The Duke Ellington Orchestra @ Parco della Musica

Foto: Ufficio Stampa










The Duke Ellington Orchestra @ Parco della Musica

Roma, Parco della Musica – 30.4.2014


In occasione della giornata mondiale del jazz promossa dall’UNESCO, il 30 aprile sbarca all’Auditorium Parco della Musica di Roma una di quelle formazioni che più hanno elevato la musica jazz da un punto di vista musicale e non solo, la Duke Ellington Orchestra. Se infatti Louis Armstrong riuscì a dare grande popolarità alla musica afroamericana, Duke Ellington, attraverso le sue ardite composizioni, le suite articolate in diversi movimenti e successivamente i concerti sacri, fu colui che elevò il jazz al rango di musica seria portandola dai club ai teatri. Ellington ha diretto la sua orchestra dal 1923 fino al giorno della sua morte, il 24 maggio 1974, quando di anni ne aveva 75. A quel punto la conduzione passò al figlio Mercer, già affermato trombettista e compositore a sua volta, che la diresse fino alla sua morte per 22 anni, lasciando lo scettro in eredità a suo figlio minore fino al 2010, quando lo stesso pretese che a dirigere l’Orchestra fosse Tommy James, pianista di quella big band dal 1987.


Nonostante i prezzi elevati, il tutto esaurito registrato già in prevendita fa comprendere la portata dell’evento, e la parata di volti noti lo trasformano in una serata mondana con tanto di paparazzi. Il nome di Duke Ellington attira una platea di appassionati non soltanto di jazz proprio come sarebbe piaciuto a lui che non concepiva la distinzione di generi, ma che amava anzi essere definito un compositore di musica americana in generale. L’Orchestra nella formazione attuale è composta da quindici elementi, di cui ben dodici fiati (cinque sassofoni, tre tromboni e quattro trombe), e poco importa se l’ultimo membro della band originaria sia scomparso nel 2011. Ciò che infatti viene portato in giro per il mondo è lo spirito e lo stile unico della musica di Ellington attraverso la riproposizione degli arrangiamenti originali di alcuni brani di un repertorio sterminato fatto di oltre duemila composizioni.


Elegantissimi e rigorosamente in smoking, gli eredi di cotanto patrimonio attaccano con uno dei temi più celebri del Duca, quell’arcinota Take The A Train che scalda e immerge il pubblico nelle fumose atmosfere degli anni ’30. L’inizio quasi scontato lascia subito spazio a brani meno celebri ma altrettanto importanti, frutto di quella fortunata collaborazione tra Ellington e Billy Strayhorn. Tommy James suona, dirige e presenta con grande classe e autorevolezza, interpretando al meglio le idee musicali del grande compositore: il pianoforte non è mai in evidenza ma è capace, attraverso poche note molti silenzi, di essere l’elemento di raccordo tra una ritmica dritta e gli ottoni, soggetti ad una disciplina meno rigida che lascia ampia libertà di espressione ai solisti. I brani seguono uno schema classico, con il tema esposto in prevalenza dall’orchestra o, in alternativa, introdotto da un sassofono o una tromba, con i solisti che successivamente a turno si portano al centro del palco per degli interventi spesso racchiusi in poche battute. Ma è proprio la musica d’insieme ad essere l’assoluta protagonista e mai, seppur bravi, i solisti: ecco che la mancanza del contralto di Johnny Hodges, del baritono di Harry Carney o la tromba di Clark Terry sono sì pesanti, ma non così fondamentali come si possa credere. Gran parte del merito va attribuito soprattutto a James che non da mai l’impressione che si stia assistendo ad una mera operazione speculativa del nome di Ellington, ma ne ripercorre invece con passione le varie fasi della sua luminosa carriera: dall’epoca d’oro della swing era con brani come In A Mellow Tone e Tea For Two allo stile jungle, in cui gli ottoni imitano i ruggiti dei leoni o i barriti degli elefanti, fino alle orientaleggianti scale arabe di Harlem Airshaft. Una intensa Satin Doll avvia l’ultima parte dove vengono ripresi ancora i temi più noti: ecco susseguirsi i ritmi e le coloriture latino americane di una potente Caravan, introdotta dalle pelli tirate di una batteria finalmente più sciolta, il tema romantico di In A Sentimental Mood, le melodie raffinate ed esotiche di una sempre affascinante Mood Indigo, fino al conclusivo blues di Cotton Tail in cui i sassofoni iniziano a sfidarsi a colpi di armonici come nelle migliori jam session, prima del bis finale dove viene omaggiata la capacità di scrittura del figlio Mercer con la sua Things Ain’t What They Used To Be.


Diceva Elligton: ci sono due tipi di musica, la buona musica e tutto il resto, e quel che rimane della sua Orchestra è sicuramente l’occasione migliore per poter ascoltare e rivivere dal vivo la sua arte. Musica che suona, a distanza di quasi un secolo, non solo attuale e moderna, ma che non ha nulla da invidiare ai troppi esercizi di stile che si ascoltano, ormai da troppi anni, in buona parte del jazz di oggi.