Giorgio Gaslini. Un ricordo di Marco Buttafuoco

Foto: dal sito web di Giorgio Gaslini: www.giorgiogaslini.it










Giorgio Gaslini. Un ricordo di Marco Buttafuoco


Al di là del cordoglio dovuto, anche se talora un po’ di maniera, che ha suscitato la sua morte, la figura di Giorgio Gaslini rimane assolutamente centrale nella storia del jazz italiano ed europeo. Centrale e molto discussa, talora anche osteggiata. In effetti, fin dal 1957 con Tempo e relazione, il musicista milanese aveva scelto una posizione defilata e del tutto particolare sia rispetto al jazz sia alla tradizione accademica. E nel 1964, l’uscita, per quanto semi-clandestina del “Manifesto della musica totale” aveva accentuato la sua diversità nel panorama musicale italiano di quegli anni «Gli accademici – mi disse in un intervista uscita a marzo su L’Unità – mi accusavano di lesa maestà, di voler involgarire la Musica. I jazzisti mi tacciavano d’intellettualismo. Ma io non volevo rinchiudermi in qualche gabbia, seppur dorata. Volevo far risuonare nella mia musica il tumulto, anche sociale, di quegli anni. Una musica per l’uomo; quello era ed è il mio ideale. Pensavo, e penso ancora, che non ci fosse posto per uno sperimentalismo fine a se stesso.»


Credo che in queste parole ci sia tutto il senso della ricerca artistica di Giorgio Gaslini. A lui non interessavano formule stilistiche nelle quali inscrivere le varie esperienze artistiche. Sua ambizione era di vivere fino in fondo il suo tempo, d’immergere la musica nel flusso della storia. Sia come specchio della realtà circostante, sia come vera e propria arma di trasformazione. Più di un volta sonò in fabbriche occupate.


Gli storici della musica tracceranno prima o poi un bilancio critico del suo intenso lavoro. Oggi secondo me è più importante rilevare il ruolo di rottura di gabbie, schemi e istituzioni che il maestro milanese operò fra gli anni ’60 e ’70. Credo che Gaslini fu fra quelli che aprì’ allora l’Italia al mondo, che sprovincializzò la nostra cultura musicale. Non va dimenticato che quello era il periodo di Frank Zappa, gli anni in cui Frederich Gulda proclamava Duke Elligton come pilastro della storia della musica al pari di Bach e Beethoven. Era l’epoca del free jazz e del folle volo di Trane. Giorgio Gaslini tentò di far penetrare nella chiusa Italia di allora questi fermenti, questa voglia di nuovo, questo senso della necessità di rinnovare senza distruggere. Adorava Ornette ma più di una volta ha confessato di dovere molto della sua scrittura jazzistica ad un personaggio come Stan Kenton, certo non definibile come un rivoluzionario.


Gaslini la musica totale la viveva. Era informato sulla musica degli U2 come su quella di Piazzolla. Conosceva Darmstadt come la musica folk italiana. Lo ricordo come una persona vorace ed appassionata, intristita solo dall’orrenda deriva culturale nella quale vedeva trascinato il nostro mondo attuale.


Non era un intellettuale che amava rinchiudersi in una torre d’avorio. Era perfettamente consapevole che per vivere l’artista dovesse anche “sporcarsi le mani”. Negli anni immediatamente successivi al Conservatorio aveva lavorato alla filiale Italiana della Voce del Padrone come direttore artistico delle incisioni


«Nello studio – raccontava – passavano tutti, i Virtuosi di Roma, Il Quartetto Italiano, i Musici, Giuseppe di Stefano e Maria Callas, ma anche Jula de Palma e Sergio Bruni, L’ Orchestra Casadei e Renato Carosone. Era un’Italia vorace di novità quella. Renato Carosone ad esempio, aveva ascoltato la musica dei neri americani nella Napoli occupata e la aveva metabolizzata sposandola al suo grande talento naturale. I musicisti di allora venivano da avventurose gavette ed erano apertissimi al mondo. Uno dei fenomeni commerciali della nostra pop music, Fausto Papetti, era un ottimo bopper che ha suonato a lungo con me. Poi trovò il sistema di fare soldi. Anche Gianni Bedori (poi “diventato” Johnny Sax) ed Hengel Gualdi fecero parte dei miei gruppi. Il primo fu anzi uno dei miei più stretti collaboratori.»


Non sono parole da intellettuale e con la puzza sotto il naso. Non rinnegò mai successi commerciali come, ad esempio, Profondo Rosso.


Era rigoroso e talora appariva scontroso, indubbiamente molto consapevole di sé. Non temeva certo le polemiche e la diplomazia non era la sua arte. Fino all’ultimo ha creduto nella necessità del nuovo, ha sostenuto la necessità della ricerca. Per questo molti non lo hanno considerato né un jazzman né un musicista classico.


Ha vissuto per la musica, dandole tanto e tanto ricevendo in cambio. Ha una vita lunga, intensa ed appassionata. Meritata.