JAZU: Jazz from Japan. Intervista. Saori Yano

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Intervista a Saori Yano

Traduzione dal giapponese di Nico Conversano


Recensione a Answer

Sin dai suoi esordi discografici come enfant prodige della scena jazzistica giapponese, la alto sassofonista Saori Yano ha sempre prestato grande attenzione alla più pura tradizione jazzistica e ai suoi leggendari interpreti. Dieci anni trascorsi tra energiche performance swing, grande tecnica esecutiva e stile sofisticato, confluiscono ora in Answer, decimo lavoro che esalta le maggiori influenze e i principali tratti espressivi di questa interessante musicista.



Jazz Convention: Secondo il tuo profilo biografico, il tuo percorso artistico è iniziato in maniera piuttosto inusuale. Infatti, quando all’età di 9 anni ti sei unita alla banda di ottoni della tua scuola, sembra che fossi più interessata a suonare il flauto, ma hai finito per scegliere il sax contralto quasi per caso. Puoi raccontarci com’è andata?


Saori Yano: In effetti, dietro la scelta del mio strumento c’è una storia un po’ particolare. In famiglia non ci sono altri musicisti. Non è esattamente una di quelle che verrebbe comunemente definita “una famiglia musicale”. Quando frequentavo la scuola elementare, come tutti i bambini della mia età, mi sono unita alla banda di ottoni della scuola. In Giappone, per qualche ragione particolare, sono tante le ragazzine a far parte delle bande scolastiche. Dato che io, come tante altre coetanee, volevo suonare uno strumento piccolo e grazioso come il flauto o il clarinetto, fu deciso che avremmo messo in palio la scelta dello strumento giocando a morra cinese (N.d.R: gioco in Italia conosciuto come carta-forbice-sasso). Fu così che, perdendo la mia giocata, mi venne assegnato il sax contralto.



JC: Hai scoperto Charlie Parker attraverso l’ascolto di una versione di Donna Lee suonata dal bassista elettrico Jaco Pastorius. Cosa hai pensato la prima volta che hai ascoltato questo brano e cosa ti ha affascinato di più di questa icona del jazz?


SY: La prima volta che ho ascoltato la sua musica ho pensato che fosse qualcosa di unico e rivoluzionario. Era una musica radicale, di alta qualità. Qualcosa che non avevo mai sentito prima e capace di esprimere tutta l’interiorità di chi la suonava. Al suo interno c’erano regole, trasgressione e tanta energia. Fino a quel momento mi ero interessata a stili musicali come l’hard core e l’hip hop, generi provvisti di una certa dose di impetuosità. Il be bop, invece, è una musica fondamentalmente strumentale, il cui nome non fa pensare necessariamente a qualcosa di speciale o rivoluzionario. Tuttavia la musica suonata da Charlie Parker, sebbene priva di parole, era capace di raggiungere velocità incredibili e questo mi colpì come un proiettile.



JC: In seguito il tuo interesse per Bird e il jazz crebbe sempre più forte. Quanto è stato difficile per una ragazza così giovane esercitarsi sul sax contralto avendo Charlie Parker come punto di riferimento?


SY: Ho lavorato in particolare modo sull’intonazione di Charlie Parker. Di solito non penso a quanto le cose possano essere difficili da fare.



JC: All’età di 14 anni, ispirata dall’autobiografia di Billie Holiday, hai iniziato ad autopromuoverti cercando di trovare degli ingaggi nei jazz club. Quanto è stato difficile convincere i gestori dei club che anche una ragazzina così giovane potesse essere in grado di suonare il bebop e quanto è cambiato in Giappone, rispetto a qualche anno fa, l’accoglienza verso le musiciste jazz di sesso femminile?


SY: Come spesso succede a quell’età, poco dopo aver iniziato a frequentare le scuole medie entrai in un periodo difficile e ribelle. Non avevo più voglia di andare a scuola e trascorrevo le mie giornate andandomene a spasso per Shibuya (N.d.R: celebre quartiere commerciale di Tokyo) senza meta. Ovviamente i miei genitori non poterono restare indifferenti a questo comportamento, così un giorno mi affrontarono dicendomi: «Se non vuoi più andare a scuola, allora trovati un lavoro!» Pur avendo visto i miei genitori così arrabbiati, non pensai quasi nulla, ma allo stesso tempo acconsentii. «Se così dev’essere, allora perche non trasformare quello che più mi piace, il jazz, nella mia professione?» pensai. Fu l’inizio di un periodo terribile e pieno di errori. Giravo i jazz club in cerca di lavoro, portando sempre con me un’autobiografia di Billie Holiday. All’epoca non ero molto risoluta e non avevo molta fiducia in me stessa, poi poco per volta si fece strada in me il pensiero che potenzialmente non c’erano cose impossibili da realizzare. In tutti i jazz club di Tokyo in cui mi recai, eccetto quelli che contattai telefonicamente, mi venne sbattuta la porta in faccia. A pensarci ora, penso che fosse un atteggiamento comprensibile nei confronti di una ragazzina che nessuno conosceva. Mi sentii affranta: la realtà si stava dimostrando molto diversa da quella che mi ero immaginata. Poi, dopo circa un centinaio di tentativi falliti, il proprietario di un jazz cafè chiamato Cafe Clair, finalmente mi disse: «Vieni e fammi vedere quello che sai fare!» Così tutto ebbe inizio! In Giappone oggi ci sono tante meravigliose musiciste e continuano ad esordirne di nuove. Sono molto felice di questo!



