Foto: copertina del volume
Dave Van Ronk e il jazz.
Village o The Village per gli Americani è l’abbreviativo di Greenwich Village, una parte quasi periferica di Manhatthan, che nel primo Novecento ospita piccole fabbriche e svariate manifatture, ma che pian piano, dagli anni Cinquanta, si trasforma nel quartiere degli artisti, vivendo un po’ come nella bohème parigina, tra giovani, squattrinati, alternativi e soprattutto nuovi talenti in cerca di un successo che tocca quasi sempre uno su . Il Village ha un momento di grande notorietà nei prima metà degli anni Sessanta, fino a cambiare pelle ancora una volta e mutarsi oggi – ma ormai da trent’anni – in zona residenziale modaiola, però ancora intrisa di spirito maudit e vena scapigliata.
A glorificarne ora un’epopea, tutto sommato limitata ad alcuni poeti beat e una più o meno agguerrita schiera di folksinger provenienti da tutti gli Stati Uniti, pensano Joel ed Ethan e Coen, i celebri fratelli registi, attraverso il loro nuovo lungometraggio In cerca di Davis, attualmente nelle sale italiane. Il film, di per sé molto bello, è ispirato alla vita di Dave Van Ronk, autentico cantautore newyorkese, nato a Brooklyn il 30 giugno 1936 e morto nella Grande Mela il 10 febbraio 2002; nell’opera dei Coen, Llewyn Davis è un giovane barbuto – assai più bello dell’originale – narrato attraverso una settimana di peripezie esistenziali nel gelido febbraio del 1961, tra localini scalcagnati, impresari cinici, donne inaffidabili, discografici spietati, viaggi in autostop, intrusione di gatti rossi, vagabondaggi da un alloggio all’altro in cerca di un letto per dormire o di cappotto per ripararsi dalle intemperie, visto che il ragazzo è in pratica senza fissa dimora: gli unici a mostrarsi amici e solidali sono una coppia di anziani docenti di antropologia.
Ma quanta realtà o quanta fiction nella pur notevolissima messinscena dei Coen? Non è una domanda fondamentale dal punto di vista cinematografico, dal momento che la pellicola vive bene di luce propria. Certo è che tanto la ricostruzione storica puntigliosa quanto i riferimenti indiretti ad altri artisti (Bob Dylan, Doc Pomus, Peter Paul & Mary, Ramblin’ Jack Elliott, eccetera) stimolano la curiosità ad approfondire il discorso e a calarsi su un aspetto della cultura a stelle e strisce tutt’altro che trascurabile. Ecco allora che in aiuto giunge puntuale l’autobiografia di Dave Van Ronk dal titolo Manhattan Folk Story pubblicata da Rizzoli per l’occasione, quasi in concomitanza con uscita di A proposito di Davis (non a caso il tomo di oltre 400 pagine in vendita ha pure la faccetta con la locandina del film).
Il libro viene originariamente pubblicato negli Stati Uniti nel 2005 con il titolo di The Mayor of Mac Dougal Street (letteralmente “il sindaco di via McDougal”, ovvero il soprannome per Dave Van Ronk da parte degli abitués del Village) ed è una sorta di memoir in cui lo stesso cantautore percorre, in maniera non sempre compatta, le proprie gesta artistico-musicali allargando il dibattito all’intera questione della folk song americana riscoperta, non dal popolo, ma dagli intellettuali, nella New YorK City di metà anni Cinquanta: e si arriva quindi a illustrare dettagliatamente il periodo del “grande boom” di questa tipo di canzone popolare (“boom” è la sarcastica definizione di Utah Philips della Great Folk Scare) a inizio Sixties, che vedrà il trionfale successo di Bob Dylan in primis, seguito da quello di Joan Baez e in misura assai minore dei vari Phil Ochs, Tom Paxton, Ramblin Jack Elliott, Fred Neil, Richard & Mimi Farina, Judy Collins, Peter Paul & Mary, Barry McGuire, Tim Hardin, Buffy Sainte-Marie, Eric Andersen e di molti altri folksinger che vivono, grosso modo tra il 1959 e il 1966, il proverbiale “quarto d’ora” di celebrità.
Il noto musicologo Elijah Wald, con sincera onestà intellettuale, dice nella postfazione a Manhattan Folk Story che il testo in molti punti si discosta dalle intenzioni dell’Autore, anche a causa della grave malattia e della repentina scomparsa a 65 anni di Dave Van Ronk medesimo, che non riuscirà a condurre a termine la stesura definitiva del volume stesso: impossibile ottenere adesso (nemmeno da colleghi, parenti o amici ancora in vita) la contropartita del valore del libro nel progetto originario: non si saprà mai insomma se del rispetto dei propositi nelle intenzioni dell’Autore; tuttavia si può affermare che Manhattan Folk Story, così com’è, resta una testimonianza diretta importantissima per le vicende della musica folk americana, con un esito anche stimolante dal punto di vista della lettura.
