Dossier Gershwin – Parte Terza

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Dossier George Gershwin

Parte Terza

Quest’anno, per George Gershwin (1898-1937) si celebra un triplo anniversario: cent’anni, nel 1914, appena sedicenne, il giovane debutta come pianista per orchestra per le edizioni Rernick, dove conosce un certo Frederick Austerlitz, che gli rimarrà amico tutta la vita, cambiando più tardi, come fa lo stesso Georg Gershowitz, il proprio nome e cognome tedesco Fred Astaire diventando il pendant, nella danza, della genialità gershwiniana. Novant’anni fa debutta la Rhapsodiy In Blue, destinata a diventare un classico della letteratura musicale novecentesca, in uno anno particolarmente prolifico per il compositore, di cui va segnalato almeno il musical Lady Be Good! con Fascinating Rhythm quale brano di enorme successo. E ottant’anni Gershwin fa inizia a scrivere il lavoro più impegnativo, il melodramma Porgy And Bess. Di questo e altro si parla con Letizia Ragazzini, Gian Nissola e lo stesso George Gershwin in una “intervista” che è da ritenersi “assolutamente inedita”.


Guido Michelone “dialoga” con George Gershwin

Un’intervista impossibile



Jazz Convention: Così, a brucialo, come si definirebbe in tre parole, Maestro Gershwin?


GG: Sono un uomo con un po’ di talento e un grande fondello.



JC: Com’è diventato musicista?


GG: Ignoravo totalmente ciò che poteva essere l’armonia (…) quando i critici constatano in me questa debolezza, non mi insegnano granché. Io sapevo già dove volevo andare, e nessuno avrebbe potuto sbarrarmi la strada (…). Ho sempre avuto una sensibilità istintiva nel combinare i diversi suoni e anche alcuni accordi che suonano ‘moderno’ nelle mie composizioni orchestrali sono stati annotati senza che io vi abbia riservato una particolare attenzione alla loro struttura teorica.



JC: Come ha scoperto di essere musicalmente dotato?


GG: Avevo l’abitudine di ascoltare con intensità. Quando andavo a un concerto, ascoltavo non solamente con le orecchie, ma anche con i nervi, l’anima, il cuore. Ascoltavo con tanto fervore che mi saturavo di musica. Una volta rientrato in me, riascoltavo il tutto con la memoria. Mi sedevo al pianoforte e ripetevo i motivi. Imparavo a conoscere ciò che tentavo più tardi d’interpretare, lo spirito del popolo americano.



JC: Le è pesata all’inizio la scelta di diventare compositore?


GG: Nessuno si aspettava che componessi musica. Ma l’ho fatto… Quando mi si interroga su ciò che cerco di fare, mi accontento di rispondere che tento di esprimere ciò che è dentro di me. Certa gente ha la capacità di tradurre i propri sentimenti in parole o in musica. Migliaia di altri individui condividono gli stessi sentimenti, ma restano muti. Quelli fra noi che possono farlo, devono parlare per quelli che non ne sono capaci, ma in tal senso devono farlo in tutta onestà.



JC: Che idea ha della storia della musica?


GG: Ho affermato molti anni fa che esistono pochissime differenze tra le musiche di ogni paese. C’è solo un piccolo tocco individuale. Un Paese può preferire un ritmo o un intervallo come la settima. Si insiste su questo e la nazione finisce per identificarvisi. In America il ritmo preferito risulta il jazz.



JC: Quindi per lei il jazz vale molto, a differenza di quanto sostengono ancora molti accademici?
Il jazz è musica; utilizza le stesse note di Bach. Quando si suona del jazz sia in Europa sia da noi, si parla di jazz americano. In un altro paese il jazz suona falso. È il risultato di un’energia che è stata immagazzinata in America. Si tratta di una musica molto dinamica, rumorosa, tumultuosa e anche volgare. Una cosa è certa, il jazz ha offerto un valore di riferimento all’America perché ha saputo esprimere ciò che noi sentiamo. Quest’arte americana notevole durerà, forse non in quanto jazz, ma lascerà tracce nella musica futura sotto una forma o sotto un’altra. Le sole musiche che sopravvivono sono quelle che si integrano nel movimento universale e nella musica popolare. Tutte le altre muoiono. Ma incontestabilmente le canzoni pop sono o sono state scritte con elementi jazzistici duraturi!.



