Andrea Pellegrini, un “cantastorie” jazz

Foto: dalla pagina facebook di Andrea Pellegrini










Andrea Pellegrini, un “cantastorie” jazz


Andrea Pellegrini, pianista, compositore, arrangiatore, didatta, e scrittore, ha pubblicato Mirabolanti avventure di un jazzista, un “libro “musicale”, al cui interno è presente Modigliani – il tratto, l’Africa e perdersi, disco realizzato con il Quintetto di Livorno. L’occasione è ghiotta per farci raccontare tutto sulla sua vita di musicista, artista e viaggiatore…



Jazz Convention: Partiamo subito con una domanda diretta: chi è Andrea Pellegrini?


Andrea Pellegrini: Un musicista! Oltre ai lattai, ai chirurghi, ai piloti, ai killer e ai parlamentari, in Italia ci sono un sacco di musicisti. Mangiamo, respiriamo, facciamo la pipì, dormiamo, sudiamo più o meno come gli altri (di questo “più o meno” potremmo discutere a lungo!). Ovvero, faccio musica e la vendo per vivere come un artigiano, un falegname o un panettiere.



JC: Appartieni a una famiglia di musicisti?


AP: Sì. Nella mia famiglia si fa musica dall’inizio dell’800. Tutto cominciò quando il nonno materno (Giuseppe Vianesi, oboista) del mio bisnonno (Giulio Pellegrini) si mise a studiare armonia a Bologna col grande Stanislao Mattei, un francescano che a sua volta era stato compagno di studi niente meno che di Mozart e di uno dei figli di Bach nella classe di Padre Martini, il più importante insegnante di contrappunto e di musica del suo tempo. Insomma, informazioni di prima mano, “docenti” (diremmo oggi) di fama, e un ambientino niente male… Con frequentazioni di questo tipo, o diventi un buon musicista o sei sordo! Il vecchio Vianesi divenne un ottimo musicista e inaugurò per noi una tradizione familiare che dura ancora oggi a cavallo di tre secoli: quella della musica in casa. Fondò addirittura una compagnia formata da se stesso e i propri sei figli musicisti con cui girava l’Italia eseguendo opere liriche. Per la sua compagnia per esempio Donizetti scrisse: «Betly: operetta giocosa in due atti da rappresentarsi nel Teatro Apollo l’autunno del 1842 dai sei fanciulli Vianesi / musica e parole del maestro cav. Donizzetti» (proprio così, con due zeta)… Un figlio di Giuseppe, Augusto, fece una strabiliante carriera internazionale come direttore d’orchestra e compositore; per esempio diresse al Metropolitan di New York la prima americana di Cavalleria Rusticana. Un’altra figlia, Ida, insegnò musica al proprio figlio, Giulio Pellegrini che divenne musicista e amico di Mascagni a Livorno. Un figlio di Giulio, Paolo, era strumentista e compositore, mio nonno. Il mio babbo, Gianfranco, figlio di Paolo, nel ‘900 (perchè intanto, ridendo e scherzando, i secoli passano e si arriva al ‘900) si avvicina al jazz… e passa il testimone a noi, a me, alle mie sorelle Paola e Carlotta e a mio fratello Nino. Noi lo stiamo passando ai nostri figli, dopo sette generazioni dal vecchio Beppe Vianesi, oboista. Una storia fantastica, una ricchezza, un dono; me lo dicono tutti; ok, è vero! E anche una fatica, mi dico a volte, magari sotto un diluvio mitteleuropeo, al confine tra Austria e Slovacchia, in macchina, di notte. Ma non potrei fare altro. Spesso mi chiedo che senso abbia farlo, sopratutto quando la gente sbraita e non ascolta, quando le istituzioni latitano (ormai quasi sempre), quando il barista si ostina a fare il caffè con quella diabolica macchina mentre suoni, quando la Siae fa i dispetti, quando i giornalisti sbagliano sistematicamente tutti i nomi… Ma è il mio modo di interfacciarmi con il mondo, con l’esistenza, con la vita, con gli altri. È una questione d’identità.