JC: Grazie alle tue eccellenti performance e ad un rapido passaparola, giungesti in breve a registrare il tuo primo disco d’esordio per la Savoy nel 2003, diventando la seconda artista giapponese a registrare per questa celebre etichetta. Cosa ha rappresentato all’epoca questo disco per te?


SY: A tanti anni di distanza dal mio primo album, mi vengono in mente cose stupide,come: «avrei potuto fare di più…» o «mi imbarazza riascoltarlo…» In seguito, ho realizzato che dopo tutto la registrazione di un disco non è sempre mirata ad un risultato che sia il più possibile bello, virtuoso o tecnicamente perfetto. A pensarci ora, è stato un lavoro importante anche perché mi ha permesso di sbarazzarmi di quella parte di me che, all’epoca ancora sedicenne, si ritrovava spesso a contatto con gente più adulta e cercava di atteggiarsi come tale, nascondendo il fatto di essere sotto pressione.



JC: Con la pubblicazione del tuo secondo album, 02, hai iniziato una lunga serie di registrazioni negli Stati Uniti che ti hanno portato a collaborare con importanti esponenti della scena jazzistica americana. Quando hai visitato per la prima volta la terra in cui il jazz è nato, qual è stata la tua prima impressione riguardo i musicisti e il pubblico americano?


SY: La prima volta che ho visitato gli stati Uniti è stato all’età di 15 anni. Quando ho registrato il mio secondo album era la seconda volta che ci tornavo. Durante la mia prima visita a New York, mi recai da sola ad Harlem, un posto in cui ancora oggi la sicurezza pubblica scarseggia, per partecipare ad una session con altri musicisti. Il pubblico, seppure incuriosito, apprezzò la mia performance, ma gli altri musicisti non furono altrettanto gentili con me. Certo, sarà stata anche colpa della mia scarsa competenza tecnica di allora, ma nonostante mi sia ritrovata tra musicisti che mi riservarono un’ingiustificata ostilità, l’idea di poter suonare con musicisti di prim’ordine come loro mi spinse a fare questa esperienza.



JC: Hai avuto l’opportunità di suonare con uno degli straordinari musicisti che collaborarono alla leggendaria incisione di In a Silent Way di Miles Davis, il batterista Jimmy Cobb. Mr. Cobb ti ha accompagnato nel tour promozionale del tuo terzo album, Sakura Stamp, ed è anche presente nel tuo primo disco live del 2005 registrato allo Smoke di New York. Com’è stata la tua esperienza con questo maestro del jazz che ti ha anche definito la “Cannonball Adderley giapponese”?


SY: Jimmy si è dimostrato una persona straordinariamente umile e un po’ riservata. Si è sempre comportato in maniera molto gentile con me.



JC: Parliamo del tuo ultimo disco intitolato Answer. Come mai hai scelto questo titolo?


SY: La scelta nasce dal fatto che questo disco è la mia risposta discografica ad alcune richieste musicali dei miei fan, che attraverso un piccolo sondaggio hanno scelto dei brani dalla mia discografia che ho quindi deciso di reinterpretare.



JC: Com’è il rapporto con i tuoi fan sopra e lontano dal palco?


SY: Fondamentalmente, considero la mia musica come qualcosa che una volta prodotta dal mio strumento non appartiene più a me, ma diventa di coloro che sono venuti ad ascoltarmi. Penso in continuazione a questo: mentre bevo un drink, prima di andare a letto, mentre mangio, mentre sussurro a bassa voce o me ne sto tranquilla a braccia conserte. È un concetto difficile da esprimere a parole…



JC: Answer celebra anche I tuoi dieci anni di carriera discografica come jazzista. La presenza del grande trombettista giapponese Terumasa Hino, presente come ospite in un paio di brani, rappresenta la ciliegina perfetta sulla tua torta d’anniversario. Com’è stato registrare con questa leggenda del jazz giapponese?


SY: Penso che Terumasa Hino sia in possesso di tecnica esecutiva e sensibilità musicale strabilianti, intrise di una incredibile spiritualità. Guarda sempre alla musica come un tutto unico, senza porsi limiti. Un giorno mi ha detto: «Quando proprio non trovo l’ispirazione per creare la mia musica e ne ho le scatole piene, lascio tutto e penso “Che bello, è ora di prendermi una pausa!” In momenti come questo me ne vado a mangiare quello che più mi piace, gioco a golf, e una volta stanco, me ne vado a letto e penso “Ah, che bella vita!”Infatti quando ho un sacco di idee o lavoro su qualcosa, sono tremendamente impegnato!» È stato un discorso che mi ha piuttosto impressionata.



