Foto: dal sito internet di David Linx www.davidlinx-official.com
Il jazz è un linguaggio prima di essere uno stile.
Intervista con David Linx.
David Linx, cantante e compositore, belga residente a Parigi, è tra i jazzisti più innovatori nello scenario attuale: nato a Brussels quarantanove anni fa, vanta un curriculum straordinario, come egli stesso racconta in quest’intervista esclusiva per Jazz Convention, centrata soprattutto su un lavoro destinbato a fare storia: una nuova singolarissima rivisitazione del melodramma Porgy And Bess di George Gershwin.
Jazz Convention: David, partiamo anzitutto dai tuoi lavori odierni, presenti e futuri, prima dell’intervista, elencandoli, mi è sembrato che fossero addirittura una dozzina…
David Linx: Al momento giro in effetti con tanti differenti progetti e ce ne sono molti altri in preparazione. Te li vado ad elencare.
Ho registrato con Diederik Wissels e l’anno scorso e uscito Winds Of Change che festeggia i nostri vent’anni di collaborazione discografica e venticinque in scena; nell’album ci sono invitati del calibro di Ibrahim Maalouf, Jacques-Schawrtz-Bart e Manu Codjia.
Circa un anno fa ho concluso la tournée con la Btussels Jazz Orchestra e Maria Joao proprio per A Different Porgy and Another Bess.
Ho il progetto in Svizzera Colors Of Time con Thierry Lang, André Ceccarelli, eccetera con orchestra da camera e un coro di sessanta persone.
C’è quindi Is That Pop Music con David Chevalier, come dice il titolo musica leggera o canzoni popolari, ma in chiave jazz.
In questi mesi giro molto i paesi francofoni un progetto chiamato à NOUsGARO realizzato in comune con André Ceccarelli tra gli altri, dovuto alla scomparsa di un caro amico, nonché grande cantante francese Claude Nougaro; c’è pure un cd con pezzi noti ma anche alcuni inediti di Baden Powell sui quali ho aggiunto con le parole Marlon Moore, mentre sui testi inéditi di Nougaro abbiamo inserito noi la musica.
A Novembre registrerò il seguito del disco Paolo Fresu che era uscito nel 2001 che si chiamava Heartland. Lo registreremo in Francia e in Italia ovviamente con Fresu, Diederik Wissels, Christophe Wallemme, Helge Andreas Norbakken e un quartetto d’archi.
Ho registrato un progetto sulle celebri canzoni di James Taylor con l’Orchestra Jazz della Sardegna e gli arrangiamenti di Gianluigi Giannatempo e la direzione di Paolo Silvestri.
Sto anche per registrare un nuovo progetto con la Brussels Jazz Orchestra sulle canzoni di Jacques Brel.
L’anno prossimo, andrò in tournée in vari teatri d’opera della Francia con un allestimento de La Tectonique Des Nuages, opera jazz di Laurent Cugny, che ho registrato due anni fa.
Per i miei cinquant’anni sto preparando un progetto di cinquanta duetti in giro per il mondo, e ne ho già registrati alcuni ad esempio con Tigran Hamasayan, Hamilton de Holanda, Theo Bleckman, Nguyên Lê, Marc Ducret, Or Solomon, Magic Malik. Ma ci saranno molti altri invitati ancora. E per il 2016 realizzerò un progetto interamente nuovo con giovani musicisti, più elettrico.
Sto per finire un disco in duo con un bassista meraviglioso, Miche Hatzigeorgiou, uno dei pilastri d’Aka Moon: un lavoro tra basso e voce su nuove composizioni.
Inoltre intervengono spesso come ospite in molti cd di diversi artisti, cosa che mi consente di rinnovarsi e di trovare ulteriori energie espressive. Infine produco e realizzo dischi per altri, in particolare ti segnolo l’ultimo di Daniel Goyone che uscirà nel mese di settembre.
JC: David, parliamo ora del tuo “capolavoro”: da dove o da cosa è nata l’idea di una nuova particolare versione di Porgy And Bess?
DL: Quest’idea mi frulla nella testa da quando sono piccolo, sorprendentemente. Conoscevo la versione di Miles Davis e Gil Evans anche prima che potessi parlare. Mio padre, che ha fondato il famoso festival Jazz Middelheim ad Anversa in Belgio nel 1969, ci ha sempre portati dappertutto, proveniva da una modesta famiglia delle Fiandre e voleva che assistessimo a tutto ciò che era possibile assistere, contrariamente alla sua giovinezza in cui ha dovuto lavorare molto presto in fabbrica. Il suo migliore amico era Nathan Davis (sassofonista leggendario e presidente del dipartimento di etnologia afroamericana all’università di Pittsburg), da allora sempre presente (mio padre invece è morto nel 2005) a anche mio padrino (il mio secondo nome è infatti Nathan). Fin dall’infanzia sono cresciuto in un contesto dalla forte influenza afroamericana. Porgy and Bess mi ha molto colpito e mi sono promesso di farne una mia versione. Avevo la vita davanti a me e quindi l’idea ha avuto il tempo di maturare e quando è giunto il momento, l’ho colto al volo e ho scelto questa opportunità.
