Blas Rivera, il tango-jazz

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Blas Rivera, il tango-jazz.


Durante i primi anni Settanta due eventi discografici – in cui è anche protagonista il nostro Paese – sconvolgono la cultura sonora panamericana: entrambi giungono dall’Argentina, o meglio da musicisti argentini che scelgono la via dell’esilio per via della pensante dittatura militar-fascista che fa seguito al breve ritorno del populismo peronista. Da un lato tra Francia e Italia il sax tenore Gato barbieri incide il long-playing con la colonna del film Ultimo tango a Parigi, dall’altro tra Germania e Italia il sax baritono statunitense Gerry Mulligan incontra il compositore e fisarmonicista Astor Piazzolla per il 33 giri Tango Nuevo.


Da allora né il tango né il jazz saranno più gli stessi, benché occorra aspettare oltre un ventennio per vedere conce ruzzate, soprattutto in un’Argentina ormai libera dal giogo reazionario – ma anche e ancora in Italia con Javier Girotto, Giuliana Soscia, Pino Jodice o in Francia con il Gotan Project o negli Stati Uniti con Pablo Ziegler da Buenos Aires – le idee di un autentico tango-jazz, di cui l’ultimo capitolo parla ancora italiano, proprio come le formazioni che accompagnano sia Gato sia Astor in due lavori seminali.


C’è infatti un nuovo disco, dal titolo Mil Exilios, uscito per la brasiliana Ilha Music, che segna l’incontro fra un poeta italiano da oltre vent’anni residente all’estero e un pluristrumentista argentino anch’egli “lontano da casa”: Ugo Ceria e Blas Rivera – questi i loro nomi – rispettivamente attivi a Madrid e Rio De Janeiro hanno formato assieme un concept album in cui musicalmente il jazz è mirabilmente legato al tango, mentre sul piano letterario prevale il tema dell’esilio mediante dieci brani via via su chi non vuole partire, di chi decide invece che è tempo di andare o infine di chi torna e non riconosce il luogo che ha lasciato.


Lo stesso Ugo Ceria sul quotidiano La Stampa spiega infatti che «il disco parla di esilio sotto molti punti di vista. Il mio è stato assolutamente piacevole, Parigi, poi Madrid, e i molti viaggi spesso fugaci in Europa e le Americhe. Esilio come scelta, quindi, un essere “fuori luogo” per sentirsi più libero (…) Un’eredità quasi genetica di storie d’emigrazione, viaggi, espatri che hanno tracciato nella mia mente latitudini e longitudini per le mappe di questo disco. Ho sempre privilegiato la musica che racconta storie, la canzone come forma di espressione.»


E in merito al disco è sempre Ceria a svelarne la genesi, sottolineando in primis l’amicizia e la passione per il tango condivisa con Blas Rivera: «Anche lui, come me, un po’ nomade. Argentino di nascita, l’ho conosciuto a Madrid e vive adesso a Rio de Janeiro. Ha studiato negli Usa, jazz e composizione. Per il disco abbiamo voluto molti registri diversi, sempre dentro all’universo del tango. Anche l’esilio politico provocato dalla dittatura argentina è presente attraverso la voce dello storico Osvaldo Bayer e del poeta Poni Micharvegas entrambi vittime dell’esilio all’epoca della dittatura militare argentina».


A Mil Exilios collaborano sia argentini sia brasiliani: il chitarrista e ingegnere musicale César Ehmann, il bandoneónista Fabián Carbone, la soprano Michele Barsand e cantanti Ariel Tobío e Floro G. Aramburu, per un risultato che segna un punto di arrivo (come pure di partenza) alquanto signficativo per il cosiddetto tango-jazz, di cui Rivera è un musicista essenziale, tutto da scopriore in Italia, come racconta in esclusiva per jazz Convention’.



Jazz Convention: Blas, ci racconti un po’ della tua carriera, soprattutto a livello discografico?


