Slideshow. Domenico Caliri

Foto: Maurizio Zorzi, dal sito di Domenico Caliri www.domenicocaliri.com










Slideshow. Domenico Caliri.



Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è anzitutto Domenico Caliri?


Domenico Caliri: Tecnicamente un chitarrista compositore. Più in generale un inguaribile appassionato che ha fatto della musica la principale ragione di vita, fin dai tempi meno sospetti.



JC: Ci parli dei tuoi recenti lavori?


DC: Il più recente è sicuramente Camera Lirica, un ensemble composto da tredici strepitosi musicisti della cosiddetta area “avant-jazz” italiana. Un gruppo probabilmente destinato ad aumentare nel numero (almeno a quindici) col quale ho registrato l’omonimo e primo cd per l’etichetta indipendente Caligola. Una bellissima esperienza che oltrepassa il valore musicale e professionale.



JC: Prima, se non erro, c’è stato, per te, il duo con Ares Tavolazzi: com’è rispetto a Camera lirica?


DC: Dialoghi a corde con Ares, all’opposto, è un angolo intimo fatto di interazione e di contrappunti istantanei, oltre ad essere una vera e propria dichiarazione d’amore per il jazz, quello più semplice ed acustico, che da sempre è il contraltare delle mie produzioni musicali più avventurose.



JC: Altri dischi recenti?


DC: Da un concerto svoltosi a Matera nel 2013 sta per essere pubblicato un live per l’associazione Onyx, coraggiosamente sostenuta da Gigi Esposito. Un’altra esperienza recente mi ha visto nel ruolo di arrangiatore della musica di Egidio Romualdo Duni, compositore del XVIII secolo, in una chiave di lettura molto diversa dall’originale e, come è facile immaginare nel mio caso, poco filologica. Una scommessa lanciatami dal Conservatorio nel quale insegno da due anni, che ha già dato i primi frutti e probabilmente sarà estesa nel futuro.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


DC: Ho sempre cercato la musica, o forse mi ha sempre cercato lei. Già in prima elementare facevo il percussionista con le matite sul banco per tutta la giornata. La maestra mi sequestrò le matite. Allora iniziai a fischiare. Passavo il giorno a fischiare, senza rendermene conto. Di nascosto ai miei avevo numerato una serie di bicchieri di cristallo dal più grave al più acuto. Li disponevo in fila e suonavo senza sapere neanche cosa. Cercavo i suoni, continuamente. Ammetto di non aver mai smesso.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


DC: Principalmente la possibilità di variare un’interpretazione, di improvvisare su una melodia senza dovermi per forza attenere al testo scritto. Forse anche la libertà che deriva dal poter “giustificare” un errore in una esecuzione, anziché andare nel panico. A un livello più profondo, l’ascolto stesso mi ha spinto verso il jazz, per vari motivi: non è quasi mai banale o facile, ha un carattere fortemente evocativo ed è una musica che trasuda umanità. Evocativa per il suo potere di astrazione e per l’imprevedibilità ad esso connessa. Umana perché non è perfetta come la musica classica colta, ma contiene un’energia che a volte arriva dritta al cuore e allo stomaco.



JC: E in particolare un chitarrista?


DC: Senza dubbio aver visto in televisione John Scofield suonare con il gruppo di Miles Davis al Festival Umbria Jazz, una trentina di anni fa. Non avevo mai visto suonare la chitarra elettrica in quel modo ed è stato entusiasmante quanto sconvolgente. Sono molto legato anche ad un disco live in solo di Ralph Towner, dal quale tirai giù ad orecchio un’intera composizione di circa sette minuti credendo fosse scritta! Ovviamente conteneva delle lunghe improvvisazioni. Avevo circa diciassette anni.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


DC: Per me è come se dovessi rispondere a “cos’è l’amore?”. Credo sia una strada infinita nella quale ognuno può trovare il proprio passo senza paura di cadere. In senso stretto, il Jazz per me è poter guardare la stessa cosa da un punto di osservazione sempre diverso, scoprendo ogni volta sfumature nuove. In poche parole è la vita stessa e lo stupore che da essa deriva.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica?


DC: Non associo soltanto sentimenti ed idee, ma anche colori, odori, numeri. Credo fermamente che il suono sia il veicolo più veloce per stimolare il nostro cervello ad aprirsi ad ogni genere di sensazione. La paura, la gioia, la rabbia, l’ironia: la musica riesce ad arrivare direttamente a questi ed altri sentimenti, anche senza le parole.



JC: Tra i brani che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


DC: È come se chiedessi ad una madre a quale figlio sia più affezionata tra quelli che ha fatto. Sono legato indistintamente a tutta la musica che ho scritto, perché sono molto selettivo e se un brano non mi convince lo scarto in partenza. Forse, tra i vari, posso citare Mouse, una composizione che ho suonato in tantissime versioni diverse, pubblicandola nel primo disco del Cal Trio e nell’ultimo (già citato) di Camera Lirica, in una veste orchestrale.



JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


DC: Se dovessi sceglierne soltanto uno, sicuramente Nefertiti del quintetto di Miles Davis.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica e nella cultura?


DC: Albino Taggeo, col quale ho studiato (purtroppo) per pochi anni, mi ha dato grandi stimoli e mi ha incoraggiato a scrivere e rischiare con la musica scritta. Da Enrico Rava ho imparato ad essere un professionista nel jazz; Han Bennink mi ha insegnato a sentirmi sul palco come se fossi a casa mia. Da Antonello Salis ho imparato l’onestà intellettuale del performer. Bruno Tommaso mi ha insegnato l’equilibrio e lo stile, non solo nella musica.