JC: Maestro, Lei si avvale di suo fratello Ira in veste di paroliere, ma come deve seguire, passo a passo, il lavoro del compositore?


GG: Io imparo a orecchio o a memoria la musica abbastanza in fretta. In seguito la lavoro e la rilavoro, cominciando a mezzanotte fino alle sei o alle sette del mattino. La cosa più importante è il titolo, e ciò che ci sta dietro. Bisogna trovare quest’idea metterla in epigrafe ed esibirla nelle parole che seguono. Le parole senza dubbio non hanno un valore letterario autonomo. Con il vocabolario ristretto che utilizziamo, siamo lontani dai paesaggi lussureggianti di un poeta. Se è il caso il pubblico non ci capisce niente. Quando si legge una poesia, si può vedere la pagina stampata, mentre ogni strofa di una canzone viene cantata una sola volta nel corso della serata.



JC: Quindi Lei sostiene la necessità di testi facili, diretti, comunicativi?


GG: Le parole dunque devo essere semplici, espressive, moderne, in rima… un po’ come una conversazione. Tocca al paroliere servirsi di qualche centinaia di vocaboli sui quali ha il diritto di rigirarti con tutta l’abilità di cui dispone, tentare di trovare qui e là una frase che piacerà ai ‘clienti’ e che portano a ripetere ballando.



JC: Ascoltando le sue canzoni, si avverte in Lei quasi come una facilità estrema nello scrivere: è vero?


GG: Ho spesso composto le mie canzoni con altre persone nella stanza o mentre stavano giocando a carte in quella vicina. Quando mi trovo nello stato d’ispirazione desiderato, posso mantenerlo sino alla fine del lavoro (…). Mi capita spesso, in occasione delle serata fra amici, di suonare i miei songs, in modo che poi sono stato stimolato a comporre numerose variazioni su questi temi, cedendo pure a quel desiderio di complessità e di varietà che avvertono tutti i compositori che lavorano a differenti varianti sullo stesso materiale.



JC: Ed è per questo che a un certo punto viene pubblicata una sorat di antologia delle sue canzoni come il Songbook?


GG: Songbook con arrangiamenti per piano solo, per ogni chorus, facendo seguito alla notazione abituale, puramente vocale. Certi sono molto difficili; sono destinati a tutti quelli che validi pianisti – e che sono sempre più numerosi – apprezzano la musica pop ma restano refrattari agli arrangiamenti troppo semplificati che gli editori pubblicano, mirando solo all’interprete mediocre.



JC: Passiamo ora a discutere delle sue partiture più impegnative: come mai, nel 1924 o forse prima, ha voluto scrivere la Rhapsody In Blue?


GG: Il tran tran della canzone pop cominciava a starmi sui nervi. Quelle arie mi irritavano. O forse le mie orecchie stavano per sensibilizzarsi a migliori armonie (…) Qualcosa mi spingeva fuori. Quando guardo indietro, risulta evidente che mi avvicinavo alla composizione musicale, tentando di scrivere cose più o meno simili a quelle di Jerome Kern.



JC: Ma per la Rhapsody aveva il mente già una struttura prestabilita?


GG: Sulle prime la Rhapsody – fu per me un inizio e non la realizzazione di un progetto (…). Ero in treno, con il suo ritmo d’acciaio, il suo rumore battente che così spesso stimola i compositori (avverto sovente della musica all’interno del rumore stesso), quando improvvisamente avvertivo (ben viva anche sullo spartito) la costruzione completa della Rhapsody dall’inizio alla fine. Nessun nuovo tema mi è venuto in mente, ma ho lavorato sul materiale tematico che avevo in testa, e tentavo di concepire questa composizione come un tutto unico (…).