Blas Rivera: Ho registrato il mio primo cd, Blas Rivera Quintet, nel 2000, tra Buenos Aires e Rio de Janeiro, con la partecipazione del pianista Pablo Ziegler e del violinista Fernando Suarez Paz, entrambi membri del quintetto originario di Astor Piazzolla. L’anno dopo ho fatto Ambrace dal vivo con un mio quintetto al Festival del Jazz di Montreux. Nel 2004 ho pubblicato Intimo, tra Parigi e Rio de Janeiro sempre con il mio Quintetto, ma con l’aggiunta di qualche musicista argentino invitato. Nel 2006, con una formazione più numerosa, di fatto un’orchestra di archi e di fiati ho lavorato al disco Che. Due anni dopo in Brasile abbiamo registrato Ojala que me escuche un omaggio ad Astor Piazzolla con musicisti provenienti da Francia, Italia, Stati Uniti, Argentina, Uruguay, Brasile e Inghilterra. Sempre nel 2008 nei mitici estudios Ion di Baires ho lavorato al CD Cancion para conquistar la bailarina. Ho poi con la musica continuato anche durante gli anni successivi, ma solo per comporre colonne per il cinema e soltanto tra il 2013 e il 2014, con il poeta italiano Ugo Ceria, siamo tornati in studio, fra Madrid, Baires e Rio per questo album Mil esilio, che è il mio primo disco di canzoni.



JC: Quali sono i migliori dischi che hai ascoltato nella tua vita e quali in particolare di musica latina?


BR: Mi mancava solo di rispondere alla domanda più semplice del mondo: quali sono i cinque dischi che più ti hanno influenzato!



JC: Parlaci allora dei tuoi primi ricordi musicali


BR: Sto qui, perso in un labirinto di crome, sapori, suoni, odori e volti. Confuso in un un velo di epoche, luoghi, parenti e serenate. Non possedevamo un giradischi in casa, solo una radio, che costava un po’ memo del frigorifero, radio monopolizzata da mio nonno di Majorca che ascoltava esclusivamente musica classica e “La audición Selecta Española”. Ho acquistato le mie prime audiocassette, peraltro usate, quando avevo vent’anni, con i soldi che mi diedero per l’orologio d’oro che avevo ereditato da mio zio Jorge (ma, dalla cifra, sembrava che non avesse tanto oro). Non ho mai avuto l’abitudine di associare la musica a un disco particolare, se non quando usciva fuori da qualche posto.



JC: Forse dischi no, magari singole canzoni o altro…


BR: Credo che le melodie che più mi influenzarono siano i tanghi incompleti e con le parole cambiate e reinventate che la mia mamma cantava in cortile; anni dopo ho imparato che appartenevano ai repertori di gente come Gardel, Manzi, Discepolo, Mores, Cobián, Cadícamo però non mi sono mai chiesto in quali dischi erano compresi o collocati. Poi venne la scuola e lì, sì, mi segnarono in maniera brutale le marce militari e gli inni fascistoidi che ci imponevano tutti i giorno, all’entrata e all’uscita per ben undici. Ma ancora oggi mi emoziono quando sento la Marcha de San Lorenzo, la parte che dice “avanza il nemico, a passo raddoppiato” e ovviamente l’immancabile Aurora, che me immagino accoppiata allo stesso disco, frusto e rigato. A otto anni nel conservatorio, per studiare il piano, scopro L’arte della fuga Bach che mi fece disertare tutte le guerre per sempre, ma non posso dire quale esecutore o album brilli più, per me erano le mani della signora Domitilla, che lo infusero nelle vene.



JC: Nell’adolescenza invece cosa ti ha “sconvolto”?


BR: A quindici anni suonai una canzone di Charly García a una ragazzina e, prima di finirla, lei già mi aveva regalato il suo gelato al cioccolato e nei suoi occhi castani sapevo che, inevitabilmente, sarei stato musicista per sempre. Suonai quella ballata in almeno tre dischi. Due anni dopo ascoltai alla radio, chiaro e netto, un sassofono che mi colpì senza chiedere permesso, brutale, insolente, che ruggiva a scatti e che mi ricordava l’emozione delle marcette scolastiche, però dall’altro lato del marciapiede: era il sax tenore di Gato Barbieri. Non era un disco in particolare, era tutto quello che vi soffiava dentro a distanza ravvicinata!



JC: Ma se non erro, la tua curiosità intellettuale non si ferma a Gato Barbieri…


BR: E quando pensavo che niente altro mi avrebbe potuto contaminare, mi regalano un disco grigio chiaro con una foto di un musicista incravattato, di cui aveva sentito peste e corna al Conservatorio: il titolo dell’album era Adiòs Nonino. Certo, non avevo il giradischi e abbiamo dovuto aspettare tre settimane fino a quando l’ho potuto sentire in casa del mio amico Juan. Non ho capito un sacco di cose, ma sono andato fuori a piangere, ho dimenticato il disco sempre in camera di Juan e siamo andati a casa mia e, ancora piangendo, ho detto a mia mamma che volevo essere come Astor Piazzolla.