JC: Come sei arrivato al jazz?


AP: Mio padre era ingegnere e lavorava alla CMF di Guasticce. Ma la sua famiglia, come dicevo, aveva praticato la musica da sempre. E anche lui suonava ogni giorno. Non aveva un rapporto con la musica troppo mediato da regole: era molto spontaneo, pur conoscendola bene. Per questo quando tornava dal lavoro la sera suonava o cantava, o entrambe le cose. Noi eravamo lì, a aspettare la cena o a farci il bagno, e sentivamo tutto. Era inevitabile. Cominciò a coinvolgerci e a suonare e a cantare con noi. Avevamo 4, 5, 6 anni, roba così. Improvvisavamo. Ci faceva ascoltare e suonare il jazz insieme a altre cose. Praticamente abbiamo imparato a cantare e a suonare più o meno mentre imparavamo a parlare. Questa cosa non l’ha inventata certo il Suzuki, quello del metodo giapponese per insegnare musica… nelle case, in Europa, si faceva da secoli, come del resto in Africa, in modo diverso! Qualcuno la chiamava Hausmusik. È fuori discussione: la musica in casa da piccoli resta la migliore forma di propedeutica musicale. Non è vero che non si può imparare a suonare o a cantare da adulti: è una colossale sciocchezza. Ma è altrettanto sciocco negare che imparare la musica quando si è molto piccoli ti formi una sensibilità armonica, ritmica, melodica potente, profonda. Poi ho continuato a studiare e a praticare il jazz da solo. Ho studiato poi a Siena Jazz per nove mesi e mi sono preso il diploma di conservatorio (cum laude) solo da adulto perchè dirigevo una scuola di musica con 40 docenti quasi tutti diplomati e mi pareva più professionale avere anche io un diploma, anche se nessuno me lo aveva chiesto e mi avevano eletto ugualmente; poi perchè alle mamme un diploma fa sempre piacere! …e poi per avere una conferma, e la conferma l’ho avuta: sì, quello che avevo imparato sul jazz da solo, sul campo, “all’antica”, a orecchio, dai dischi e grazie a mio padre era giusto e corretto… Diciamo che il 75% di quello che so l’ho imparato a casa, o da solo, nei locali, sul palco, sulla strada. Non dico che sia la via migliore, ma è stata la mia. Scelgo sempre la strada più complicata….



JC: Livorno, la tua città, cosa rappresenta nel tuo immaginario di artista?