JC: Maestro, vuol forse dire che la Rhapsody nasce anche spontaneamente da fattori episodici?


GG: Il tema centrale è avvenuto ad aggiungersi di colpo, cosa che mi accade sovente. Ero da un amico, al mio ritorno da Gotham (…). È probabile che componga in maniera incosciente. Ecco un esempio. Mettermi naturalmente al pianoforte nel corso delle festicciole è una delle mie debolezze. È così che senza a pensare per niente al mondo alla Rhapsody, sentivo suonare un tema che doveva essere in me, che mi chiedeva di emergere. Appena scivolava sulle mie dita, mi rendevo conto che stavo trovando un tema. A una settimana dal ritorno da Boston, avevo in pratica finito la struttura della Rhapsody In Blue.



JC: Sul piano simbolico con la Rhapsody cos’ha voluto esprimere?


GG: Il nostro modo di vita, il tempo della nostra quotidianità con la velocità, il caos, la vitalità che le attiene. No ho cercato di tradurre in suoni dei quadri precisi. I compositori assimilano influenze e proposte che provengono da fonti eterogenee, che talvolta prendono in prestito da opere altrui. È per questo che ritengo che la Rhapsody incarni un’insieme di sensibilità più che una rappresentazione di scene specifiche del modus vivendi americano.



JC: Ci può invece spiegare Rhapsody In Blue sotto il profilo strettamente musicale?


GG: Si comincia a rompere il ghiaccio con uno svolazzo di clarinetto, per risvegliare l’attenzione e scaldare i motori. Dalla fine del primo pezzo, con quattro misure, accentuo un tempo soffocato. È la prima scossa dalla strada. Si ricomincia due misure più tardi, ma si gioca anche con l’armonia. La seconda scossa è ugualmente al primo turno. Con il secondo pezzo si è in strada, con uno sfondo blues e jazzato… ma in strada per dove? Si cambia nota, si gira e si vira sette volte prima di gettarsi su un La maggiore, il genere di ciclo di quinte che utilizzano i musicisti rag. Al contempo, oppongo quattro note a tre, perché ci sia l’impressione di accelerare senza sosta. Ci mancherebbe solo qualche convenzione classica perché si creda di stare per ascoltare un Ciaikovsky o un Listz. Questo è un ritmo per la nostra epoca. Non solo a causa del dinamismo, è il nostro impulso.



JC: Mi sembra di avvertire in lei, a questo proposito, la sensazione di dover fare una “creazione soggettiva”…


GG: Quando tentavo, senza pensarci troppo, delle specie di blues-rapsodie, mi sentivo suonare un tema che doveva prendermi per un bel po’ di tempo. Nel momento in cui fuoriusciva dalle mie dita sulla tastiera, lo riconoscevo. A una settimana dal mio ritorno da Boston, la Rhapsody era pronta o quasi. Mancava un buon numero di precisazioni sulla partitura pianistica ma, siccome avevo poco tempo e molto lavoro, decisi di lasciare per me una parte improvvisata durante un concerto.



JC: Bene, passiamo al Piano Concert In F: è vero che l’ha composto anche come risposta ai dubbi suscitati da una stampa ipercritica e da artisti snob?


GG: Molta gente pensa che la mia Rhapsody non è che un colpo di fortuna. Ho quindi deciso di mostrarle ciò che sapevo fare e comporre un’opera di musica ‘pura’. La rapsodia, come indica il titolo, era un’impressione sul blues. Il concerto, invece, non si relaziona a nessun programma.



JC: Dove ha incominciato a scrivere il concerto?


GG: A Londra, dopo aver comprato quattro o cinque libri sulla struttura musicale per imparare cosa fosse esattamente la forma “concerto” (…) e credetemi, ve lo assicuro, avevo già firmato il contratto.



