Jazz Set: Lia Passadori intervista Guido Michelone

Foto: Lia Passadori









Jazz Set: Lia Passadori intervista Guido Michelone


In occasione della recente uscita di Jazz Set, ultimo libro di Guido Michelone per Barbera Editore, l’autore risponde ad alcune domande in merito a questo lavoro. Con un’idea originale ed un azzeccato neologismo (jazz set, dall’unione di jazz e “jet set”), Michelone ha trovato un espediente per raccontare la vita e la musica di jazzisti di epoche e luoghi diversi: il jazz set inquadra di volta in volta questi personaggi in un contesto storico, sociale e culturale differente, di cui essi sono protagonisti o significativi esponenti. In questo modo raccoglie le biografie di artisti eterogenei, che vengono raccontati con un linguaggio diretto e semplice, in modo da avvicinare anche i non addetti ai lavori. Guido Michelone, docente universitario di Storia del Jazz e della Popular Music al Conservatorio Vivaldi di Alessandria, e di Storia della Musica Afroamericana al Master in Comunicazione Musicale della Cattolica di Milano, è un riferimento in materia grazie alle sue numerosissime pubblicazioni e alla sua vasta conoscenza, sempre guidata da un orecchio critico e attento a tutte le tendenze musicali odierne. Questo suo ultimo lavoro conferma la sua concezione aperta e senza preconcetti del jazz, che egli vede in rapporto con l’evolversi delle musiche, includendo in questa categoria artisti che farebbero storcere il naso a molti puristi.



Jazz Convention: Cosa intende Guido Michelone per “jazz set”?


Guido Michelone: Intendo un contesto socioculturale, in cui è il pubblico a riconoscersi in un certo tipo di fenomeno jazzistico, legato a sua volta a nomi importanti nella storia della musica: leader, solisti, virtuosi, compositori, gruppi, cantanti tutti comunque personaggi a loro modo, benché in misure anche diversissime…



JC: Da dove nasce questa idea?


GM: L’idea del jazz set “molto modestamente” l’ho inventata io: mi piaceva l’affinità dei suoni, nella lingua inglese, tra jet set e jazz set. E poi l’espressione originaria evocava la mia infanzia, il “sogno americano”, i grossi aerei, le cadillac, i grattacieli, le luci al neon, questi borghesi alla Frank Sinatra, che tra party e cocktail facevano la bella vita con una perpetua colonna sonora fatta da quel jazzetto – un po’ cool, un po’ mainstream – che si sentiva dappertutto: il free, il rock and roll o la beat generazionale erano rimossi da un immaginario pop assai più roseo e molto meno problematico. La crisi dell’american dream e di tutto il jazz set connesso sarebbe arrivata con i Sixties: i Kennedy, Martin Luther King, Malcolm X, Bob Dylan, il Vietnam, Woodstock, Coltrane, Ornette Coleman, Jimi Hendrix…



JC: Quello del jazz set può essere un nuovo criterio per raccontare la storia del jazz uscendo dal rigido schema che vede l’avvicendarsi di stili diversi per ogni decennio?


GM: Potrebbe diventarlo, se qualcuno si prendesse la briga di raggruppare i musicisti più noti e più influenti sul pubblico e sugli altri jazzmen e di conseguenza avesse il tempo e la voglia di raccontare tutti i vari jazz set americani, europei e forse asiatici e africani. Io al momento ho solo raccontato venti jazzisti, ma facenti parte dei vari jazz set sarebbero oltre duecento, forse persino duemila…



JC: Come ha scelto i musicisti da raccontare?


GM: Ho scelto quelli che avevo a disposizione, perché il libro segna anche un momento della mia vita, in cui ho deciso di ripubblicare ciò che in precedenza avevo pubblicato su differenti periodici. Spulciando tra le mie carte ho trovato un centinaio di brevi monografie dalle tremila alle ventimila battute, come lunghezza. Le più brevi in assoluto, tra le tre e seimila battute sono state antologizzate per il volume 60 jazzisti edito da Lampi di Stampa. Ne rimanevano quaranta e ho scelto le venti più lunghe (tra le diecimila e le ventimila battute) cercando soprattutto i nomi più famosi…



JC: Ma ha scelto di accostare nomi tra i più celebri e jazzisti meno noti…


GM: Per le ragioni di cui sopra: mi sarebbe tanto piaciuto inserire ad esempio Buddy Bolden, Art Tatum, Lester Young, Charlie Christian, Charlie Parker, Mingus, Tristano, Dolphy, Rollins, la Fitzgerald – dunque dieci grandissimi – ma non avevo niente di mio su di loro e dunque ho optato per jazzisti magari meno importanti per la storia della musica, ma al contempo più popolari in un discorso di jazz set, anche riferito a precipui contesti geo-culturali come l’Italia e l’Europa. A differenza di 60 jazzisti, dove compaiono anche nomi di jazzmen di cui non vado pazzo, qui in Jazz Set sono tutti musicisti che amo molto, anche se li amo in maniera diversa tra loro, perché l’amore per il Trio Lescano possiede altre spinte o altre motivazioni rispetto a quello per Thelonius Monk o per i Soft Machine.



JC: Molti tra i jazzisti scelti sono italiani: il jazz può considerarsi davvero un capitolo importante della nostra storia musicale, passata e presente?


