La trentaquattresima edizione dell’Open Jazz Festival

Foto: Mariana Michalcikova










La trentaquattresima edizione dell’Open Jazz Festival.

Ivrea/Banchette/Bollengo – 19/22.3.2014


Dopo l’esordio con Enten Eller, ospite Javier Girotto a Bollengo, di cui non si può rendicontare, il festival si sposta in una delle sue sedi tradizionali, la sala Pinchia di Banchette. Qui ritorna Paolo Fresu, già protagonista nell’edizione autunnale del 2011 in coppia con Uri Caine su questo stesso palcoscenico. Stavolta al suo fianco siede Daniele Di Bonaventura al bandoneon, già suo partner di un’incisione per la Ecm dal titolo Mistico mediterraneo. Si capisce al volo che fra i due musicisti c’è voglia di divertirsi e di divertire. Il trombettista, da subito, assume il ruolo di gran cerimoniere, illustrando il menù dell’esibizione: «È una serata di musica, sarebbe improprio etichettarla solo come jazz afferma in prima battuta.» E ancora: «Eseguiremo a modo nostro un po’ di tutto, ma non chiedeteci di riproporre il tango, tanto più che il bandoneon non è uno strumento originario dell’Argentina, bensì della Germania.» E via discorrendo, fra un intermezzo meno scherzoso e altri nettamente giocosi. Quando suonano, però, i due fanno decisamente sul serio. Fresu usa tromba e flicorno e si appoggia sull’elettronica per moltiplicare le sue frasi, creando un effetto alone altamente suggestivo. I suoi interventi sono sapienti, discorsivi, espressivi. Di Bonaventura, da parte sua, non dice una parola, ma lascia parlare il suo strumento, costruendo una tessitura arabescata, però a maglie larghe, su cui può infiltrarsi il timbro trattato degli ottoni. È un botta e risposta assolutamente paritario. Non c’è un vero leader nel duo. Il repertorio scelto si muove da Jobim a Victor Jara, fino a comprendere incursioni nel folklore bretone. Si sente pure un motivo a firma di Di Bonaventura dal suo ultimo doppio cd. Eccezionalmente, per contraddire l’assunto iniziale, viene proposto, a un certo punto, il celeberrimo tango La cumparsita. Riceve applausi convinti la rilettura di Non ti scordar di me, evergreen a cui Fresu tiene molto per averla usata nella colonna sonora di un film di Olmi, I centochiodi. È tutto il concerto, però, ad essere seguito con partecipazione, in un clima festoso, da un pubblico numerosissmo. E i due bis richiesti con ripetute ovazioni suggellano un inizio più che promettente per la rassegna canavesana.


Il 21 marzo al teatro Giacosa di Ivrea esordisce il duo Barbiero-Raviglia, reduce dalla registrazione di Gabbia, disco appena pubblicato dalla Spasc(h). Introduce il concerto lo scrittore Claudio Morandini. Il concetto di gabbia come spazio circoscritto da sbarre fa pensare per contrasto alla possibilità di evadere da questa prigione, di superare gli ostacoli, di infrangere le regole per procedere liberi da lacci troppo insidiosi e stretti. Così i due danno luogo ad un’esibizione breve, non più di quaranta minuti, ma molto intensa, segnata da un tipo di scambio fuori dagli schemi, oltre i collegamenti diretti con qualsiasi tradizione. La Raviglia conduce il gioco e alterna spezzoni con un andamento cantilenante, di tipo folk, a recitativi incomprensibili, ma musicali nella forma, all’emissione di versi e versacci o di vocalizzi impossibili. La voce viene raddoppiata spesso dalla loop station e in più, ogni tanto, la musicista percuote il pianoforte per cercare altri sussidi timbrici. Barbiero ascolta la cantante e risponde edificando impalcature ritmiche contromano, cercando suoni naturali dalle sue percussioni, preoccupato di non saturare il quadro complessivo con un atteggiamento accorto, agendo di rimessa, per aggiungere solo gli elementi ritmici necessari o indispensabili. In primo piano sulla scena agiscono le due danzatrici Francesca Cola e Giulia Ceolin con movimenti simbolici, gesti eloquenti e figure ben coordinate con le composizioni-improvvisazioni del duo alle loro spalle. Gli applausi, alla fine, premiano un set di sicuro spessore, ma non di certo facile fruizione.