AP: Non considero Livorno la mia città. Intanto, sono nato a Genova e ci tengo. Livorno è semplicemente una follia. È una città isterica senza essere moderna perchè è arretrata, ottusa, maschilista, consumista, conformista e ignorante, e addormentata senza essere tranquilla. Ha il peggio dei piccoli paesi senza averne i lati positivi e il peggio delle metropoli senza averne i vantaggi. I livornesi dovrebbero iniziare a porsi delle domande serie, perchè così non si può andare avanti. Altro che fare arte: qui a Livorno camminare per strada senza rischiare la vita è già un risultato, e spostarsi è rischioso come andare in guerra, e vi assicuro che non sto esagerando. C’è da molto tempo una totale noncuranza delle regole più elementari. Si vive tutto quello che è “comune”, ovvero di tutti, con una sciatteria che sconfina spesso nell’illegalità anche in forme gravi, un’illegalità incredibilmente tollerata. Non sto esagerando. Come puoi fare l’artista qui? Non c’è garanzia che domani una panchina sia al suo posto. Fai una scultura? Ci trovi scritto “Pisa merda” dopo due ore, e pare sia una cosa simpatica: vorrei sapere cosa ne pensa chi ha fatto quella scultura, chi si è piegato in due dalla fatica per imbiancare quel muro o l’operaio che ha posato quel palo, quella panchina, quel marciapiede. Un progetto, piccolo o grande che sia, tutto questo costruirlo a Livorno è un’impresa quasi impossibile. Si è sfasciata la cultura di una città che pure in passato ha dato i natali a un numero incredibile di artisti perchè era un luogo d’incontro, perchè era un porto, e poi un porto franco, internazionale da secoli, ma anche perchè la gente era diversa. Nessuna città è popolata solo da geni o da santi o da eroi. Ma io vorrei una città normale. La “Livorno delle Nazioni”? Sì, bello, ok, ma accanto a ideali libertari, internazionalisti, di rispetto e tolleranza, illuministici, eccetera, c’erano anche precisi intenti commerciali privi di ogni scrupolo. Livorno è una città nata sulle contraddizioni. Come tante altre comunità moderne, fa finta di non conoscere, o non ha il coraggio di ammettere la propria storia e non vuole farci i conti e soprattutto non vuole cambiare la propria cultura di base. Chi dice, magari scherzando, «Se vuoi fare come ti pare vai a Livorno» dimentica che per ogni persona che fa come gli pare c’è un’altra persona che vede i propri diritti calpestati. Cosa ci sia mai di sinistra o di libertario o di illuministico in questo, è un mistero. Come puoi fare arte qui? Non puoi fare niente, non puoi intraprendere alcun progetto di alcun tipo, se non tra mille difficoltà: è una questione culturale, prima che finanziaria o tecnica. Mettici una classe politica locale da sempre complice di questa situazione o incapace di arginarla, mettici il fascismo, le guerre mondiali, i bombardamenti e la crisi finanziaria e ottieni una delle città più povere d’Italia, con il tasso di disoccupazione tra i più alti in assoluto, in cima a tutte le classifiche di record negativi nazionali tranne qualche eccezione. Ora, chi fa arte, o spettacolo, o cultura, deve venderla, per campare, che sia un quadro, un concerto, un libro o una scultura. Giusto? E chi compra queste cose, qui? Nessuno apprezza quel che fai tranne pochissimi, e ancora meno, fra questi, sono quelli che possono permettersi di spendere in arte. Come purtroppo un po’ in tutta Italia, che pure è ancora la settima potenza mondiale. Risultato: ti proponi fuori, il che, intendiamoci, devi farlo comunque, se vuoi confrontarti, crescere, capire, vedere, imparare. E Livorno si svuota, lentamente ma inesorabilmente, per colpa sua. Per questo e per altri motivi, da sempre viaggio il più possibile.



JC: Ci puoi fare un sunto della tua produzione discografica


AP: Ho vissuto alcune bellissime esperienze di produzione, come quella con Paolo Fresu a Sion in Svizzera a cura dell’etichetta Symphonia (per il Cd Things Left Behind). Registrare con un tecnico Steinway a disposizione che ti accorda il pianoforte e controlla l’umidità ogni ora, uno studio con le pareti orientabili a seconda dei desideri del fonico, per il suono. Una grafica bellissima, i bellissimi temi di Claudio Riggio, musicisti fantastici, vivere insieme una settimana, concentrati.. recensioni lusinghiere in diversi paesi. Anche produzioni realizzate in economia come le tre incisioni dell’Orchestra Atipica Jazz Bonamici Group_One alle quali tengo tantissimo perchè raccontano dieci anni della mia storia di insegnante e direttore, anni assolutamente indimenticabili, pioneristici, avventurosi, in cui si faceva musica insieme agli allievi e si sperimentava, cosa oggi rara, con pochi anzi pochissimi mezzi per colpa di istituzioni locali prive di qualsiasi senso di responsabilità verso gli operatori culturali locali; musica interessantissima e che ha attirato l’attenzione di grandi musicisti e critici italiani e stranieri… E anche qui abbiamo vissuto insieme per qualche giorno: il sistema migliore per fare buona musica insieme è stare molto insieme. Forse i dischi in cui mi riconosco di più sono Progetto Macchiaioli (2008, Vinile) e Modigliani (Erasmo / Il Poderino, 2014), entrambi del mio Quintetto di Livorno con Tino Tracanna. Tengo moltissimo alle collaborazioni con Paul McCandless ovviamente, il quale, dopo 12 anni di lavoro insieme, è diventato per me un caro amico, ma la sfortuna ha voluto che la prima nostra produzione (vale a dire il Cd Middle Earth, Symphonia Bluesmiles 1999) sia stata realizzata con un suono del tutto sbagliato. Peccato; le composizioni le amo molto. Bellissime esperienze discografiche, musicali e personali anche il Cd in duo con mio fratello Nino (Emma e il martedì, Vinile) e quella con la band di Marco Cattani (Sorvoli, Lapsus 2001). Pazzesca quella con Bruno Tommaso (Original Soundrack for Charles And Mary, Onyx, Matera 2012), con quartetto d’archi, quartetto di fiati e sezione ritmica; anche qui stessa tecnica… studiare, provare e soprattutto stare insieme tutti, durante i giorni del lavoro di registrazione. Giorni ogni volta indimenticabili.



