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Slideshow. Alberto Springolo.
Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Alberto Springolo?
Alberto Springolo: Un settantaquattrenne milanese che ha dedicato gran parte della sua vita,oltre che alla famiglia e al lavoro in una Assicurazione,alla musica jazz, in particolare al traditional (New Orleans, Dixieland, Swing) come musicista e a tutte le altre correnti del jazz come appassionato cultore di questa musica.
JC: Mi racconti il primo ricordo che hai della musica?
AS: Durante l’infanzia le canzoni e le opere liriche che i miei genitori ascoltavano alla radio.
JC: Mi racconti in breve la tua carriera musicale?
AS: In breve è un po’ difficile: ho iniziato verso i quindici anni a studiare la chitarra,prestata da un amico (di nascosto da mio padre) per far parte dell’orchestrina della Scuola (canzoni, musica da ballo) che vinse “Il primo applauso studentesco”. Poi, suonando in locali e feste da ballo per studenti organizzate da Giulio Rapetti, ora Mogol, ho comprato finalmente una bella chitarra. L’orchestrina si sciolse nonostante i successi (Concerto con Renato Carosone al Teatro Carcano). Dopo aver conosciuto il jazz, sollecitato da Lino Patruno, sono entrato nella band chiamata Milano Dixieland Group e diretta da Enrico De Carli (con tanti concerti e due Crociere su una nave spagnola). Abbandonati dal contrabbassista, la band mi impose di prendere il suo posto, così sono passato al contrabbasso sotto la guida del grande Marco Ratti e di un professore della Scala.
JC: Poi, se non erro, sei passato nella celebre Bovisa New Orleans Jazz band?
AS: Sì, nella Bovisa, con il primo ingaggio Festival di Francoforte nel 1964 e ho suonato anche nella Milan College Jazz Society, ricevendo il primo ingaggio in una tournée oltre cortina: precisamente in Ungheria nel 1965: Del resto ho fatto il contrabbassista in quasi tutti i gruppi revival lombardi come la Milano Jazz Gang e la Milan Riverside Jazz Band, con le quali abbiamo registrato vari dischi e passaggi televisivi TV, improvvisando in concerto anche con famosi dixielanders americani.
JC: Quindi, a un certo punto hai voluto metterti in proprio…
AS: Nel 1975 ho allestito una mia formazione, la Foggy City Dixieland Band, che suonava sia nei locali dei Navigli, in particolare al Capolinea e alle Scimmie, sia in zona Brera: il primo ingaggio importante l’ho avuto con un tour in Ecuador nel 1976, descritto anche in articolo su Musica Jazz. Sono seguiti tanti spettacoli nonché l’invito a Umbria Jazz dal 1981 fino al 2000.
JC: E in parallelo alla Foggy?
AS: In tutto il periodo, ho suonato in altre diverse formazioni dell’area padana (come la Manager Jazz Band, il nome ti dice già tutto), ma anche ligure (nelle Crociere su navi della Costa ) e con i romani Carletto Loffredo e Renzo Arbore. Con un organico ridotto a quartetto ci siamo pure esibiti a Sibiu in Romania nel 2007, nel 2008 e nel 2009 con grandissimo successo. Da qualche anno partecipo in qualità di docente, con Gaetano Liguori, al corso “Storie del jazz” alla Università UniTre di Milano, dove organizzo anche concerti chiamando le “vecchie glorie” che hanno suonato con me.
JC: Avresti qualche aneddoto curioso?
AS: Comincerei con Foggy City Dixieland Band, formata da qualche mese, suonavamo alla Taverna Greca Thanassis sul Naviglio Grande quando una sera del 1976 un gruppo di ricchi sudamericani ci proposero la tournée in Ecuador di cui ti ho appena parlato. Pensavamo a una spacconata ma, dopo che ci giunsero i biglietti aerei di andata e ritorno, l’avventura cominciò con notevole successo tanto che tornammo anche nel 1978…
JC: E in Italia?
AS: Dovevamo suonare a Siena all’aperto, in una piazza, e avevo lasciato al batterista l’incarico di richiedere telefonicamente quanto serviva:”I piatti li porto io, mi servono grancassa e due timpani” Così arrivò un furgone che scaricò sul palco una enorme grancassa e due timpani da orchestra sinfonica. Puoi immaginare gli sfottò al malcapitato:”Ora suonaci l’Aida!” eccetera…
JC: C’è mai stata qualche battuta sul nome, Foggy, della tua band?
