Slideshow. Raffaele Genovese

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Slideshow. Raffaele Genovese.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Raffaele Genovese?


Raffaele Genovese: Una persona curiosa di conoscere sempre qualcosa di nuovo, capace di stupirsi di fronte alla bellezza dell’arte, della musica, della natura.



JC: Mi parli del tuo nuovo disco?


RG: Anamnesi, pubblicato per AlfaMusic, nasce dal desiderio profondo di comporre e incidere musica per trio. La dimensione del trio è quella a cui sono più legato – i trii di Bud Powell, Bill Evans, Paul Bley e Keith Jarrett sono stati i miei ascolti preferiti – e quella in cui mi sento a mio agio: nel trio trovo il giusto equilibrio tra intimità e condivisione.



JC: E per La scelta dei partner nel disco?


RG: La scelta di Marco Vaggi al contrabbasso e Tony Arco alla batteria, è stata fondamentale per poter esprimere al meglio le atmosfere e le sfumature della musica. La musica è stata la linea guida di creazione e produzione: ho lavorato alla composizione e all’arrangiamento dei brani per quasi dieci anni, cercando di esternare quanto più possibile i miei ideali musicali. Anamnesi è americano, europeo, mediterraneo, globale: credo fortemente che l’apertura verso il mondo, l’abolizione di confini stilistici e soprattutto di etichette sia necessario in ambito creativo.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


RG: Se intendi il primo ricordo da ascoltatore, rispondo il vinile de La Gazza Ladra di Rossini che mio padre era solito ascoltare. Se intendi il primo ricordo allo strumento, rispondo “Pinocchio” di Comencini: avevo ricevuto una piccola tastiera giocattolo e imparai a orecchio alcuni dei temi della bellissima colonna sonora, che ascolto ancora con piacere e con la stessa emozione.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


RG: Avendo studiato per tanti anni musica classica, scoprii la bellezza dell’improvvisazione grazie ad alcuni dischi di Emerson, Lake & Palmer. Da lì il passo verso il jazz è stato quasi immediato. Credo che il motivo principale sia la libertà di espressione, la capacità di liberare una certa energia interiore che la musica scritta non riesce a fare.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


RG: Per me il jazz è libertà, assenza di confine, è musica. Non faccio distinzione tra jazz, musica classica, etnica, rock: la musica è un enorme contenitore in cui puoi trovare le cose più diverse e capaci in egual misura di stupirti, di emozionarti.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica?


RG: Non ci sono idee o sentimenti definiti che associo in maniera scientifica alla musica. Spesso mi accade di sentire il bisogno di comporre musica dopo la lettura di un libro, ma non c’è un legame tra contenuto della mia lettura e contenuto delle composizioni. La lettura ha l’effetto di allontanarmi dalla realtà per condurmi all’interno del testo e così facendo credi riesca a liberare la creatività.



JC: Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


RG: Il primo, Freeway, ha certamente un grandissimo valore affettivo. Aver suonato al fianco di Fabrizio Bosso, Stefano D’Anna, Gioacchino Papa, Marco Panascia e Marcello Pellitteri è qualcosa che ricordo con grande emozione.



JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


RG: Tanti, forse troppi. Ma volendo ridurre la scelta adesso direi Explorations di Bill Evans, Open To Love di Paul Bley, Standards I-II di Keith Jarrett, Music for Large & Small Ensemble di Kenny Wheeler, Night Whispers di Marc Copland, Ascension di John Coltrane.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?


RG: Salvatore Bonafede è stato di fondamentale importanza per la mia formazione musicale, nella ricerca del mio modo di comunicare attraverso la musica. Un altro musicista a cui sono profondamente legato e che mi ha insegnato tanto sia musicalmente che umanamente è il sassofonista Stefano D’Anna. E poi ricordo con piacere alcuni dei corsi di filosofia che ho seguito all’Università di Catania: è solo grazie ad alcuni insegnanti che è nato in me il desiderio di conoscere la cultura non in maniera settoriale, ma totale.



JC: E i solisti che ti hanno maggiormente influenzato?


RG: Direi Bud Powell, Horace Silver, Bill Evans, Keith Jarrett, John Taylor, Paul Bley, Marc Copland e Salvatore Bonafede.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


RG: Ce ne sono stati tanti. Ma per me il momento più bello è quando sali sul palco e riesci a entrare nella musica che suoni, specie se accade anche agli altri musicisti.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


RG: Amo collaborare con i musicisti che cercano di entrare nella mia musica, musicisti che vogliono instaurare un rapporto prima di tutto umano. Ci vuole una grande intesa per suonare jazz, e questa cosa la senti durante i concerti o durante l’ascolto di un album da studio. Stefano D’Anna o Marco Vaggi, per esempio, appartengono a questa tipologia di musicisti che io preferisco. E poi, ovviamente, i musicisti siciliani con i quali collaboro da moltissimi anni: Carmelo Venuto e Emanuele Primavera, entrambi musicisti eccezionali ma anche grandissimi amici.



JC: Come vedi la situazione della musica in Italia?


RG: La vedo un po’ anomala, piegata alle mode, priva di curiosità. Non vedo molta apertura verso frontiere sconosciute (Africa, Oriente), ma una certa cristallizzazione nel linguaggio hard-bop. Ovviamente ci sono le rare eccezioni e la Sicilia da questo punto di vista rappresenta un grande bacino di sperimentazioni. Quello che occorre e che manca è la creatività e le scuole non aiutano in questo, specialmente nei metodi di insegnamento che tendono a omologare.



JC: E più in generale quali sono per te i problemi della cultura in Italia?


RG: L’Italia è un paese poco creativo, che in generale non produce novità in nessun ambito culturale. È un paese chiuso su se stesso. Non è un caso che gli italiani più creativi vadano a lavorare all’estero – letterati, ingegneri, economisti.



JC: E di chi sarebbero le responsabilità?


RG: Sono delle istituzioni scolastiche: i programmi di insegnamento non stimolano la creatività, ma tendono a produrre omologazione. Evidentemente è un progetto politico ben preciso. Invece Università, Conservatori e Accademie dovrebbero produrre soggetti creativi, esaltarne le differenze e le diversità.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


RG: Sto scrivendo nuova musica per pianoforte solo, altra mia grande passione, nell’attesa che i tempi siano maturi per una nuova pubblicazione.