JC: … e delle tue collaborazioni con altri artisti


AP: Tra le collaborazioni che ho da tempo ma che non sono ancora sfociate in produzioni discografiche amo quella con il sassofonista lituano Vytautas Labutis e il suo collega bassista Eugenius “Genius” Kanevicius. Due musicisti dell’area baltica pazzeschi, tecnicamente straordinari, con grande senso della forma, dell’humor, dell’energia musicale, espertissimi e grandi improvvisatori, non molto conosciuti nell’Europa occidentale e meridionale, purtroppo per noi! Gente che ricorda cos’è una dittatura meglio di noi e che ama la cultura e l’arte davvero. Ci sono vari video professionali su Youtube che mostrano un concerto che abbiamo fatto insieme a Vilnius. Un altro con cui vorrei registrare è il formidabile chitarrista italo – francese Vittorio Silvestri; un bopper stratosferico che non dimentica la melodia nostrana e il gusto raffinato, e un caro amico. Con lui abbiamo registrato un master a Nimes, in Francia, che però non è mai stato pubblicato. Con Paul McCandless abbiamo poi inciso anche un altro Cd, West Coast, con Marco Cattani, e ora vorrei registrare un duo con lui, dopo tanti anni di lavoro insieme. La collaborazione che ho attiva da più anni è quella con il meraviglioso sassofonista maremmano Piero Bronzi; un suono sul soprano fra i migliori d’Europa. Suoniamo insieme da venticinque anni; abbiamo un duo con musiche di Mingus e progetti vari. La collaborazione, fra quelle recenti, più emozionante è senza dubbio quella con mia figlia Chiara. Chiara ha uno swing che butta in terra, è molto musicale, e dividere il palco con lei ogni volta è un’emozione quasi insostenibile. Mi fa sentire che non sono un cattivo babbo, in fondo, se siamo lì insieme. Un altro giovane con cui lavoro, che da essere un talento promettente è passato a essere un talento che mantiene le promesse, è Mattia Donati. Gusto, intonazione, curiosità, grande rispetto per tutta la musica, dalle esperienze di Gabrio Baldacci alla tradizione dei crooner… un giovane musicista che farà del bene alla musica.



JC: Hai anche scritto un libro, Mirabolanti avventure di un jazzista, che contiene allegato un Cd intitolato Modigliani – il tratto, l’Africa e perdersi. Come nasce questo progetto? E il disco? Sono tutte tue composizioni?