JC: In che cosa la tua Porgy And Bess è “different” e “another” (come recita il titolo) in rapporto a Gershwin o alle versioni dei altri jazzisti?
DL: Volevo che la mia, la nostra versione fosse un dispositivo sociale, linguistico e musicale rispetto alle altre versioni che mi avevano comunque segnato. Come lo scrittore James Baldwin, gli afroamericani hanno creato un’arte nel fare meraviglie, nonostante i limiti delle occasioni a loro proposte, tanto nel cinema quanto in musica. Non andavo a registrare Porgy and Bess per rendere omaggio ad artisti che l’ hanno già interpretata benissimo. Io non sono uno da ‘omaggi’ in generale, semmai da ‘celebrazione’. La parola d’ordine per gli arrangiatori era quindi che io non volevo collegamenti con le altre versioni.
JC: E la diversità principale fra la tua versione e quelle ad esempio di Ella & Louis o Ray Charles e Cleo Laine?
DL: La differenza consiste per me nel celebrare eventualmente la somiglianza che è una cosa molto difficile da assumere per la cultura occidentale in generale. Quest’ultima, con una tolleranza abbastanza sospetta, in tutto il suo splendore, mettere in luce la differenza più che la somiglianza delle culture e/o delle razze. Per riassumere, la somiglianza ti costringerà ad accettare «That You can dance and sing too, basically…» se si capisce cosa voglio dire.
JC: Vogliamo parlare anche di David Linx? Puoi parlarci in breve della tua esperienza artistico-musicale dall’infanzia a oggi?
DL: Sono più di trentacinque anni che sono sulla scena e che registro, dunque è meglio che ti risponda soffermandomi su alcuni momenti che ritengo importanti. Quando suonavo la batteria una delle mie prime incisioni e una prima buona claque (come si dice) era registrare quando ero quindicenne con il leggendario trombettista Harry “Sweets” Edison. Era magnifico lavorare con una leggenda così grande (e al contempo così modesta) che ha suonato con Frank Sinatra, Billie Holiday, Ella Fitzgerald, eccetera. Lavorando con gente simile si fanno passi da gigante, in poco tempo equivalente ad anni e anni di conservatorio. Era così con Ernie Wilkins e Sahib Shihab. Non mi ricordo più come ho incontrato Johnny Griffin ma lo conoscevo già prima che abitassi da Kenny Clarke. Con Johnny ero già attivo quale cantante ed essere così giovane e trovarmi in scena con Griffin, Clark Terry, Slide Hampton e anche Art Farmer era come sognare. Mi ricordo che mi trattavano con molto rispetto e mi proteggevano molto. Mi ricordo anche di essermi divertito molto.
JC: Cosa significava vivere per te fianco a fianco con queste leggende del jazz?
DL: Mi rendo conto che tutto questo è stato di grande lezione sul fraseggio. Con Toots Thielemans ho lavorato molto dal vivo, in radio e in televisione ma si è registrato assieme su disco solo in quel progetto che ho registrato con James Baldwin, con Steve Coleman, eccetera. Il quartetto che ho avuto con Steve Coleman, Pierre Van Dormael, Bob Stewart, Natural Logic è stato un gran passo in avanti per me sul piano ritmico, anche perché all’epoca cantava e suonavo la batteria contemporaneamente. Un giorno mi hanno chiamato per sostituire George Benson con la Count Basie orchestra diretta da Frank Foster. In quest’occasione Frank ha arrangiato qualche mia composizione ed era quasi magico cantare con questo suono leggendario che mi avvolgeva dietro e tutt’attorno. Ed era la prima volta che guadagnavo molti soldi per cantare.
JC: A quel punto ci sono stati, se non erro, anche contatti con i jazzisti italiani?