AS: Sì, sai quante volte ci chiesero: «Foggy City, ma allora siete di Foggia?» E a proposito di Foggia una volta partiamo per il Festival Jazz di Foggia con due cantanti di colore, Bunny Foy e Edith Peters, che alla Stazione di Milano procedevano verso il treno chiacchierando allegramente seguite da alcuni della Band che portavano, con fatica, anche le loro valigie. Il trombonista Luciano La Neve a un certo punto esclama: «…e pensate che una volta erano i neri che portavano le valigie dei bianchi!»
JC: Ma qualcosa di più spericolato?
AS: Al carnevale di Ivrea, per promuovere il concerto serale, avevano organizzato un giro della Band su un carro trainato da un cavallo. Alle prime note il cavallo iniziò una corsa sfrenata tra due ali di folla con grave pericolo per il pubblico; presi dal panico smettemmo di suonare finché il conducente non riuscì a frenare l’animale imbizzarito deviando la corsa su una strada secondaria. Ovvio che la promozione proseguì come “marching band”.
JC: Torniamo alle cose serie, Alessandro, quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista di jazz?
AS: L’amore per il jazz iniziò già quando suonavo musica da ballo e furono dischi 78 giri e un concerto della Milan College Jazz Society ad aprire la mia mente e il mio cuore:ho capito che gran parte della musica che suonavo derivava dal jazz e ho deciso di seguire quella strada…
JC: E perché hai scelto il contrabbasso?
AS: Vero che fui spinto dalle circostanze a suonare il contrabbasso ma era da tempo che questo strumento mi affascinava: nel 1959 un concerto del Modern Jazz Quartet con il suono dello stupendo strumento di Percy Heath e poi cercavo dischi dove il contrabbasso si udiva meglio… In seguito mi innamorai dello strumento per il suono, per la possibilità di coniugare ritmo e armonia e perché in ogni gruppo di jazz il contrabbasso è un motore indispensabile. Ho frequentato anche corsi liuteria e sono collezionista di questi strumenti che noleggio ai jazzisti americani in concerto a Milano.
JC: Ma cos’è per te il jazz?
AS: La musica che più di ogni altra esprime la civiltà moderna a partire dal 1900 e che consente ai musicisti di esprimersi nell’improvvisazione,cioè in libertà. Per me è la possibilità di suonare assieme ad altri musicisti anche per la prima volta e trovare subito un’intesa grazie non solo all’esperienza,ma anche a un certo feeling che unisce tutti i jazzisti del mondo.
JC: Sei un jazzista traditional, ma cosa ne pensi del jazz moderno o d’avanguardia?
AS: Non sono tra quelli che dicono: “Il jazz è morto nel 1929!”. Assieme al traditional ho seguito con grande interesse l’evoluzione del jazz moderno: Parker, Davis, Mingus, Coltrane sono tra i miei preferiti. Tra le avanguardie non mi hanno convinto alcuni inserimenti di musica etnica e di musica rap…
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ a tutta la musica jazz?
AS: Quello che più mi affascina e incuriosisce nella musica jazz è la continua evoluzione, anzi la “rivoluzione permanente” e la contaminazione tra musica “nera”, tradizione europea e le varie culture del mondo. Nel novecento da me vissuto la letteratura e le arti figurative hanno preceduto o seguito la rivoluzione che il jazz ha portato nella musica.
JC: Tra i dischi che hai fatto ce n’è uno a cui sei particolarmente affezionato?
AS: Con la Bovisa e la Milan Riverside ho partecipato a numerose registrazioni per lo più con jazzisti americani ospiti. Sono particolarmente affezionato a un disco autoprodotto della mia Foggy City Dixieland Band del 1990 dove si sente una bella atmosfera e della musica non di routine. Registrato una mattina dalle 9 alle 13 dopo che avevamo suonato al Club 2 fino alle due della notte precedente!
JC: Tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?
AS: Sono indeciso tra Changes One di Mingus e My Favorite Things di Coltrane prima versione.
