Leo Records – CD LR 702 – 2014
Stefano Leonardi: flauti
Stefano Pastor: violino
Fridolin Blumer: basso
Heinz Geisser: percussioni
La storia del jazz è piena di personaggi a cui è stata attribuita, a torto o a ragione, la qualifica di sottovalutati, musicisti che, cioè, non hanno ricevuto adeguati riconoscimenti per il valore artistico durante la loro carriera. Fra questi merita sicuramente un posto in primo piano Thomas Chapin, una delle voci più belle e insinuanti della musica di ricerca negli anni novanta. Il polistrumentista della downtown newyorkese, infatti, era in grado di mettere insieme lo swing, il cuore pulsante del jazz, con l’avanguardia. Era in grado di conciliare nel suo solismo l’esperienza di arrangiatore dell’orchestra di Lionel Hampton con le geometrie astratte di Anthony Braxton, bandleaders con cui il sassofonista americano aveva collaborato in periodi diversi. Il suo stile non ha avuto seguaci, perlomeno alla sua altezza. Il rischio, tutto sommato, era quello che ci si potesse dimenticare di lui. Opportunamente Stefano Leonardi raduna un quartetto italo-svizzero per organizzare delle conversazioni sull’arte di Thomas Chapin, per ribadirne la statura. Non si tratta di un omaggio o di un tributo, piuttosto di una discussione, un confronto per trarne spunti favorevoli ad allestire un disco.
La scelta di fondo è di procedere senza un programma predeterminato alle spalle, con una improvvisazione assoluta definita dalle collisioni e dai contrasti fra i quattro strumentisti-compositori.
È abbastanza inconsueta, innanzitutto, l’opzione di affiancare il flauto al violino. Nel jazz moderno o postmoderno si ricorda in particolare il gruppo di Leroy Jenkins con James Newton, protagonista di Mixed, album pubblicato per la Black Saint. Non si annoverano altri esempi eclatanti in materia.
Leonardi, nelle varie tracce, spiattella il campionario completo della tecnica eterodossa sul flauto traverso con l’ipersoffiato, suoni doppi e parassiti, il canto sull’imboccatura, utilizzando, però, pure un timbro nitido nell’esposizione di brevi cellule tematiche. Stefano Pastor si inserisce nel discorso con il suo violino tagliente o narrativo, rielaborando da par suo gli input provenienti dal partner, entrando in sintonia o in contrapposizione con il leader. I momenti migliori del disco sono rappresentati proprio dal dialogo spigoloso, costruttivo o decostruttivo dei due solisti.
A Blumer e Geisser viene lasciata la briglia sciolta. Bassista e batterista ne approfittano per concedersi più di una licenza, architettando un accompagnamento ispido e accidentato, uniforme nella sua irregolarità.
Complessivamente si ascolta una musica con una sua fisionomia precisa, dove prevalgono i momenti creativi, di buona vena. Nei brani più lunghi, però, si riscontra la difficoltà a tenere alta la tensione per tutta la loro durata. Subentra, in certi casi, il ricorso ai clichè della composizione estemporanea.
Conversations about Thomas Chapin è, comunque, un cd rigoroso, angolare, privo di concessioni alla “bella melodia”, proiettato in avanti. Thomas Chapin, di converso, proponeva un’idea di jazz avanzato maggiormente radicato nella tradizione, che guardava oltre, sì, ma che sapeva anche voltarsi indietro.