DL: Sì, ho incontrato Paolo Fresu a metà degli anni Novanta, durante un aperitivo che la nostra etichetta discografica aveva organizzato. C’è stato subito feeling tra noi. Non se ne era parlato quella sera, ma ci siamo guardati l’un l’altro per l’intera serata e da quell’istante abbiamo sempre lavorato assieme con regolarità da oltre quindici anni. Come per Diederik posso veramente affermare che sia per me come un fratello. Con Maria Pia de Vito è ancora una “storia d’amore”. Ci siamo incontrati a Nuoro negli anni Novanta e nel 2004 abbiamo fondato con Diederik Wissels il progetto One Heart, Three Voices, che riuniva appunto le nostre voci, con Maria Pia, Fay Claassen e il sottoscritto. Abbiamo girato per più di tre anni con questo progetto. E poi ho incontrato Cristina Zavalloni durante un progetto di Aka Moon con Oumou Sangaré chiamato African Voices attorno a un poema di James Baldwin Some Days che avevo già registrato in un’altra versione con One Heart, Three Voices. Era formidabile cantare con qualcuno che viene dalla classica ma che ha un groove profondo. Stessa cosa con Norma Winstone o Maria Joao o Sheila Jordan, la storia vuole che quando cantiamo assieme è come se l’avessimo fatto sempre. Sheila Jordan ha anche registrato un pezzo che ho scritto con Ivan Lins e con lei ho pure creato il progetto Vocal Be-bop Summit con Mark Murphy, Giacomo Gates, Deborah Brown, Sheila e il sottoscritto già qualche anno fa.
JC: E poi l’incontro fondamentale con la portoghese Maria Joao…
DL: Maria Joao è come se fosse una mia sorella artistica – vocalmente e soprattutto ritmicamente – e il progetto Follow The Songlines con orchestra sinfonica su doppio cd e i concerti hanno cambiato la mia vita. Credo di aver trovato un nuovo soffio vocale e sento di progredire ogni anni ancora e perfezionare in particolare la mia “tessitura”, benché l’anno prossimo compia cinquant’anni. Io e Me’shell Ndegeocello, David Gilmore, Oumou Sangaré, Marie Daulne fra gli altri erano gli invitati di nuovo d’Aka Moon mi sembra otto anni fa (2006) e il fatto che io abbia abitato da James Baldwin e conosciuto Miles ci ha avvicinato molti. Un giorno uno dei concerti Maria è venuta a sentirmi e poi a dirmi: «I wanna play your music». Io le ho chiesto di ripetere la domanda e lei mi ha detto: «Why?». Perché non le credevo affatto. Lei per me resta fra i musicisti e le cantanti mie preferite al mondo, lei ha un groove profondo e offre al contrabbasso uno swing che supera l’accompagnamento. C’è qualcosa di molto africano nel suo ‘gioco’. Non si va da una nota all’altra, sono frasi e cicli interi di cui si tratta. Credo che gli incontri artistici funzionino se il linguaggio artistico è all’unisono. È il palloncino a rendere visibile il gas, è questo elemento che comunica tutto il resto e quando il ritmo e il groove sono chiari, non c’è ragione di parlarne troppo, come fare musica nella luce. E quando si parla, si parla in maniera vera e di altre cose.
JC: Il tuo primo ricordo della musica, quando eri un bambino?
DL: Mio padre aveva un’incisione bootleg di una versione di Georgia On My Mind di Ray Charles al festival jazz di Antibes o Juan-Les-Pins negli anni Sessanta. Una versione molto lenta con organo, flauto e batteria. Magica. La notte quando gli amici di mio padre se ne erano andati, mio padre cantava molto forte a squarciagola questa canzone e mi svegliava ogni volta. Quello che mi ricordo è che volevo essere Ray Charles prima di tutto. Ero troppo piccolo per sapere cosa veramente faceva ma quella voce già mi stregava.
JC: Cos’è per te la musica?
DL: La musica per me è la quadratura della mia vita. Tutto ciò che faccio nasce da lì. Soprattutto dopo trentacinque anni nella professione. Mi alzo con la musica e vado a dormire con la musica. Magari non più in maniera ossessiva come quando ero più giovane, ma forse molto più esposto, sono sempre e ovunque, 24 ore su 24′ ‘abitato’ dalla musica. La musica e ciò che fa la mia felicità, benché sia la vita che mi sprona ascrivere musica o a cantarla.
JC: E cos’è per David Linx il jazz?
DL: Il jazz è un linguaggio prima di essere uno stile. È una delle rare musiche in cui l’incrocio fra i quattro elementi – ritmo, timbro, melodia, armonia – è per tutto il tempo in perenne movimento. È una relazione verticale costante all’opposto ad esempio della musica pop. Detto questo grandi musicisti e grandi cantanti si trovano ovunque in ogni stile. Il jazz è anche un modo di vivere anche se non amo paragonarlo a una religione. Inoltre, credo che l’industria discografica sia così in crisi – ma non è la musica a essere in crisi – che, per cercare di vendere, tende troppo (soprattutto nella musica vocale) a giocare la carta del revival e della nostalgia, fino soffrire un’idea sbagliata del jazz per il grosso pubblico. Il jazz è altresì una musica oggi che evolve forse più ancora che nel passato. E quando vediamo le generazioni emergenti, è incredibile! È ora che il business rimetta le cose in chiaro.