AP: Qualche anno fa Maurizio Mini, già collaboratore dell’Ufficio Stampa del Comune di Livorno, grande comunicatore, voleva realizzare un libro sulla storia del jazz a Livorno. Per coincidenza venne a sapere che proprio quello era stato il tema della mia tesi di diploma in jazz. Decidemmo di unire le forze sostenuti da Franco Ferrucci, grande libero libraio purtroppo scomparso da poco lasciando un grande vuoto a Livorno, e fare un lavoro editoriale insieme che fu pubblicato (“Livorno, dalla musica americana al Jazz”, Erasmo edizioni, Livorno) e incoraggiò Franco a propormi poi di pubblicare anche certi racconti brevi che avevo scritto nei miei venticinque anni di lavoro come musicista. Racconti di viaggi, di incontri, aneddoti, storia personale, riflessioni. Non solo: Franco voleva anche pubblicare, insieme al libro, un mio Cd allegato. È raro incontrare persone così, sensibili e disposte a investire nell’arte e nella musica d’autore. Gli parlai della mia musica ispirata a Modigliani. Insieme allo studio Il Poderino della Gioiosa e al bravissimo fonico Francesco Landucci realizzammo il Cd. Sono molto contento di questa operazione, perchè raccontare per me è un po’ come suonare con le parole. Forse perché per me suonare è sempre un po’ raccontare: il più grande complimento l’ho ricevuto al jazz club di Firenze (altri tempi). Dopo il concerto una signora mi disse: «Sembri un cantastorie».



JC: Parlaci dei musicisti che ne fanno parte


AP: Il questo Cd c’è il Quintetto di Livorno, lo stesso con cui ho pubblicato nel 2008 il Progetto Macchiaioli, con due sostituzioni: Michele Vannucci al posto del mitico Riccardo Jenna (a cui peraltro è dedicato uno dei racconti del libro), perchè nello stesso periodo lavoravo con Michele al Cd con Paul McCandless (West Coast) e mi piaceva dare spazio a Michele con cui iniziavo ad avere un ottimo rapporto; e Tony Cattano al trombone al posto di Dimitri Espinoza (sax) perchè con Dimitri ho sempre avuto un rapporto conflittuale; ci stimiamo molto e credo che ci vogliamo bene, ma non c’è verso di capirsi. Tony è fantastico. Tino è un amico. È nato a Livorno e se lo ricorda ogni volta che suoniamo insieme: ama il mare e le triglie alla livornese, e le poche altre cose belle rimaste in questa strana città. È un musicista straordinario. Unisce una solida disciplina, uno studio accurato, una grande attenzione al suono con una grande spontaneità. Uno dei pochi sassofonisti italiani che ha sviluppato uno stile personale al di là di clichè e luoghi comuni.



JC: I tuoi nuovi progetti?


AP: Beh, oggi in Italia avere progetti di musica d’autore è davvero difficile. Siamo in un paese allo sfacelo dal punto di vista sociale, guidato da una classe politica fra le peggiori dell’occidente, corrotta all’inverosimile come affermano i dati noti a tutti; una classe politica piena di persone che dovrebbero stare letteralmente dietro le sbarre (ovvero condannate in terzo grado) e invece fanno le leggi, e moltissime altre che stanno subendo processi per reati di ogni tipo; come puoi progettare qualcosa? Non ci sono i referenti, non ci sono le competenze, non c’è più alcuna cultura artistica diffusa. Non diciamo che non ci sono i soldi: è falso. Balle. I soldi ci sono e più di prima, ma stanno tutti nelle tasche di pochi a causa di una cronicizzata ingiustizia sociale… Ormai lavoro quasi solo all’estero. Vorrei incidere un duo con Paul, proseguire il lavoro con Chiara e con Mattia, sperimentare, cercare un linguaggio comune fra il mio JazzLab livornese (un laboratorio a metà fra didattica e produzione) e la Banda Città di Livorno… lavorare con un quartetto di violoncelli… Chissà. Il mio progetto più importante è quello di continuare a amare le persone che amo e quello di fare del bene a più persone possibile facendo musica al meglio. Perchè continuo a credere nella musica, “di fronte all’ordine enigmatico dei sordi”. Fare musica fa bene davvero e non sai quanto. Senza la musica si muore, veramente!