Il numero zero di Jimi Hendrix

Foto: la copertina del libro










Il numero zero di Jimi Hendrix

Considerazioni sull’autobiografia del chitarrista

Zero la mia storia

Cosa c’entra James Marshall Hendrix detto Jimi (Seattle, 1942 – Londra, 1970) con il jazz? Si può cominciare con un volume recentissimo dal titolo Zero la mia storia, edito da Einaudi in formato Extra all’interno della prestigiosa – e al contempo popolarissima – collana Stile Libero. Non si tratta del ritrovamento del secolo: Zero non è il manoscritto trovato in cantina o nel solaio dopo quarant’anni, ma un restyling di frammenti che Alan Douglas e Peter Neal propongono, tentando di vitalizzare, sulla carta, un percorso umano e artistico, di cui lo stesso chitarrista è ben consapevole anche nei momenti più duri disperati nella propria esistenza: insomma da cartoline, lettere, appunti, interviste, testi di canzoni e poi diari, poesie e discorsi on stage, Zero inventa ex novo un testo completo, disponendo questi materiali in maniera cronologica e narrativa, fino a restituire al lettore un self-portrait struggente nel resoconto di una vita breve e sulfurea che a metà dei Sixties cambia la musica per sempre, anche per il jazz.


Dice a un certo punto Hendrix: «Alla mia morte ci sarà una jam-session, puoi giurarci. Voglio che tutti diano il massimo e si sballino. E conoscendomi, finirò per cacciarmi nei guai al mio stesso funerale. Il volume sarà alto, e ci sarà la nostra musica. Non voglio canzoni dei Beatles, ma qualche pezzo di Eddie Cochran e parecchio blues. Roland Kirk verrà di certo, e farò di tutto perché non manchi Miles Davis, sempre che abbia voglia di passare (…)» Dunque Jimi non parla di pop, rock o psichedelica ma si richiama alle regole (o meglio non-regole) del jazz, tirando in ballo solo il primo rock’n’roll, per poi rifarsi con il blues e due grandi jazzmen quali Kirk e Miles. Bisogna però fare un passo indietro.



Woodstock Generation

E, occorre ripeterlo, chiedersi: ma cosa c’entra in effetti Jimi Hendrix con il jazz? In apparenza nulla ma l’emblema della “Woodstock Generation” influenza moltissimo non solo la cultura rock ma anche, in particolare, la scena jazz cosiddetta postmoderna, dagli anni Settanta a oggi. In fondo non sono tanti, gli esponenti del rock, che imprimono alla musica una svolta così radicale da farne sentire le conseguenze anche nel jazz medesimo: vengono subito in mente l’avanguardia-cabaret di Frank Zappa (con o senza Mothers Of Invention), il soul-psycho-funk di Sly And The Family Stone, la dada-psichedelia di Robert Wyatt (nei primi Soft Machine). Ma Hendrix è simbolicamente qualcosa di più: resta colui il quale sa coniugare le radici profonde del blues all’atonalismo e all’elettronica, reinventando il suono della chitarra elettrica (la mitica Fender Stratocaster) con una progettualità sostanzialmente jazzistica.


Non caso Jimi è sempre più interessato a un progetto con la big band di Gil Evans che non riuscirà a portare a termine (lo farà il bandleader canadese con Gil Evans Plays The Music Jimi Hendrix nel 1974, primo di una lunga serie di tributi jazzistici al genio hendrixiano). È colpo di fulmine anche tra Jimi e Miles Davis, anzi sarà quest’ultimo a cambiare dopo che la nuova giovane moglie Betty lo porta a un concerto dell’Experience (il trio inglese del chitarrista con Mitch Mitcehll e Noel Redding): gli incontri fra i due non sono tantissimi come si vocifera (forse tre in tutto) e probabilmente non suonano né provano mai insieme, benché resti fondata l’ipotesi (più volte ribadita da Miles in seguito) di un disco a quattro mani.



Nel presente e nel futuro

Dunque passando dalle semplici canzoni ai lunghi assolo, il “jazz” di Hendrix (in realtà strutturalmente più rock, blues, r’n’r e r’n’b che ogni altra cosa) si proietta subito, in quei tre-quattro anni di attività frenetica dal 1966 al 1970 nel presente e nel futuro, rimettendo in discussione il significato del timbro, della melodia, del ritmo nel modo di improvvisare allo strumento e con il gruppo; ai posteri Jimi lascia ufficialmente solo tre studio album – Are You Experienced, Axis: Bold As Love, Electric Ladyland – uno dal vivo – Band Of Gypsys – e uno postumo incompiuto – The Cry Of Love – più una serie quasi infinita di live e inediti, spesso di basso livello qualitativo.


E le immagini cinematografiche, ancora oggi diffusissime, grazie alla rete e ai DVD, restituiscono Jimi in un delirio quasi mistico allorché, al termine dell’esibizione al Monterey Pop Festival (estate 1967) dà fuoco alla propria chitarra elettrica (Fender Stratocaster); oppure due anni dopo a Woodstock in un’altra performance epocale a fare a pezzi l’inno americano, simulando i rumori degli elicotteri, degli spari e dei bombardamenti nella guerra in Vietnam, contro la quale i giovani scendono in piazza a contestare o giungono in massa ai concerti ad applaudire musicisti, come Hendrix, che in qualche modo contestano la brutale aggressione americana. Jimi simbolicamente lotta per la pace, usando il rumorismo, al posto delle parole di rabbia di folksinger come Bob Dylan o Joan Baez o di gruppi acid rock quali Jefferson Airplane o Country Joe And The Fish.



Una terza via

Pace, amore e musica è lo slogan della Woodstock Generation, condiviso solo in parte dal jazz coevo, che da un lato propone un misticismo universale, facendo proprie filosofie e religioni dell’Africa e dell’Oriente, via via con John Coltrane, Pharoah Sanders, Sun Ra, Albert Ayler, Don Cherry dall’altro invece s’avvicina idealmente alla lotta armata delle Pantere Nere o al “tutto e subito” del black power che, in musica, recupera il soul alla James Brown, ma trova, nell’intellighenzia di colore, alleati sinceri, frementi, incontrollabili con il free jazz, da Ornette Coleman a Cecil Taylor, da Archie Shepp ai solisti chicagoani dell’A.A.C.M.


C’è poi una terza via che è quella percorsa, attorno al Sessantotto, da Miles Davis (da Filles de Kilimanjaro in poi) e dai suoi discepoli che si dedicheranno al jazzrock. È un africanismo culturale più di idee e di concetti che di militanza politica, con un sound impensabile senza la “rivoluzione” prettamente musicale impressa da Hendrix. La chitarra jazz prima di Jimi vuol dire Charlie Christian, Wes Montgomery, Jim Hall, Pat Martino, George Benson, Gabor Szabo, Attila Zoller (ovvero bebop sostanzialmente): con e dopo Hendrix la chitarra jazz ha John McLaughlin, Larry Coryell, Sonny Sharrock, Philip Catherine e via via Pat Metheny, Al Di Meola, Mike Stern, John Abercrombie, John Scofield, Bill Frisell e mille altri ancora (ovvero lo spirito di Jimi Hendrix su tutti quanti).



Cfr.: Jimi Hendrix, Zero. La mia storia, Einaudi, Torino 2014, pagine, 246, euro 22.



Discografia consigliata su compact disc: Electric Ladyland (1968)