JC: Come per la Rhapsody, riesce a fare una breve disamina del suo Piano Concert In F?


GG: Il primo movimento utilizza il ritmo del charleston. È rapido e il suo pulsare esprime lo spirito giovane ed entusiasta della vita americana. Questa è nervosa, spinta, sincopata, anche “accelerando”, un po’ volgare (sia detto senza offesa). C’è un tipo di volgarità che rappresenta la novità. È essenziale. Il charleston è volgare, ma ha una forza, una sensualità che rappresenta una parte essenziale del suono sinfonico… Comincia con un motivo ritmico dato dai timpani, sostenuti da altri strumenti a percussione, con un motivo di charleston introdotto da corni, clarinetti e violini (con violoncelli e tromboni in rinforzo). È il fagotto che annuncia il tema principale. In lontananza il pianoforte propone un secondo tema. Il secondo movimento è di un ambiente poetico notturno che fa riferimento al blues americano, ma in una forma più stilizzata del solito. L’ultimo movimento ritorna nella forma del primo. È un’orgia ritmica, che comincia con forza e che deve conservare la stessa cadenza sino alla fine.



JC: Passiamo a un altro importante lavoro “classico” An American in Paris…


GG: Questo nuovo pezzo, che è in effetti un balletto rapsodico, è scritto in maniera assai libera e costituisce la musica più moderna che abbia mai tentato di comporre. La parte iniziale sarà sviluppata in un tipico stile francese, alla maniera di Debussy o del Gruppo dei Sei, benché i temi siano originari. Il mio scopo è rappresentare le impressioni di un turista americano a Parigi, mentre passeggia attraverso la città e ascolta i diversi rumori della strada, impregnandosi dell’atmosfera francese.



JC: Pur essendo un brano strumentale, come un classico poema sinfonico, An American In Paris, sembra dotato di una propria letterarietà, come ha immaginato la storia?


GG: Attraverso una bella mattinata di maggio o giugno, dovreste immaginare un americano che scarpina con passo gagliardo sugli Champs-Elysées. Le orecchie del nostro americano ben spalancate (come pure i suoi occhi) trattengono, con piacere, le sonorità della città. I taxi francesi sembrano divertirlo in maniera assai particolare, cosa che l’orchestra sottolinea ricorrendo ai clacson di quattro taxi parigini… Questi ultimi hanno un tema che è loro specifico… che viene annunciato dagli archi ogni volta che appaiono sulla partitura (…).



JC: Maestro, anche qui, può acconsentire a descrivere, sul piano della forma, la musica composta?


GG: L’ouverture riempie di gaiezza è seguita da un ricco blues a un ritmo rapido soggiacente. Il nostro amico americano, dopo essere sicuramente entrato in un caffè e aver bevuto uno o due bicchieri, soccombe a un eccesso di patria nostalgia. In quel momento, l’armonia è alla volta più intensa e più semplice che nei passaggi precedenti. Questo blues si amplia fino a raggiungere il parossismo, quindi è seguito da una coda nella quale lo spirito della musica ritorna alla vivacità e all’esuberanza frizzante dell’ouverture, con le sue impressioni parigine. In apparenza l’Americano nostalgico, uscito dal caffè, ritorna all’aria libera, supera la leggera sbornia ed è di nuovo attirato dallo spettacolo della vita parigina. Alla fine i rumori della strada e l’atmosfera francese trionfano.



JC: Tra le sue opere “dotte” ci sono anche la Cuban Ouverture e le Variations On I Got Rhythm; la prima aveva come titolo provvisorio Rumba, giusto?


GG: Rumba evoca per molti The Peanut Vendor. Cuban Ouverture offre un’idea più giusta dei caratteri e delle intenzioni della musica. In questa composizione, ho tentato di combinare i ritmi cubani con i miei specifici materiali tematici. Ne risulta un’ouverture sinfonica che incarna l’essenza della danza cubana.