A questo punto è il turno dell’incontro fra Antonello Salis e Hamid Drake, collaboratori abituali nel gruppo Giornale di Bordo, Il tastierista sardo innesta subito le marce alte. Il concerto va avanti in tal modo con una cascata di note, un flusso continuo molto libero e accidentato, portato avanti dal pianoforte, da cui spuntano, sorprendentemente, citazioni da Ellington a Monk, da Metheny a Morricone. A metà dell’esibizione, Salis imbraccia la fisarmonica, ma la sostanza non muta. La musica si mantiene fortemente connotata da un’energia senza controllo, dove mancano quasi totalmente i momenti di pausa e di riposo. Da parte sua Hamid Drake si produce in un assolo senza soluzione di continuità. Picchia con forza sui suoi tamburi e, appena possibile, si scatena su ritmi funky. In un breve pezzo canta una nenia africana e batte con le dita su un tamburello, con Salis impegnato su piccole percussioni, in una performance non certo memorabile. Il dialogo fra i due protagonisti stenta, in generale, a decollare e la musica mostra la corda per la difficoltà, da parte di Salis, di uscire dalle secche di una formula unidirezionale, puntata su un espressionismo, su una visceralità conclamata, alla lunga asfissianti. Gli spettatori presenti, in un teatro con parecchi posti vuoti, alla fine domandano un bis più per gratificare la coppia della fatica compiuta che per manifestare autentico apprezzamento nei confronti del concerto.


L’ultima serata il Giacosa è esaurito in ogni ordine di posti per il gruppo più atteso, i mitici Oregon. Ralph Towner si è già visto in due occasioni da queste parti, ma è la prima volta che compare alla guida del quartetto con cui collabora dagli anni settanta. Il concerto si sviluppa secondo le aspettative. Si ascolta un jazz rock cauto, prudente, mai sopra le righe, molto curato. Towner è il catalizzatore, quello che prepara il terreno con un lavoro metodico e profondo di armonizzazione per lanciare gli assoli del vecchio partner, l’inossidabile Paul Mc Candless. Il polistrumentista alterna sax soprano, sopranino, clarinetto basso, oboe, corno inglese e flautini con la massima disinvoltura. Da tutti i fiati riesce a tirar fuori interventi ben calati nel contesto, assolutamente simbiotici con la chitarra o le tastiere. Glenn Moore, che in gioventù era stato sovente accusato di strapazzare il contrabbasso, ha meno foga di un tempo, ma accompagna con lo slancio adeguato. Il batterista Mark Walker è praticamente perfetto per il sound del gruppo. È tecnico, energico, ma mai sovrabbondante nei suoi contributi solistici.


Alla fine è un trionfo annunciato. Il pubblico pretende due bis e non si stanca di battere le mani.


Dopo il concerto del venerdì, al ristorante In Borghetto, si ascolta il gruppo locale Satoyama, votato ad una fusion organizzata, che racchiude intuizioni felici, su temi originali dei 4 componenti. Sono ragazzi della scuola Music studio, che provano a venire fuori, grazie all’applicazione costante e all’approfondimento accanto ai maestri. La notte successiva è il garbato trio di Giorgio Fiorini a costituire un piacevole sottofondo per i commensali della trattoria citata, probabile prossima sede dell’Ivrea jazz club.


C’è ancora da precisare che il festival è dedicato ad Amiri Baraka. L’attrice e cantante Lisa Gino legge ogni sera brevi stralci da Il popolo del blues o recita poesie dell’intellettuale afroamericano recentemente scomparso.


Come sottolinea il direttore artistico Massimo Barbiero alla fine della manifestazione: «Certe cose dalle altre parti non si ascoltano. Qui sì.» E si spera che questa rassegna di lunga storia e tradizione possa continuare a promuovere quello che altrove non mettono in cartellone e a perseguire sempre obiettivi artistici di livello considerevole.