In quest’ottica, però, strettamente musicologica, Manhattan Folk Story non è né una storia completa né una disamina organica della scena cantautoriale newyorchese, bensì un racconto sincero in prima persona di un periodo per molti aspetti straordinario, che uno dei tanti protagonisti di allora rivede e rilegge con un atteggiamento disincantato e talvolta critico: in altre parole Dave Van Ronk non risparmia simpatie e idiosincrasie, a livello personale, verso l’entourage artistico di un Village popolato da musicisti, cantanti, suonatori, impresari, scrittori, imbroglioni: tuttavia l’atteggiamento vigile non è mai duramente severo, anzi lo stile narrativo adottato è consapevolmente ricco di humour e autoironia, in grado di sprigionare improvvisa vivacità nell’evocare luoghi, aneddoti, persone, amenità: da pagina a pagina talvolta affiora una vis comica rimarchevole, soprattutto quando l’Autore racconta in dettaglio alcuni episodi al limite dell’assurdo o del surreale.
Del resto è il protagonista medesimo a possedere un atteggiamento decisamente eccentrico e un carattere anticonformista, a partire dal proprio iter artistico-musicale, che comincia nell’ambito del jazz, dal tocco jug e swing, giungendo, con la sola voce accompagna dalla chitarra acustica (e talvolta da strumenti consimili come la 12 corde, il dulcimer, l’arpa), al repertorio folk bianco e afroamericano, fino a incorporare il ragtime strumentale chitarristico e il blues classico campagnolo. Il racconto di Dave Van Ronk è insomma retrospettivamente lontanissimo da compiacenze o da nostalgie del “tempo perduto”: anche solo a leggere come dipinge i localini del Greenwich entrati nella leggenda (Gaslight, Gerde Folk City, Kettle of Fish, eccetera) ci si rende conto che i “templi della canzone” sono in realtà sordide topaie al di sotto degli standard minimi prescritti dall’ufficio di igiene americano con gestori (come il mitico Pappi Corsicato, anagraficamente inventato sull’odierno amico regista italiano) che amministrano in maniera “disinvolta” quanto avviene prima, durante e dopo la scena.
Esiste poi, in Manhattan Folk Story, un altro fil rouge che riguarda una questione di gusto e di estetica, per via del perenne battagliero contrapporsi tra i puristi e “moderni”, tra gli stessi folksinger come pure in mezzo al pubblico: in quei primi anni Sessanta, al Village, tutti o quasi paiono estimatori del folk, mentre come spiega giustamente Dave Van Ronk, da un lato agiscono gli artisti caratterizzati da un approccio filologico alla materia sonora in quanto votati anima e corpo alla “nobile causa popolare”, e dall’altro prosperano gli interpreti che somministrano una versione edulcorata e modaiola (in tal senso, The Kingston Trio è il bersaglio prediletto dall’Autore) delle tradizioni folk; il cantautore “impegnato” distingue come “bambini viziati” gli esponenti del folclore “leggero”, ventenni insomma che negli anni dell’università vogliono concedersi una vacanza pseudo-ribelle o simil-politica, appena prima di laurearsi e avviarsi alle “splendide” carriere di medici, ingegneri, notai o avvocati.
La polemica sul purismo del folk bianco – che ha strascichi pesanti anche in altri generi affini dal blues al jazz, dal gospel al country – oggi forse suscita ilarità, ma per tutti i “favolosi” anni Sessanta si generano dibattiti furibondi tra le opposte fazioni, sino a culminare simbolicamente nella dura contestazione a Bob Dylan quando al Newport Folk Festival del 1965 si presenta alla chitarra elettrica e accompagnato da una rock band. Proprio come l’esistenza di Dave Van Ronk Manhattan Folk Story appare un testo quindi disomogeneo con parecchi squilibri da capitolo a capitolo: c’è ad esempio, una parte fin troppo lunga e prolissa (perché non aggiunge molto al tema centrale del volume stesso) quando l’Autore racconta del viaggio da Costa a Costa, nonostante gli aspetti buffi e rocamboleschi della “faticosa” traversata .