JC: Blas, la tua si può definire world music?


BR: Non nel senso che si intende oggi con il concetto di “World Music”, nel complesso musiche assai semplici, in un confine sfocato con la “new age”, che si affacciano sul “pop” magari con qualche graffio etnico, generalmente piuttosto banale. Penso che sia un’invenzione premeditata del mercato discografico. Questo non vuol dire che ci siano alcune belle composizioni di questo genere secondario. Io sono un musicista che gira a piedi il mondo, confrontandosi con molte e diverse tendenze, anche con stili o “regionalismo”, ma la mia musica è musica del Rio de la Plata, meridionale fino all’osso, imbevuta in altre frontiere, ma ovviamente Argentina.



JC: Allora Blas, come musicista, cos’è per te la musica?


BR: Sono incapace a risponderti, non saprei da dove cominciare, però i primi ritmi che appresi, molto piccolo, furono Bach e Duke Ellington, dal petto di mio padre, quando mi faceva ascoltare i ritmi che uscivano dalla Radio Nacional Argentina con una piccola radio a transistor. Molto tempo dopo, lontano dalla mia terra, mi afferrai al sentimento del tango per poter tornare ancora al cortile di mia madre. Forse c’è la risposta, c’è un segno della musica in tutto questo.



JC: Pensi che sia giusto parlare della tua musica come una forma di arte contemporanea?


BR: Sì. Credo che ci siano le tre componenti della contemporaneità. Primo perché vivo in quest’epoca, cosa abbastanza utile. Secondo perché si arrischia a spingersi contro altre latitudini, altre arti, altri generi, diversi strumenti, in un eccesso di concetti. E terzo perché a volte avanzo pretese di intellettualità o come dire di “ricerca” e alcune ibridazioni che sono tipicamente contemporanee e che, tra l’altro, nulla di buono ha a che fare per la mia “musichetta’. https://www.jazzconvention.net/administrator/index.php?option=com_content&sectionid=1&task=edit&cid[]=2121#



JC: Blas, chi sono i sassofonisti che ti hanno maggiormente influenzato?


BR: Gato Barbieri, John Coltrane e Paul Desmond.



JC: Ma esiste oggi una identità specifica della nuova musica argentina?


BR: Non credo. Esiste, sì, una fortissima identità della musica argentina, però non specificamente come nuova. Penso che tutto quanto si ascolti oggi sia continuazione, continuità, devozione, ammirazione, copia, imitazione, approcci, inerzie. Tutti elementi imprescindibili per creare e costruire. Però non sento nessuna musica come nuova musica argentina.



JC: Come si è comportata la dittatura argentina nei confronti della musica afroamericana africana? Era disprezzata, misconosciuta, derisa o denigrata?


BR: Direi che esisteva un disprezzo brutale per tutto quello che era in odore di classe operaria, e ciò includeva non solo la musica di origine o di qualsiasi altra origine povere, ma anche il teatro, il carnevale, la teoria degli insiemi, il cinema, le riunioni, i gruppi folk e mille altre cose.



JC: Hai di recente ascoltato giovani musicisti in America Latina che meriterebbero attenzione anche in Europa e nel resto del mondo?


BR: Centinaia! Solo in Brasile sono a centinaia e che dire di Cuba, Argentina, Uruguay, Colombia che sono le situazioni che conosco meglio? Fioriscono ovunque e questo è ciò che conta. L’attenzione che meriterebbero dipende molto dalle macrostrutture commerciali, dagli interessi dei discografici, dalle mafie della distribuzione e della pubblicità che hanno poco a che spartire con la musica. La gran parte di musicisti eccezionali non riesce a registrare un solo Cd, quindi posso ottenere attenzione nel loro quartiere o dagli amici o magari solo dalle loro mamme, questo però non vuol dire che siano peggio di altri, restano solo grandi musicisti misconosciuti.



JC: Nuovi progetti per il presente e il futuro?


BR: Ne avrei 365, uno al giorno per un anno intero, concretamente quattro, realizzati uno, con molta allegria e massima concentrazione: si tratta appunto di Mil Exilios, questo nuovo album in cui ho avuto la fortuna di imbattermi in un grande poeta che scrive in lingua spagnola e che mi ha spinto nel baratro del lessico, della grammatica e delle rime e così ha riordinato la mia musica, le ha insegnato un nuovo respiro, una nuova cadenza, un’altra simmetria, e questo mi diverte tanto e credo di poter fare una nuova sintesi delle poche cose che si fanno.