JC: Cosa sono invece le Variations On I Got Rhythm?


GG: Dopo un’introduzione orchestrale, il pianoforte suona il tema, così, semplicemente… La variazione seguente è su un tempo di valzer… dove imito dei flauti cinesi… In quella seguente… la mano sinistra suona la melodia all’indietro, mentre la destra la suona in avanti, sostenendo la teoria secondo cui non si deve mai permettere a una mano di sapere cosa l’altra sta per fare. Poi c’è il finale.



JC: Maestro in che modo introdurre la sua Porgy And Bess?


GG: (…) un’opera ispirata al melting-pot della metropoli di New York, con il suo mescolamento di idiomi di nativi e immigrati. Ciò consentirebbe ogni tipologia di musiche, nere, bianche, dell’Est e dell’Ovest, e susciterebbe uno stile che, da questa diversità, dovrà pervenire a essere unico. Ecco una sfida per il librettista così come per la mia musa personale. Preferirei fallire facendo questo, piuttosto che riuscire duplicando passivamente uno stile già consacrato. New York è un luogo di incontro, di appuntamento per le nazioni.



JC: Con quali finalità presenterebbe Porgy And Bess?


GG: Vorrei catturare i ritmi della frenesia di queste genti, mostrarne di volta in volta gli scontri e la fusione. Vorrei soprattutto mescolare l’umorismo e la tragedia di tutto questo. Se ci riuscissi tutto questo si riferirebbe al contempo alla Carmen dramma e idillio tutto in una volta e, per la bellezza, ai Maestri cantori di Norimberga.



JC: E perché, dopo la creazione di Porgy And Bess le chiedono spesso perché questo melodramma può definirsi popolare?


GG: La ragione è semplice: Porgy And Bess è una storia popolare. È dunque naturale che i personaggi cantino le arie della loro tradizione. Ma quando ho cominciato il lavoro su quest’opera, ho scelto di evitare materiali tradizionali, perché volevo che la musica fosse omogenea. Ho anche composto mie canzoni specifiche. Pertanto si tratta di musica pop e di conseguenza Porgy And Bess, che è concepita come un’opera, diventa un’opera popolare.



JC: Ci sono altre sostanziali novità nel suo melodramma?


GG: Porgy And Bess evoca la vita dei Neri americani, quest’opera introduce elementi nuovi nella forma tradizionale dell’opera; ho tentato di usare i caratteri di questa razza, il senso del dramma e il senso dell’umorismo, la superstizione e la fede, il senso della danza e il dinamismo debordante. Se in questo modo ho inventato una nuova forma che mescola opera e teatro, ciò arriva in maniera del tutto naturale dai materiali impiegati.



JC: Perché nel melodramma si è rifatto sia alla musica afroamericana sia alla tradizione classica europea?


GG: Ho scelto per Porgy And Bess questa forma musicale particolare perché, per me, la musica vive solo quando le si dà una forma seriosa. Quando ho composto Rhapsody In Blue, ho preso alcuni blues e ho dato loro una forma più aperta, più ‘seria’. Era dodici anni fa e la Rhapsody In Blue è sempre molto viva, al contrario se avessi preso gli stessi temi per farne canzonette, sarebbero dimenticate già da molto tempo.



JC: C’è molta più America sul piano letterario?


GG: Porgy And Bess (…) è una storia americana e ritengo che la musica americana debba prendere come sostegno dei soggetti americani. Quando ho letto Porgy, il romanzo di DuBose Heyward, ho avuto l’impressione di scorgervi non solo umorismo, ma anche una grande intensità drammatica. È allora che ho scritto all’Autore per proporgli di farne un’opera con lui. Questo sentimento che avevo avuto alla prima lettura del romanzo ha trovato conferma quando fu proposto un adattamento teatrale. La pièce ha fatto il tutto esaurito a teatro nelle due stagioni che era in cartellone. Il signor Heyward e io, nella nostra collaborazione, abbiamo tentato di intensificare l’aspetto emozionale senza nulla perdere della propria originalità. Ho scritto la musica in modo che si adatti strettamente a questa narrazione.