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
AS: Tutti i musicisti da me frequentati o anche solo ascoltati mi hanno insegnato qualcosa… Certo non posso dimenticare il contrabbassista Marco Ratti che mi ha seguito e incoraggiato. Per la cultura, già da ragazzo leggevo sempre la terza pagina del Corriere e di altri quotidiani che non mancavano in casa e poi gli scrittori americani della beat generation, Moravia, Pasolini… Per la cultura jazzistica son grato a Arrigo Polillo e a Vittorio Franchini.
JC: E i contrabbassisti che ti hanno maggiormente influenzato?
AS: Ray Brown per precisione,cavata e swing (ho studiato il suo metodo fin dove ho potuto) George Mraz eccellente e fantasioso accompagnatore, Percy Heath per il suo puntuale sostegno non solo nel Modern Jazz Quartet, sono alcuni che prendo ad esempio perché il mio ruolo nella sezione ritmica del jazz tradizionale è sempre stato quello di “accompagnatore”.
JC: Qual’è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
AS: Sono stati gli anni 80/90 perché avevo raggiunto una certa maturità artistica e strumentale grazie alle sempre più frequenti occasioni di suonare e di ascoltare musicisti italiani e stranieri. A Milano c’era un gran fermento per il jazz che si suonava non solo nei locali ma anche nelle manifestazioni del Comune, feste di quartiere, dell’Unità, della birra, ‘Musica nel Metrò’, conventions, saloni fieristici e in tante altre occasioni… C’era anche una emittente privata, Europa Radio Milano, che trasmetteva jazz tutto il giorno anche con concerti live ai quali ho partecipato più volte.
JC: Quali sono i musicisti che più ti hanno colpito nelle tue frequenti collaborazioni?
AS: Per citare alcuni della mia Band, Franco Tolomei grande tromba armstronghiana, Paolo Tomelleri, clarinetto, ancora in grande attività, e poi sono orgoglioso di essere stato il primo leader di giovani, strepitosi talenti come Stefano Bagnoli (con me a 16 anni ), Alfredo Ferrario al clarinetto, Rossano Sportiello al pianoforte: con loro avevo formato un quartetto swing, Spring Time Jazz 4tet, prima che prendessero il volo verso contesti internazionali. Tra coloro che ho frequentato in altre occasioni Gianni Basso e Luigi Tognoli sax, Franco Cerri e Sandro Di Pisa chitarra, Renato Sellani pianoforte, Carlo Sola e Gian Piero Prina batteria, la cantante Bunny Foy.
JC: Come vedi la situazione della musica oggi a Milano?
AS: Per la musica classica ci sono delle importanti realtà (l’Orchestra Verdi) e una stagione abbastanza ricca di eventi… Per la musica pop/rock non mancano i mega concerti a tutte le stagioni e i musicals sempre più di moda… Il jazz è molto trascurato rispetto agli anni in cui ho iniziato a frequentarlo: i concerti sono limitati al Blue Note e alla rassegna Aperitivo in concerto del Teatro Manzoni. In città ci sono circa 40 locali che programmano musica dal vivo per uno o due giorni alla settimana e dove si suona anche jazz, ma senza una seria organizzazione e sfruttando i musicisti… Il jazz tradizionale è presente da qualche anno al Caffè Doria con programmazione bisettimanale.
JC: E dei nuovi jazzmen italiani cosa pensi?
AS: Ci sono giovani musicisti provvisti di un livello tecnico ben superiore a quello dei miei inizi, grazie alle varie Scuole, che non hanno la possibilità di esibirsi. Inoltre, il pubblico giovanile che frequenta certi locali non segue la musica dal vivo che viene scambiata per il solito “rumore” di sottofondo propinato dai vari DJ.
JC: E più in generale della musica e della cultura in Italia?
AS: Limitando la mia analisi alla musica jazz devo ammettere che in Italia conosco delle realtà molto interessanti in Emilia, Veneto, Friuli, Puglia, Sicilia, Sardegna. In queste Regioni un’attività culturale molto vivace consente ai jazzisti di esprimersi in manifestazioni varie che si svolgono prevalentemente d’estate. La crisi ha tuttavia ridimensionato Umbria Jazz e molte altre belle iniziative locali. Dicono che i jazzisti italiani sono secondi al mondo dopo gli americani, ma, per farsi notare e apprezzare devono andare all’estero…