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Gianni Lenoci: la continuità tra avanguardie e tradizione.
Il percorso di Gianni Lenoci nella musica di improvvisazione è tanto rigoroso quanto aperto alla possibilità di mettersi in discussione e all’intenzione di rileggere tradizione e avanguardia sotto una prospettiva personale e utile a dare nuovo impulso alla sua espressione musicale. Da Steve Lacy a Gianni Mimmo, passando per William Parker, Steve Potts, Vittorino Curci, Giacomo Mongelli, Marcello Magliocchi e Gaetano Partipilo: la tappe del cammino di Lenoci le vediamo nei dischi pubblicati per Silta Records e Long Song Records e nel suo impegno profondo nella didattica.
Jazz Convention: Partirei con una domanda generale. Il senso della libertà nel jazz: come interpreti questo aspetto, particolare e fondamentale allo stesso tempo, del jazz, dell’improvvisazione, della musica creativa?
Gianni Lenoci: Libertà e passione sono, per me, la verità ultima del processo creativo.
JC: Il Manuale del jazzista imperfetto risponde ad alcune degli spunti che ti ho lanciato prima?
GL: Il Manuale del jazzista imperfetto cerca più, se vuoi, di lanciare domande che offrire risposte. In realtà, questo libro è ancora allo stato sperimentale di work in progress. In un certo senso, vorrebbe essere il tentativo di radicalizzare i linguaggi del jazz nei loro archetipi fondamentali ed immutabili. Una sorta di terra di nessuno neutra da cui partire per l’organizzazione di un proprio vocabolario espressivo attraverso l’esplorazione di vari esercizi. Ad ogni modo, in forma di manoscritto, circola nella mia classe e tutti i miei studenti ne hanno copia.
JC: Naturalmente la musica, immagino, sia per te la vera risposta. Come si riflettono ragionamento, istinto, passione mediterranea nel tuo modo di intendere il jazz?
GL: Spero che questi aspetti convivano in maniera naturale nel mio modo di pensare e vivere il jazz. Anche se devo ammettere che, alla fine, è l’istinto che la fa da padrone. In particolare durante la performance. Circa l’aggettivo “mediterraneo” vorrei aggiungere che se esso emerge è per pura casualità. Non ho mai ritenuto che il mio vissuto musicale ed umano appartenga ad una o ad un’altra espressione geografica.
JC: Arriviamo alla discografia, partendo dai lavori usciti per Silta Records. Penso che in qualche modo l’intento che accomuna questi lavori sia l’utilizzo di melodia, rigore e racconto all’interno di una visione radicale e innovativa. Qual è il tuo punto di vista?
GL: Non ho mai sentito alcuna separazione fra tradizione ed avanguardia, quanto, al contrario, una fortissima continuità. Certamente una visione radicale ed innovativa è sempre presente come modus operandi nelle forme più alte di espressione artistica. Il problema della storia come mera successione di eventi credo sia irrilevante per il pensiero artistico. Quest’ultimo attinge leggiadro al serbatoio della memoria, in cui passato, presente e futuro convivono nello stesso istante dissolvendosi nel momento della creazione. Credo inoltre che liberarsi dal peso e dal giudizio psicologico della storia, sia necessario al jazz contemporaneo come l’aria che ci tiene in vita.
JC: Il tuo percorso rappresenta un corpus unitario dove si possono riconoscere alcune linee guida molto precise: la collaborazione con personaggi “integerrimi” della scena radicale, il dialogo con i musicisti più radicali del territorio pugliese e anche il riflesso di alcune esperienze didattiche.
GL: Il mio percorso artistico ha come fine ultimo soddisfare i miei appetiti estetici. Però ritengo che l’estetica non debba minimamente essere scissa dall’etica. In questo, le mie collaborazioni e le mie scelte hanno quasi sempre privilegiato artisti difficili al compromesso ma fedeli al loro vocabolario ed alle loro ragioni profonde del fare musica. L’esperienza didattica in tutto ciò è fondante. La cosa migliore che possa fare per i miei allievi è suonarci insieme e condividere esperienze. Non credo minimamente che l’insegnamento del jazz – ma questo varrebbe per tutte le forme d’arte – possa essere semplificato e ridotto ad una serie di rigide tassonomie. Ritengo che l’unica strada percorribile sia quella della bottega dell’arte. Tenendo conto in primis che l’obiettivo della scuola non è l’informazione, ma la formazione.
