora al testo già nel 1967, ma ne va persa l’unica copia (dattiloscritta), mentre gli appunti precedenti sono ritrovati per caso, durante un trasloco, circa sei anni dopo. Né Cane né Baraka nei loro libri terminano con le classiche discografie, ma per quest’ultimo non è difficile risalire ai brani o ai microsolco dei jazzman prediletti, così come vengono enunciati fra le pagine del Popolo del blues: Bessie Smith, King Oliver, Jelly Roll Morton, Louis Armstrong, Count Basie, Duke Ellington, Bilie Holiday, Lester Young, Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Thelonius Monk, Sarah Vaughan, Max Roach, Miles Davis, John Coltrane, Sonny Rollins, Ornette Coleman, Cecil Taylor.
L’intellettuale afroamericano
Amiri Baraka è oggi l’intellettuale afroamericano di maggior prestigio sulla ribalta statunitense e internazionale, benché il termine “intellettuale’ gli possa andare stretto o risulti equivoco e fuorviante. Intellettuale è, ma non nel senso tradizionale e snobistico che il termine connota nella cultura moderna, perché, nell’esperienza di Baraka, si trovano via via la letteratura, il teatro, la musica, la sociologia, la politica, che a loro volta vengono declinate nella poesia, nella narrativa, nella commedia, nella saggistica, nella critica musicale, nella storia del jazz, nella performance, nella jazz-poetry, nella disamina un po’ filosofica della black comunity con l’ausilio delle scienze umane (etnologia e antropologia comprese).
Oltre un convegno a lui dedicato nel 2006 e un libro (di cui si parla più avanti) che gli rende piena giustizia, il nome di Amiri è quasi rimosso dalla cultura italiana, che di fatto, lungo quasi mezzo secolo, lo sostiene attraverso un unico libro Il popolo del blues, prontamente tradotto da Einaudi nel 1968 a cinque anni dall’uscita originaria, da ShaKe ripubblicato solo nel 1994 con nuova traduzione e nuova premessa dell’Autore.
Nel nostro Paese insomma il mondo letterario lo ignora, salvo includerlo, con qualche poesia, in un paio di antologie sulla beat generation, quello musicale si limita ad ascoltarne la voce nei reading su alcuni LP d’importazione oppure a seguirne il pensiero fra le righe delle polemiche sorte attorno ai concetti di negritudine e di jazz nero.
Il popolo del blues
Tuttavia basta un solo libro, a Baraka, a far mutare il corso della storia nel nostro Paese e sull’intero continente europeo: come negli Stati Uniti Il popolo del blues irrompe nella scena artistica rivoluzionaria, presentandosi quale péndant teorico del free e della new thing, così lo stesso libro, più o meno direttamente, serve, in Italia e in Europa, a forgiare nuove agguerrite generazioni di studiosi, critici, fans, improvvisatori.
Le date forse non sono casuali, nonostante manchi un rapporto esplicito di causa/effetto: pochi mesi dopo l’uscita di Blues People, a New York l’October Revolution propone gli stati generali del free jazz nero e bianco, a Berkley la rivolta studentesca nella locale Università è l’atto fondativo della contestazione giovanile; Martin Luher King riceve il Nobel per la Pace e Malcolm X pubblica l’Autobiografia, bestseller mondiale; John Coltrane incide A Love Supreme, Sun Ra registra Other Planes Of There e Albert Ayler firma un trittico eccezionale: Ghosts, Spirits, Spiritual Unity. Il Popolo del blues esce a Torino il 26 ottobre 1968, in pieno “Sessantotto’ europeo: forse non occorre aggiungere altro, se non che in America si trovano gli album “manifesto’.
Il Sessantotto jazz infatti vuol dire Miles In The Sky e Files De Kilimanjaro di Miles Davis, The Way Ahead di Archie Sheep, Love Call di Ornette Coleman, New Grass di Albert Ayler, Three Compositions dell’esordiente Anthony Braxton; sul Vecchio Continente Grido e Il fiume furore di Giorgio Gaslini, Requiem For Che Guevara di Fed Van Hove, Auto Jazz di Barney Wilen, Indo-jazz fusion di Joer Harriott, The Mad Rockers di Rolf & Joachim Kuhn, Cadentia Nova Danica di John Tchicai, Karyobin dello Spontaneous Music Ensemble, One dei Soft Machine; addirittura a Roma Stereokonitz di Lee Konitz e a Milano Confluence di Gato Barbieri e Dollar Brand.
Quinquennio 1966-1971
Più che l’anno 1968 strictu senso è il quinquennio 1966-1971 a proporre radicali metamorfosi, nella teoria e nella prassi del jazz in Italia, al cospetto di una situazione fino allora opaca, anonima, plagiante, che persino altre musiche ? il rock, il soul, i revival del blues e del folk ? si incaricano di ribaltare, talvolta furiosamente, insistendo, in parallelo, nelle scelte generazionali e sulla presa di coscienza ideologico-politica.