Sono invece rimarchevoli dal punto di vista musicale, le brevi monografie che il folksinger dedica a diversi artisti, partendo dai vecchi bluesman (rimossi per decenni dallo show business, fino appunto alla riscoperta da parte del nuovo movimento folk) i cui dischi degli anni Venti-Trenta hanno un impatto decisivo in America (e poi anche in Inghilterra) sulla nascita di nuovi generi sonori soprattutto grazie alle ultime generazioni: è dunque merito dei giovani cantautori come Dave Van Ronk se figure storiche – quali il Reverendo Gary Davis, chitarrista rag e blues – vengono ritrovate in lontani paesini del Profondo Sud, dove conducono vite povere, anonime, tranquille ed esistenza: ma questi anti-eroi portati quasi di forza in pubblico, fra teatrini e coffee house delle grandi metropoli, dove studenti, beatnik, intellettuali, etnomusicologi corrono a sentirli, strappano applausi a scena aperta; e magari qualche discografico riesce pure a fare incidere a loro qualche nuovo album con i brani d’antan (interpretati con lo spirito dell’epoca come a fermare il tempo).
La galleria di personaggi illustrata in Manhattan Folk Story vanta quindi musicisti dalle storie variegate, come ad esempio la vicenda stupefacente di Ramblin’ Jack Elliott, rampollo di una agiata famiglia di medici bianchi newyorkesi che molla tutto per seguire le orme del beniamino Woody Guthrie, il cantautore di Okemah (1912-1967) che per tutti simboleggia il nume tutelare della folk music e della protest song; e non ancora rassegnata alla “carriera” del figlio, la signora Adnopoz (vero cognome di Ramblin’ Jack Elliott) è descritta seduta in prima fila ad ascoltarlo in un recital, quando non riesce a trattenersi dal notare che il ragazzo possiede bellissime mani, non da chitarrista, ma da perfetto chirurgo. Non manca nel libro Bob Dylan e una polemica (molto seguita negli ambienti dell’epoca) che lo contrappone allo stesso Dave, il quale l’accusa di rubargli l’arrangiamento del brano House Of Rising Sun per poterla registrare nel primo album a suo nome (poi in chiave rock dagli inglesi Animals); tra l’altro l’Autore spiega che la dimora del sole nascente nella Crescent City non risulta una casa di tolleranza, secondo la tradizionale accezione, bensì la locale prigione femminile.
Se da un lato con il menestrello di Duluth, Van Ronk non è tenero (benché lo stesso Bob Dylan affermi a posteriori che Dave Van Ronk è il migliore di tutti al Village), dall’altro ha per il compianto Phil Ochs (morto suicida dopo una malattia alle corde vocali che non gli consente più di cantare) parole di stima, affetto e commozione, sino a ritenerlo forse il più grande di quella generazione. Infine nei confronti di Pete Seeger, allora già ultraquarantenne, nonché figura di riferimento (dopo Woody Guthrie) per l’intero folk movement, Dave Van Ronk, nel libro (ma anche nella vita) prende un po’ le distanze, giacché non ne condivide le scelte musicali e l’ideologia progressista “moderata”, benché in un articolo da lui scritto per la testata Caravan si possa leggere chiaramente: «A mio avviso, quest’uomo è la personificazione del gusto e dell’onestà».
Ma chi è esattamente Dave Van Ronk oltre il libro e il film? Newyorchese fino al midollo, con madre di origini italiane e papà di remota ascendenza fiamminga, a quindici anni nel 1951 si sposta dalla natia Brooklyn al Queens per completare gli studi nella Holy Child Catholic High School, ma già dal 1949, seguendo l’istinto delle passioni, si esibisce, alla voce con uno stile Barbershop Quartet, un gruppo a cappella che, seguendo una tradizione precipuamente afroamericane, canta jazz, gospel, folk nei saloni da barbiere, per raccogliere qualche spicciolo. Il carattere indomito non gli consente di finire le scuole superiori, preferendo passare gli anni successivi a vagabondare per una Manhattan sempre più sfavillante, ma piena anche di quartierini alternativi.
Ed è appunto in uno di questi, il già citato Greenwich Village, che si trasferisce per fare l’artista, interessato altresì a girare il mondo alla stregua di alcuni celebri letterati; ed è per ciò (o forse anche per una delusione amorosa) che in quel periodo si imbarca come marinaio sulle navi da marina mercantile. Le prime autentiche esperienze in campo musicale, a livello di ingaggio professionistico, avvengono all’interno di alcune jazz band nell’area di New York, a proporre grosso modo il cosiddetto dixieland revival, anche sempre tra jug e swing; e per quanto concerne il sound di questi gruppi ammette con innocente sarcasmo: «Eravamo intenzionati a suonare il jazz tradizionale nel modo peggiore possibile, e lo facemmo!».