GM: Sono quattro in tutto: oltre il sunnominato Trio Lescano, ci sono Lelio Luttazzi, Franco Cerri e Stefano Bollani. E c’è pure Sinatra che ha origini italiane, ma esprime una cultura decisamente a stelle-e-strisce. Ci sono poi cinque europei: i britannici Soft Machine, lo svedese Svensson, il polacco Komeda e due belgi (benche’ uno zingaro) come Django e Francy Boland in coppia però con l’afroamericano Kenny Clarke. E a proposito di neri sono otto nel libro – oltre Clarke, Armstrong, Ellington, Monk, Jimmy Smith, la Holiday e la Staton, più quattro bianchi, Gershwin, Glenn Miller, Chet Baker, Keith Jarrett, ma sto divagando, com’era la domanda?



JC: Il jazz può considerarsi un capitolo importante nella nostra storia musicale, passata e presente?


GM: Del passato citerei, oltre le Lescano e Luttazzi, solo Gorni Kramer, il Quartetto Cetra, Armando Trovajoli, Piero Umiliani, Caterina Valente, Nicola Arigliano, Nunzio Rotondo e il Basso Valdambri Quintet: il resto mi sembra alquanto imitativo dei modelli americani. Oggi, a parte Bollani (l’unico a far parte del libro per ragioni gramscianamente nazional-popolari), i jazzisti italiani meritevoli sono decine, forse centinaia. E lo sono da almeno trent’anni, qualcuno come Cerri, Intra, Sellani, Rava, D’Andrea, i compianti Schiano e Gaslini da molto di più. Non voglio elencarli perché ne dimenticherei qualcuno senza farlo apposta, ma gli farei comunque un grave torto. Il jazz italiano insomma risulta un capitolo importante nella storia patria non solo musicale: di recente, per la prima volta, lo ha pure ammesso un ministro della cultura…



JC: Dagli esordi del jazz fino ad oggi: si riscontra un diverso jazz set in ogni epoca?


GM: Direi di si, l’importante è mettersi d’accordo sul concetto di epoca, intendendo con essa uno o più fattori socio-etno-culturali che l’hanno determinata e simboleggiata. Ad esempio una certa idea di Sessantotto emerge nell’Est Europa con il free di Komeda, in Inghilterra con Sgt. Pepper dei Beatles ma anche con gli esordi dei Pink Floyd e dei Soft Machine, negli Stati Uniti con James Brown e Jimi Hendrix, come pure con i primi esperimenti elettrici di Miles Davis o con la ricerca quasi post-free di Sun Ra o di Albert Ayler (più ancora del free politicizzato di Archie Shepp).



JC: Con il suo linguaggio diretto e non troppo specialistico Jazz Set ha un intento divulgativo?


GM: Decisamente divulgativo! Vorrei avvicinare lettori e pubblici diversi e proprio in tal senso ho scelto musicisti eterogenei, di cui ho parlato anche con approcci eterogenei. Dimenticavo infatti di dire che la destinazione originaria delle venti biografie era una serie di testate anche molto diverse tra loro in quanto a intenti e dunque ogni biografia ha una sua storia anche dal punto di vista dell’approccio metodologico: non mi ritengo un musicologo in senso stretto perché verso il jazz ho un approccio più storico, sociologico, antropologico, medio logico e anche estetico nel senso del paragone con le altre arti, ragion per cui talvolta in una biografia affiora maggiormente il versante socioculturale, in un’altra quello storiografico e via dicendo. Il tutto però sempre con un’attenzione didascalica, quasi pedagogica, che si traduce in una prosa, come dice lei, diretta, cioè accattivante, che spero attragga molti lettori.



JC: Si parla tanto di vite dissolute e jazz: quanto questo binomio è reale e quanto è un luogo comune?


GM: Si tratta di un binomio reale per alcuni musicisti che hanno pagato con la vita o con la galera un comportamento talvolta eccessivo, dovuto soprattutto all’abuso di alcol e droghe. Ma questo riguarda il jazz dalle origini fino grosso modo agli anni Sessanta, perché da allora è il rock a sostituirsi anche nell’immaginario popolare come musica inestricabilmente legata alle esagerazioni in fatto di whisky, birra, spinelli, eroina e cocaina, per non parlare del sesso…



JC: Per parlare di jazz non ci si può esimere dal parlare delle biografie dei jazzisti?


GM: Credo di si, perché il jazzman e un musicista particolare, diverso da quelli classici o rock o pop, dove vige ancora la distinzione tra esecutore e compositore. Nel jazz il legame anche fisico con uno strumento nel gruppo durante l’atto performativo (che resta in primis un atto creativo) produce un connubio indissolubile tra l’arte e la vita che funziona soprattutto a livello psicologico. In altre parole il jazzman non riversa specifici contenuti autobiografici nei temi o negli assolo, perché è la musica stessa (tutta la musica, non solo il jazz) a non essere direttamente semantica. Ma il jazzman parla a suo modo e si racconta mentre suona, anzi è se stesso, risulta lui e basta, nel momento in cui emette anche una sola nota.



JC: Da questo libro traspare una sua visione del jazz molto ampia: quali musiche comprende il jazz e come si può quindi definirlo?


GM: Certo per molti puristi definire jazz il Trio Lescano, Luttazzi, Dakota Staton o i Soft Machine parrebbe un sacrilegio. Ma il jazz da sempre risulta un’arte che preferisce includere anziché escludere, se si pensa che fin dall’inizio si poteva suonare in chiave dixieland di tutto: da brani classici a quelli d’opera, di blues, di ragtime, di vaudeville. Il jazz però in circa un secolo ha compiuto così tanti mutamenti, che resta difficile inglobarlo in una sola definizione. Il jazz è sicuramente una musica afroamericana (oggi suonata ovunque) e improvvisata (sia pur in dialettica con la scrittura), ma forse più in là non si può andare con le definizioni!