JC: In particolare, un tuo punto di vista sulla scena radicale pugliese che negli anni ha conosciuto esperienze di livello riconosciuto sia al livello nazionale che internazionale.
GL: La “scena radicale pugliese” è l’unica scena che resterà attiva e pulsante dopo che la kermesse “politico/populista” disimpegnata e modaiola, imperante nella Regione Puglia e che tanto piace a molti cosiddetti colleghi sempre pronti a cambiare impostazione culturale ad ogni piè sospinto, avrà terminato la sua ragione d’essere o per esaurimento di denari o semplicemente per autoestinzione.
JC: Un punto che mi piacerebbe sottolineare è la registrazione di Reciprocal Uncles insieme a Gianni Mimmo.
GL: È vero. Gianni Mimmo è un personaggio! One-of-a-kind, direbbero gli americani. A parte il nome di battesimo, pur provenendo da percorsi differenti, abbiamo moltissime cose in comune dal punto di vista delle passioni culturali e della visione del mondo. Oltre a condividere lo stesso tipo di umorismo. Tutto ciò inevitabilmente si riflette nella musica che facciamo insieme.
JC: La collaborazione con i personaggi storici delle avanguardie, ti ha portato in qualche modo a confrontarti con i tuoi punti di riferimento estetici, con le premesse di partenza del tuo percorso artistico?
GL: Il confronto con le mie premesse e ragioni profonde del fare musica è costante ed onnipresente. In fondo è tutto lì. Quanto ho fatto, faccio e spero farò, è il frutto di quel seme piantato tempo fa.
JC: E, naturalmente, immagino che in molte dei lavori e dei pensieri musicali aleggi lo spirito di un maestro come Steve Lacy. Cosa ha rappresentato per te questa figura?
GL: È certamente un punto di riferimento che ha permeato la mia formazione jazzistica tout-court. Probabilmente più in maniera deliberata che inconscia. Una delle cose che più mi ha affascinato in Lacy – a parte l’indubbio carisma e la profondità del suo messaggio sempre in bilico fra tragedia e humour surrealista – è stata la capacità di autoformarsi passando attraverso la lente di Monk. Ponendosi quindi “altro” rispetto al proprio strumento. Io ho solo rivoltato il processo. Attraverso Lacy spero di aver trovato altri “brilliant corners” utili per me.
JC: Per chiudere vorrei tornare sulla didattica, sia parlando degli aspetti più canonici, mi riferisco sia allo studio in Conservatorio e nei corsi invernali, che degli aspetti seminariali che accompagnano festival e concerti. Cosa manca in questo momento in Italia e cosa c’è di buono? E su cosa dovrebbe puntare una rassegna o un festival per organizzare un appuntamento didattico diverso se non innovativo?
GL: Credo che mediamente in Italia da parte delle istituzioni culturali, manchi coraggio e fiducia. In fondo tutto ciò si traduce in una sorta di dittatura della cultura a senso unico. Con il pericolo oramai imminente che il degrado del gusto sia ad un punto di non ritorno. Basterebbe forse incrementare la formula dell'”Artist-in-residence” affiancando a quest’ultimo giovani di valore – e pagandoli dignitosamente… – con l’obiettivo di produrre, scambiare esperienze e confronto, affinché i Festival siano luogo di crescita culturale, sul territorio e per il territorio, e non vetrine luccicanti ma vuote, che si ripetono più o meno uguali in ogni angolo della penisola senza lasciare alcuna traccia tangibile. Le cose più importanti per l’umanità le hanno fatte gli artisti visionari e non i mercanti d’arte. Bisognerebbe rimettere il linguaggio al centro della propria ricerca. C’è di buono che qualcuno ancora ci crede e continua a lavorare sulla propria mitologia personale e sul proprio vocabolario, consapevole che ogni musicista di jazz deve fare storia a sé. La musica d’arte deve tornare prepotentemente a partecipare al dibattito delle idee, altrimenti la vedo molto dura per le generazioni future.