Il nuovo hard bop?

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Il nuovo hard bop?

Riflessioni su un “genere” e quattro recenti uscite discografiche.


C’è tutto un jazz, lungo l’intero territorio statunitense, da costa a costa, imprevedibilmente anche nelle zone meno note all’estero e pure in loco per i “ritmi sincopati” (o musiche improvvisate e audio-tattili che dir si vogliano, benché il termine jazz resti ancora insostituibile), che continua a essere suonato (e apprezzato) sia nelle città tradizionalmente deputate (New York, Los Angeles, New Orleans, Chicago, Boston, San Francisco, Detroit, Saint Louis, eccetera) sia nella Vecchia Europa che negli ultimi decenni risulta molto più accogliente nel recepire il jazz come momento culturale: si tratta di quello che ancora si può chiamare hard bop.


All’interno delle varie etichette – maggiori o indipendenti – si sta perpetuando con regolarità ormai da vent’anni una tendenza precipuamente hardboppistica, dunque lontano dalla ricerca free o dal “rumore” elettronico, diverso dal revival o dal filologismo, distante pure dal gusto cameristico europeizzante o dalle sonorità mediterranee: è un jazz, questo odierno, derivante essenzialmente dall’hard bop suonato tra gli anni Cinquanta e Settanta, che piace in quanto è in gradi di mantenere saldi i principi fondamentali dell’arte afroamericana ovvero, anzitutto, un ricambio generazione che va dai padri fondatori ancora attivi (come l’ottuagenario Sonny Rollins) agli esordienti o ai giovani talenti che garantiscono feeling e improvvisazione su standard conosciutissimi, quasi mai azzardando nuove idee a livello progettuale o compositivo. Del resto basta equiparare alcuni recenti cd in questione per notare subito come i titolari di ogni album siano attenti in tutti i brani in scaletta, a non evadere dal “classicismo” hard bop, con una linea poetica che nei brani originali ad esempio che a loro volta evidenziano proprio una marcata scrittura hardboppistica, senza mai porsi il problema di entrare magari in dialettica con suggestioni dotte, avanguardiste o popolari come invece succede al jazz di altre tendenze).


Del resto anche nell’immaginario popolare fatica a trovare posto un’idea diversa di jazz da quella proposta ad esempio in dischi recentissimi come Jimmy Heath in Togetherness (JLP) o dei quartetti di Eric Alexander per Chicago Fire (HighNote) e di Eric Reed con The Adventurous Monk (Savant), tutti e tre – occorre subito precisare – di ottimo fattura, ma ormai facenti parte di un già ricordato classicismo o, peggio, di un’accademia jazzistica non certo innovativa a livello progettuale o estetico, ma dove invece le proposte sembrano quasi esclusivamente autoreferenziali, come se il tempo non sia mai trascorso: che si tratti dell’orchestrona del veterano Jimmy Heath in Togetherness (JLP) o dei quartetti di Eric Alexander per Chicago Fire (HighNote) e di Eric Reed con The Adventurous Monk (Savant) il risultato alla fine è il medesimo.


Insomma non si evade dagli angusti confini di un bell’hard bop, ma “vecchio” di sessant’anni, solo in parte aggiornato da qualche struttura modale o da sporadiche impennate semi-free: ma anche qui si parla di “novità” di oltre mezzo secolo fa. Per Heath, Alexander, Reed – che persi singolarmente risultano anche “nuovi” maestri del genere – si tratta di un hard bop via via efficace e comunicativo, magari anche grintoso o virtuosistico, ma è pur sempre un jazz legato al tema con variazione, in cui si apprezza di volta in volta il gioco di squadra (Heath), il vaglio solista (Alexander) e soprattutto il lavoro su Thelonoius Monk (Reed). Tuttavia le chance per il jazz di oggi e di domani forse dovrebbero essere altre (come in effetti accade altrove), a meno che ci si voglia crogiolare all’infinito con gli effetti (anche talvolta benefici) dell’accademia o peggio dell’accademismo. E alla fine questo “nuovo” hard bop, benché talvolta tecnicamente evoluto o migliorato rispetto all’originale, suona meno interessante e assai più scontato prevedibile.


Un confronto con il passato è schiacciante, anche grazie al format del compact-disc, benché tecnologicamente superato dalla musica liquida: ma il cd consente ancora il recupero integrale di performances live che, soprattutto nell’hard bop di ieri e di oggi, restano di fondamentale importanza per conoscere l’espressività di un solista libero dalle regole (spesso ferree anche nel sound improvvisato per eccellenza) degli studios di registrazione.


Ascoltare quindi ad esempio un altro CD recentissimo, un inedito concerto, Live In New York 1952 (Solar) del quartetto del pianista Horace Silver, classe 1928, tuttora attivo, l’ultimo dei “grandi” con il citato Rollins; Silver nel disco è con Lou Donaldson (sax alto) in un set effettuato probabilmente al Birdland da un amatore: sentire a distanza di sessantadue anni “quel” concerto significa capire la distanza “emotiva” che separa i pionieri dagli epigoni: Silver e Donaldson, pur non essendo ancora completamente maturi sul piano stilistico (rispetto ai capolavori per la Blue Note che incideranno anche solo qualche anno dopo per circa un decennio e oltre) si lanciano in lunghe improvvisazioni (ad esempio tre brani assieme fanno quasi un’ora) preludendo alla messa a fuoco appunto dell’hard bop, che, sull’onda di un ritrovato slancio boppistico (qui è ancora palese il debito con i quartetti di Charlie Parker) uscirà allo scoperto solo l’anno successivo e da allora proseguirà, più o meno imperterrito, per i successivi sessant’anni fino a oggigiorno. Queste e altre, insomma, dovrebbe essere le riflessioni su un “genere” (o presunto tale) e su recenti uscite discografiche, ogni volta che il jazz si affida a un “nuovo” hard bop, classico o accademico o altro ancora. Ma il dibattito è aperto.