JC: E “maestri di vita” ne hai?


DC: Più in generale, nella vita, il mio “maestro” è stato mio padre, un umanista, studioso indefesso, oltre ad essere un raro esempio di grande cultura e sagacia.



JC: Invece dimmi, se ce ne sono, chitarristi che ti hanno maggiormente influenzato,,,


DC: Potrei risponderti “non so”, perché non sono il tipico chitarrista che ha intere colonne di cd di rappresentanti del proprio strumento, ma qualcuno ovviamente c’è.



JC: Qualche nome?


DC: Direi John Scofield, Joe Pass, John Abercrombie, Pat Martino, Allan Holdsworth, Bill Frisell.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


DC: Il più bello spero avvenga in futuro, ma finora forse posso dire sia stato a metà degli anni Novanta, quando coincise l’ascesa del gruppo di Rava Electric Five nel panorama internazionale con le pubblicazioni e i concerti del mio gruppo di allora, Specchio Ensemble (nel quale spesso dirigevo soltanto) e con l’attività fervente del collettivo Bassesfere, del quale mi fregio di essere tra i fondatori. Il tutto in una Bologna attivissima. Un gran bel periodo. Ma, ripeto, il meglio forse deve arrivare.



JC: Quali sono le tipologie di musicisti con cui ami collaborare?


DC: Quelli che sanno stare bene insieme senza creare troppi problemi, che poi sono gli stessi con cui puoi viaggiare senza sentire i chilometri. I musicisti umili ma talentuosi, che non hanno bisogno di raccontarsi, perché la musica che fanno parla per loro.



JC: Anche qui magari ti chiederei di nominarmi qualcuno…


DC: Ho collaborato davvero con tantissime persone e fare nomi non mi riesce facile. Tuttavia, quelli con cui ho collaborato con più piacere sono Cristiano Calcagnile, Antonio Borghini, Giovanni Maier, Pasquale Mirra, e più recentemente Enrico Terragnoli.



JC: Come vedi la situazione della musica in Italia?


DC: Alquanto arretrata ed ingenua rispetto agli altri paesi, almeno quelli europei. In Italia adesso c’è almeno dieci volte tanto il numero di talenti che c’era vent’anni fa, ma c’è poca coesione tra i musicisti rispetto agli anni Novanta. L’ingenuità la vedo nella tendenza che hanno in tanti nel fare un disco, a volte con preziose featuring, solo per attirare qualche organizzatore e non per una necessità impellente di raccontare una propria storia, un proprio suono.



JC: Forse oggi è anche un problema di ricezione, percezione, fruizione…


DC: La fruizione musicale è diventata velocissima e tecnologica, ma questo ha inevitabilmente creato un atteggiamento di scarsa attenzione all’ascolto, attenuando quell’attitudine analitica che c’era prima, e che a volte basta per far scattare una nuova reazione. Insomma, nella maggior parte dei casi siamo ancora emulatori di qualcun altro. Ovviamente la tendenza cambierà, almeno spero.



JC: E più in generale com’è per te la cultura ora in Italia?


DC: L’Italia credo sia l’esempio più calzante del concetto di “pornografia culturale”. Per dirla meglio, viviamo in un paese nel quale la cultura è rappresentata nel modo più inadeguato e spesso indecoroso. In televisione la cultura è assente da almeno trent’anni. Quel poco che rimane è confinato in settori di nicchia e trasmesso ad ore spesso proibitive. Pochi ormai ricordano che il termine cultura deriva dal concetto di coltivazione delle esperienze cognitive, che poi ognuno può e deve rielaborare con un proprio pensiero.



JC: Ma è solo un problema di televisione?


DC: La maggior parte degli italiani guarda programmi aberranti che propinano musica e danza in una forma che definire volgare è poco. In più la maggior parte degli italiani ci crede, si vuole bene, si scatta le foto e aspetta i commenti. L’edonismo italiano contemporaneo è davvero qualcosa che sconfina nel grottesco (visto da oltre confine), ma viene vissuto con profonda (ignorante) convinzione.



JC: La cultura dovrebbe andare di pari passo con la formazione…


DC: Nelle scuole l’educazione musicale è assente soprattutto nel segmento formativo più importante, quello della scuola primaria. La Storia dell’arte non viene quasi più insegnata. I ministri della Cultura che si sono succeduti sono incompetenti, compreso l’ultimo. Con queste premesse, credo che per la domanda che mi ponevi prima vi sia una domanda senza risposta. Semplicemente, la cultura in Italia oggi non c’è più; l’abbiamo dimenticata. Forse ce ne ricorderemo.



JC: Terminiamo con qualche segnale di ottimismo: cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


DC: Un golpe in televisione! Scherzo, vorrei dedicarmi al mio gruppo Camera Lirica per promuoverlo in ogni dove. Poi ho in mente un nuovo gruppo, forse un quintetto con due sassofoni, uno dei quali sarà sicuramente Francesco Bigoni, che stimo moltissimo. Sto anche scrivendo degli studi sugli intervalli. Mi piacerebbe allegarli ad un progetto editoriale didattico per la chitarra jazz che vorrei pubblicare, dopo tanti anni, raccogliendo il meglio dell’enorme materiale che ho scritto dal 1991 ad oggi. Avrei tanti progetti in testa, ma ho imparato a selezionare, lavorando tanto su poche cose. Infatti ho sempre rischiato il contrario.