JazzWerkstatt – JW141 – 2013
Helga Plankensteiner: sax baritono, voce
Matthias Schriefl: tromba
Gerhard Gschloeßl: trombone
Enrico Terragnoli: chitarra, banjo
Michael Lösch: organo Hammond, pianoforte
Nelide Bandello: batteria
Le radici atesine della titolare giocano come un cardine e un punto di vantaggio nel mediare, nell’assortito plotone germano-italico, il rigore continentale – quantunque lieve – con l’estro e il senso del colore peninsulare, in ciò volendo assai schematizzare, non essendo affatto così estremi (anzi per lo più prealpini) i due versanti d’Europa qui rappresentati, e apparendo tutti gli sperimentati componenti piuttosto rodati nell’eclettismo d’approccio al metodo e al performing, non fosse per le note, comuni militanze di buona parte degli stessi.
Una linea “seriosa” impronta un generale controllo di qualità, speziato da inquieti fermenti europeisti che si stemperano nell’ampio respiro ellingtoniano (Never ending Blues), da setose, solarizzate ma non del tutto quiete atmosfere “Dixie” (in Comes Love e nella gershwiniana They can’t take that away from me), reinvenzioni dei climi da TV-movies d’annata, come nella “tarantiniana” parentesi di Quentin, e una diversa esposizione in intimismo lancinante del solismo di Plankensteiner in Tangomatango s’anticipa nel tono vespertino e apertamente da club di No Ballad no Crime dove si rimette in gioco, sovradimensionandosi verso una dimensione a tinte ispessite e apertamente più tribali, virando verso le tensioni metalliche e laceranti dell’epilogo Tears.
L’impronta corrosiva delle individualità dei partecipanti non osta un costruttivo sviluppo, e la saxbaritonista-leader, che s’adopra anche come dotata vocalist dal timbro autorevole e vetroso, è a proprio agio nell’imbastire ed orchestrare con destrezza un personale linguaggio elettro-acustico e guidare con lieve rigore la falange, esperita in colore marcato e sberleffo, pur convogliati in una generale disciplina, di soundscape peculiarmente conformato e sospinto dalle ondate dell’organo Hammond, dagli squilli mai domi e dai borbottii corrosivi degli ottoni, dai guizzi spiritati delle corde e dagli schemi aperti della batteria.
Orientando i flussi partecipativi lungo un assortito programma, il Plankton in forma di sestetto si mantiene a galla sospinto da coralità cospirative e sghembe, da ispirazioni lunari e lunatiche alternanze di tono, dalla dimensione di danza di “edificante” gusto post-bellico e da una “sana”, pervasiva e variamente sfumata dominante ironica, fissando dinamici punti di sintesi fra assortiti raccordi di stile e riconducendo i vari livelli dell’eterogeneo programma ad una sfaccettata estetica e ad un’agitata ma funzionale meccanica sonora.