Il suo jazz tuttavia non prende piede e Dave Van Ronk inizia a dedicarsi al blues che da sempre ama grazie alla conoscenza di bluesman quali Furry Lewis e Mississippi John Hurt. Di certo Dave Van Ronk non è in assoluto il primo bianco a suonare il vecchio blues nero, però si fa notare da pubblico e critica per uno stile interpretativo originalissimo, soprattutto a partire dal 1958 quando comincia con un repertorio popolare (yankee e afroamericano) accompagnando la propria voce con la sola chitarra acustica; e sui dischi o ai concerti alterna sovente inedite composizioni a nuovi arrangiamenti di brani di “classici” della prima era folk, jazz, blues, contribuendo così a rivalutare, come già detto, alcune figure leggendarie o per contro dimenticate, in coincidenza con il movimento revivalistico (anche in etnomusicologia) che di lì a poco si estenderà all’intera America e nel mondo intero.
Il primo album a nome Dave Van Ronk è Sings Ballads, Blues & Spiritual nel 1959, per l’etichetta discografica Folways Records di Moses Asch; di un anno prima è invece la prima registrazione ufficiale Skiffle In Stereo a nome degli The Orange Blossom Jug Five: da allora fino al 2005 (con tre dischi postumi) seguiranno trentun album ufficiali di cui il maggiore resta forse Inside Dave Van Ronk (1964) citato in ogni discografia: difficile sceglierne altri, perché alla fine tutti risultano di buon livello, però vanno segnalati, in parallelo a Inside i due jazzy Dave Van Ronk And The Red Onion Jazz Band: In The Tradition e Dave Van Ronk And The Ragtime Jug Stompers (entrambi ancora 1964). E quasi vent’anni dopo risultano notevoli St. James Infirmary e Dave Van Ronk In Rome (tutti e due 1983), quest’ultimo a denotare i frequenti rapporti con il nostro paese che gli valgono nel 1985 la Targa Tenco alla Rassegna della Canzone d’Autore di San Remo. Non va nemmeno dimenticata la simpatia per il cabaret tedesco ci cui Let No One Deceive You: Songs of Bertolt Brecht (1990) cantato con Frankie Armstrong resta una testimonianza notevolissima.
Oltre l’impegno artistico-musicale, fin da subito c’è per Dave Van Ronk la militanza politica, nel senso che durante gli anni Sessanta supporta il cosiddetto “movement”, la frangia della sinistra radicale che appoggia con vigore le cause per i diritti civili, anche ben oltre il pacifismo di prammatica, sino a diventare membro della Lega Libertaria e del Comitato Trotskyista Americano per la Quarta Internazionale. Nel 1969 il folksinger si trova coinvolto suo malgrado nei Moti di Stonewall (per i diritti dei gay), durante i quali viene arrestato e imprigionato per un breve periodo e nel 1974 partecipa, con Pete Seeger, Arlo Guthrie, Bob Dylan al recital An Evening with Salvador Allende voluto da Phil Ochs per aiutare i rifiugiati politici cileni, vittime del golpe del dittatore Augusto Pinochet. Dave Van Ronk continua a suonare ininterrottamente per quarant’anni tenendo l’ultimo concerto a pochi mesi dalla scomparsa causata da un’insufficienza cardiopolmonare mentre viene ricoverato in ospedale per un cancro al colon e mentre sta lavorando appunto a The Mayor Of MacDougal Street.
Pur senza la notorietà di Bob Dylan o Joan Baez, Dave Van Ronk resta nell’immaginario collettivo statunitense come una figura di spicco dai molteplici interessi culturali. Di stazza vistosa, baffi e barbetta sul mento, sempre vestito casual, aria da intellettuale, insomma personalità carismatica, che ama cucinare per gli ospiti, che scrive di storia, politica e fantascienza per diverse fanzine e – cosa rara per un nordamericano – estraneo al mondo dei motori: non impara a guidare la macchina, né s’interessa a prendere la patente, preferendo treni, navi o autostop. Amico personale, oltre Dylan (al di là delle ripicche), di numerosi altri folksinger fra cui il citato Ochs, Tom Paxton, Patrick Sky e Joni Mitchell, Dave Van Ronk, come afferma in parecchie interviste, trova da sempre sorprendente il fatto di essere considerato una leggenda del proprio tempo, di cui finalmente oggi, anche in Italia, con il film A proposito di Davis e con il libro Manhattan Folk Story si celebra l’epopea.