JC: Quali sono stati i tuoi “maestri” nella musica e nel jazz?
DL: I punti di riferimento nella musica sono abbastanza numerosi e domani rischierei di darti altri nominativi, ma un nome di un solo maestro sarà sempre nel mio cuore ed è quello di Miles Davis. Lui – e parimenti James Baldwin nella letteratura – è al crocevia di tutto, ossia completamente popolare e d’avanguardia al tempo stesso. Non so se sarebbe ancora possibile oggi approdare a tali livelli. I tempi sono parecchio cambiati. Naturalmente poi ci sono anche, per me, Duke Ellington, Ornette Coleman, John Coltrane, Charlie Parker, Bill Evans, Nancy Wilson, Karl Heinz Stckhausen, John Cage, Michael Jackson, Jeff Buckley… Ma curiosamente sono gli scrittori a ispirarmi molto di più quando compongo. James Baldwin resta la maggior influenza della mia vita per tutto. Posso facilmente comporre musica dopo aver letto un libro magnifico o anche soltanto qualche bella frase. Alla stessa stregua una bella musica può ispirarmi a scrivere un testo o una storia. Uno che oggi mi ispira moltissimo e senza dubbio lo scrittore Arundhati Roy. I suoi saggi sono come poesia pura, la sua rabbia e piena di amore puro.
JC: E “maestri” nel vocalismo jazz?
DL: Per il canto jazz ti dico Betty Carter, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan e Mark Murphy (ero il suo batterista in Europa quando avevo sedici anni) dal quale ho sicuramente imparato di più.
JC: Il più bel disco jazz per te?
DL: Kind Of Blue, ma ce ne sono moltissimi altri per me, la questione non può ovviamente riassumersi in un solo disco, ma per me l’album di Davis rappresenta le radici e il tronco che hanno generato tutt’intorno i rami e le fronde a cui mi aggrappo.
JC: Cosa nei pensi dei rapporti tra jazz e politica?
DL: Un artista deve essere politico, o meglio non necessariamente esprimere un partito o un’opinione politica. L’atto politico di un artista e quello di affinare la propria passione e diventare eccelso. L’eccellenza stessa è politica perché è quella che potrà conferire l’autorevolezza per essere ascoltato o per raccontare una storia. Se, dopo, si parla in politichese, si corre il rischio di essere inascoltati o fraintesi. Non amo quegli artisti, in genere di musica pop, che elargiscono opinioni politiche solo quando hanno lasciato la scena della musica già da molto tempo.
JC: Visto che hai cantato ovunque, trovi che esistano divergenze fra le platee americane e quelle europee a proposito di fruizione del jazz?
DL: Non direi che esista una vera e propria differenza tra queste due tipologie di pubblico, a parte il fatto che i mie testi, in inglese, si comprendono meglio negli Stati Uniti, in Canada, in Australia o in Gran Bretagna, cosa che stabilisce un’enorme differenza nella percezione di ciò che faccio. Ma il pubblico è ciò che io faccio. Mi dico sempre che se uno spettatore paga il suo biglietto per venirci ad ascoltare è perché ci ama. Sta a noi essere all’altezza del suo amore e proporre buona musica, come pure tenerlo sveglio e vigile e condurrò verso nuovi territori. Lo spettatore è lì per essere anche scuotere di tanto in tanto. Credo che il jazz sia una musica che è suonata e praticata nel mondo intero, ma l'”establishment” del jazz ha voglia di far credere che il meglio sia ancora tutto e sempre negli Stati Uniti. Mi pare una constatazione assai riduttiva. Il jazz oggi e forse tra le rare forme artistiche in cui si tenta di mantenere una gerarchia tra gli Stati Uniti e il resto del mondo, cosa che talvolta sfiora il ridicolo. Ciò non avviene ad esempio nella danza o nellammusica classica o contemporanea e nemmeno nel rock, nella pittura o nella letteratura. E nel jazz strumentale qualcosa sta cambiando, ma non ancora nel jazz vocale. Essendo la mia cultura per metà americana non è che io personalmente ne soffra molto, ma nella professione talvolta succede, e ciò si avverte in maniera molto forte quando si è europei in Europa.