JC: Come mai in Porgy And Bess si ride e si piange al tempo stesso?


GG: Speravo di aver apportato alla musica qualcosa che piacesse al grande pubblico più che alle élites colte. Avevo la convinzione che l’opera dovesse essere divertente. È per questo che, quando ho scelto per quest’opera un racconto sui Neri di Charleston, mi sono assicurato che la storia di consentisse di comporre una musica al contempo leggera e impegnata e di inserirvi anche sia l’umoristico sia il tragico: di fatto tutti gli elementi del divertimento gradevole all’occhio e all’orecchio. Insomma, i Neri, in quanto razza, posseggono tutte queste caratteristiche e servono perfettamente al mio disegno, nella misura in cui si esprimono non solo con la parola, ma anche, in tutta naturalezza, con il canto e la danza.



JC: Dunque, Maestro, lei è perfettamente consapevole di questa sottile vena umoristica che trapela in tutto il melodramma?


GG: L’umorismo occupa un posto importante nella vita americana e un’opera americana priva di umorismo non sarebbe per nulla fedele al grande ventaglio di forme espressive tipiche di questo popolo. In Porgy And Bess si può fare inserire in larga misura l’umorismo nelle danze e nei canti. Questo umorismo è naturale: non si tratta di scenette ricamate sulla storia, ma di un umorismo integrato alla vicenda medesima. Per esempio il personaggio di Sporting Life, invece di essere un viscido spacciatore, è una gradevole canaglia che balla, un personaggio simpatico benché fondamentalmente malvagio (…).



JC: Ma non trova che la struttura dell’opera sia in fondo composta da tante song?


GG: È vero, ho scritto delle canzoni per Porgy And Bess, ma non ne ho mai vergogna, se sono di qualità. In Porgy And Bess, ho preso coscienza che stavo componendo un’opera per lo spettacolo e che, senza canzoni, non sarebbe a mio avviso né spettacolare né divertente. Inoltre, le canzoni fanno parte integrante della tradizione lirica. Tra le opere più celebri molte ne posseggono. In quasi tutte le opere di Verdi si trovano quelle che si potrebbero chiamare canzoni di successo. Carmen è quasi un montaggio di canzoni di successo.



JC: Tuttavia, in Porgy And Bess, forse le canzoni rappresentano solo una parte dell’opera?


GG: Per quanto concerne il recitativo, ho tentato di dargli inflessioni che siano le più vicini possibili al modo di parlare dei Neri, e sono certo che la mia esperienza di compositore di canzoni mi è stata assai preziosa sotto questo aspetto, poiché gli autori di canzoni sono i più adatti a mettere le parole in musiche e a renderle più espressive (…). Per unificare le scene, ho fatto ricorso a una musica sinfonica sostenuta, e mi sono preparato a questo compito studiando approfonditamente il contrappunto e l’armonia moderna.



JC: E cosa dice, Maestro, del lavoro svolto dai “suoi” librettisti?


GG: Per ciò che riguarda le parole delle canzoni di Porgy And Bess, credo che Heyward e mio fratello Ira siano riusciti a ben armonizzare le differenti gamme espressive: Heyward scriveva la maggior parte dei testi traducendo la naturalezza della razza nera e Ira la maggior parte delle canzoni più elaborate (…).Tali canzoni sembrano uscire in modo naturale dalle labbra dei Neri e fanno atto della musica pop tradizionale. Così Porgy And Bess diviene un’opera pop, opera-teatro dove si mescolano dramma, umorismo, canti e danze.



JC: Una definizione sintetica per inquadrare alla fine Porgy And Bess?


GG: La musica rappresentata va infine a definire un’immagine.



[Citazioni tratte da David Erwen. His Journey To Greatness (1970) e da Franck Médioni, George Gershwin (2014)].