JC: Il celebre sassofonista James Moody è stato tuo maestro e mentore per un certo periodo ed ha rappresentato un importante tassello del tuo apprendistato musicale. Nel tuo ultimo disco hai deciso di ricordare lo scomparso musicista americano con il brano Moody’s Mood for Love al termine del quale hai dedicato alcune parole di gratitudine nei suoi confronti. Quali sono le cose più importanti che Moody ti ha insegnato, musicalmente ed umanamente?


SY: Durante le lezioni poteva essere molto serio, ma sapeva anche farti divertire. Come insegnante, si preoccupava sempre per me e mi parlava spesso e con pazienza dell’importanza e delle difficoltà di una vita vissuta a lungo come la sua. Mi diceva sempre: «Se riuscirai a suonare come se stessi parlando e a parlare come se stessi suonando, allora sarai diventata una grande jazzista!»



JC: Quali sono i vantaggi nell’essere una autodidatta come te?


SY: Esserlo mi porta a suonare sempre in maniera sincera ed onesta.



JC: Molti sono gli standards selezionati per questo album. Qual è il tuo rapporto con queste immortali composizioni della tradizione jazzistica?


SY: Sono trascorsi solo 14 anni da quando ho iniziato a suonare jazz, ma ho l’impressione di aver sempre suonato standard. In realtà, aldilà del jazz mi piacciono anche reggae, hip hop, e funky, ma chissà perché ho finito per suonare jazz. Non ne conosco bene la ragione.



JC: In Answer c’è anche spazio per composizioni originali come la ruggente title track Answer o Suna to Sukato (N.d.R. “Sabbia e Gonna” in giapponese), un brano che è stato già registrato diverse volte nei tuoi album precedenti. C’è una storia particolare dietro la scelta di questo titolo?


SY: Suna to Sukato è un brano che ho scritto all’età di 14 anni. Dopo averlo registrato la prima volta, ho deciso di reinciderlo dopo un tour della Alex Cuba Band, alla quale mi ero aggiunta su loro invito, aggiungendoci delle parole. Questa volta, essendo un brano molto votato dai miei fan, ho deciso di reinterpretarlo ancora. È un brano che mi ha permesso di farmi conoscere da molte persone perché parla della voglia di crescere in fretta.



JC: Oggi vivi ad Okinawa (N.d.R: L’isola più a sud dell’arcipelago giapponese, a circa 1500 km da Tokyo). Come mai hai deciso di trasferirti così lontano dalla più vitale scena jazzistica di Tokyo?


SY: È stata una decisione presa in seguito ad uno dei tanti forti terremoti che spesso colpiscono l’area di Tokyo: un evento che mi ha portato a pensare a cose sulle quali non avevo mai ragionato prima e a porre le cose su una mia personale scala di valori. Ovviamente, non è stata una decisione semplice.



JC: In Answer suoni anche una versione del tema del famoso film Taxi Driver, originariamente suonata dal sassofonista Tom Scott. Questo mi ha fatto pensare a quali potessero essere i tuoi altri interessi al di fuori del jazz?


SY: Taxi Driver è uno dei miei preferiti e sin dall’inizio ho suonato il suo tema nelle mie performance dal vivo. A parte la musica, sin da bambina mi è sempre piaciuto leggere molto. Mi piacciono scrittori giapponesi come Dazai Osamu, Endo Shusaku e Edogawa Ranpo, molto noti anche all’estero (N.d.R: Ciascuno di questi autori è stato tradotto anche in italiano). Inoltre sono anche una fan di Stephen King.



JC: Qual è la tua opinione riguardo l’attuale situazione della scena jazz giapponese?


SY: La cultura jazz in Giappone è matura, ma fatica ad entrare nella vita di chi non è propriamente un appassionato di jazz. Forse se questo genere diventasse un po’ più “pop” sarebbe meglio, ma d’altronde capisco anche le ragioni per cui questo non succede.



JC: Sino ad oggi hai tentato diversi tipi di approcci e formazioni: nel tuo quinto album, Groovin’ High, hai avuto la possibilità di suonare con alcuni membri della Dizzy Gillespie All Stars come Lionel Hampton, Jimmy Heath e Randy Brecker; in Little Tiny, del 2007, hai suonato con il veterano dell’organo Jimmy Smith e nel tuo tributo a Billie Holiday del 2008, intitolato Gloomy Sunday, sei stata accompagnata da una sezione d’archi. Tra i lavori che hai realizzato sinora qual è quello che ami di più?


SY: In tutti i miei album ho avuto sempre i validi musicisti che cercavo. Ogni volta che realizzo un nuovo disco, cerco di dare il mio meglio pensando sempre che potrebbe essere l’ultimo… . Ora come ora però, non credo che rifarei un altro disco con gli archi.



JC: Qual è il tipo di progetto che vorresti realizzare nel prossimo futuro?


SY: Penso che finirò col mettere insieme un po’ di tutto: alcuni brani dal musical Chorus Line, qualcosa di cubano e latino, occasionalmente un po’ di reggae e principalmente del bebop. Non vedo l’ora!