Senza Baraka e il suo Popolo del blues in Italia non ci sarebbe quindi una critica che possa capire, interpretare, riconoscere sino in fondo le ragioni del free jazz, valorizzandolo in una duplice prospettiva: da un lato quale movimento socioculturale visceralmente connaturato all’esperienza collettivista, all’identità afroamericana e all’utopia rivoluzionaria; dall’altro in quanto poetica libertaria, dove la libertà di forme e contenuti diventa audacia internazionalista fino a lasciarsi adottare da modelli “altri” via via definibili protestatari, devianti, emarginati, oltranzisti, ribelli, marginali.
Anche se il libro termina quando il free comincia, Il popolo del blues serve, anzitutto alla critica italiana delle nuove generazioni a ribaltare pregiudizi oggi classificabili xenofobi o razzisti: “il free non è musica, non è arte, non è jazz”, “quelli dl free non sanno suonare e forse nemmeno improvvisare, prendono in giro la storia del jazz”, “la politica non ha niente a che dare con la musica e viceversa” e via dicendo.
Un’ulteriore riconsiderazione
Il testo di Amiri è d’aiuto pure a un’ulteriore riconsiderazione dell’intera musica afroamericana: a sottolineare il blues quale archetipo, segno fondante, elemento strutturale presente in ogni svolta decisiva, dal bebop al r’n’b fino all’hip-hop. In tal senso la critica jazz di solito restia, anche negli Stati Uniti, verso la popular music, si apre a generi profondamente neri come il soul, il funk, il rock-jazz, l’afrobeat e le altre contaminazioni in Centro e Sud America. Questa apertura in Italia del resto è merito di una generazione di musicologi, giornalisti, recensori, appassionati che, sul finire degli anni Sessanta, viene anche giustamente sollecitata, oltre il free e Baraka, da linguaggi sonori eterogenei, uniti da una comune weltanschauung: il rock d’autore, i cantautori impegnati, il folk regionale e universalista, prima ancora che si chiamasse ethnic o world music.
Del resto, in quel periodo, il percorso dei musicisti italiani si identifica con quello del pubblico: prendere posizione non solo nei confronti del jazz passato e presente, ma anche verso la realtà circostante, manifestare accanto a operai e studenti, sfilare ai cortei, lottare contro fascismi e totalitarismi, suonare nelle università, nelle fabbriche occupate, ai comitati di quartiere, per festival autogestiti, in rassegne sotterranee o alternative. Anche la musica, dunque, non è più la stessa: grazie al Popolo del blues non si vuole più suonare “alla maniera di”, imitando alla perfezione il vecchio Maestro o tentando di essere il migliore fra i tanti emulatori.
Il free in tal senso insegna qualcosa di nuovo: non si vuole diventare specchio, oggetto, modello stilistico, ma condividere una filosofia immaginifica dove ognuno trovi la propria verità creativa autonomamente. E i jazzmen italiani ed europei si rendono conto, quasi all’improvviso, negli anni del Sessantotto, di non essere né americani né afroamericani. Ciascuno quindi trova una strada autentica, talvolta in salita, avvicinandosi, a seconda dei casi, alle tradizioni locali, agli sperimentalismi estremi, alle musiche dotte, agli altri media: ciò che in Italia viene chiamato “jazz politico”, in Germania “Frei Musik”, in Inghilterra “improvised music”, in Francia “nouvelles musiques” altro non è che, simbolicamente, il frutto gustosissimo elaborato a partire dalla lezione di un certo Leroi Jones, alias Amiri Baraka.
Il libro
Franco Minganti e Giorgio Rimondi, romagnoli, massimi esperti italiani di jazz-literature curano dunque per l’editore Bacchilega Amiri Baraka. Ritratto dell’artista in nero che attualmente rappresenta il miglior viatico per conoscere l’opera e la figura di Everett Leroy Jones (poi Leroi Jones, Ameer Barakat, Imanu Amiri, Amiri Baraka). Il volume si apre con Notes For Some (Nominally) Awake, curiosa poesia visuale che Julie Ezelle Patton dedica al protagonista.
Segue una prima parte, Saggi, di undici analisi in cui la poliedrica attività del “guru” afroamericano viene anzitutto discussa da storici del jazz, mentre nella seconda parte Amiri Baraka, un’antologia, vengono infine raccolti diversi scritti (inediti per i lettori italiani) che coprono un arco di tempo dio quarant’anni esatti dai Tales (1967) a Diggin’ (2007) passando per Transbluesegency (1967), Black Music (1968), Autobiografia (1984), Eulogies (1996), L’ultimo Coltrane (2007). Illuminanti le ultime cinque righe del libro dal capitolo La musica nera come forza di cambiamento sociale: «L’arte è modellata dal mondo, ma contribuisce anche, in maniera dialettica, a modellare il mondo. E anche se i neri sono ovunque ai livelli più bassi della società mondiale dominata dall’imperialismo, la nostra musica ha già una grande influenza».
Discografia consigliata su compact-disc:
The New Art Quartet (1964)
It’s Nation Time – African Visionary Music (1972)
New Music – New Poetry (1982)
A Black Mass (1999).