Candid Records – CCD 79868 – 2014
Elisabetta Antonini: voce, live electronics, composizioni, arrangiamenti
Francesco Bearzatti: sax tenore, clarinetto
Luca Mannutza: pianoforte
Paolino Dalla Porta: contrabbasso
Marcello Di Leonardo: batteria
Artista poco incline alle scorciatoie e che continua a segnare la propria traiettoria con scelte ponderate e, particolarmente nel caso presente, significative, Elisabetta Antonini elabora un complesso programma che è anche disamina estetica della mitologica, seppur tuttora vitale Beat generation, i cui vibranti, eterogenei esponenti non sono mai stati davvero archiviati nella cultura e nel sentire generale, palesando un’inesausta attualità e fungendo variamente da apripista non solo a correnti letterarie ed artistiche discendenti (piuttosto sterminanti gli influssi, fino ad includere Cyberpunk e minimalismo anni ’80) ma alitando anche con grandi ed ispirative energie su movimenti del pensiero e dell’azione di rivolta.
Apertamente ondivago, libero nella sostanza, il nuovo episodio della breve ma densa discografia di Antonini si apre con calligrafia hard-bop nella pagina da Horace Silver, Cookin’ at the Continental, transitando nella ritmica nervosa ed ipnotica di New York Blues, a firma della medesima così come la successiva On the Road, personale omaggio alla fondativa saga di Kerouac, in cui la vocalist supera cliché e limiti dell’espressività “euro” o “white” consolidando un ruolo da interprete di spessore, abile a giocare con sobria emotività.
Ancora, l’ispirativo movimento e manifesto di rottura (anti-)estetica s’incarna con ampiezza immaginativa nel clima southern del grottesco Requiem for Bird Charlie Parker, quindi nella ripresa, adeguata per ruolo, della mitchelliana Woodstock, e affrontando la pagina monkiana Well You needn’t si ricorre con misura adeguata alla versatilità da caratteristi dei comprimari.
Al centro del programma, l’atemporale canto delle sirene si mantiene in sospensione con la mistica estraniante e il delirio catartico dei ginsberghiani Holy e Howl!, imbastendo in psichedelia lenta e sinuosa nella collettiva On Nirvana un’atmosferica corona agli analoghi versi di Burroughs, conferendo suggestiva fibrillazione lisergica all’LSD (tratto da LSD Big Sur) da Ferlinghetti, e tratteggiando il crepuscolo dell’appagante performance nelle notturne inquietudini che pervadono la rivisitazione personale ed intimistica della dylaniana Blowin’ in the wind.
Antonini insomma con intelligente regia articola dispensazione di stati emotivi e progressione delle stanze rappresentative, consolidando i propri talenti con concretezza di soluzioni, certamente forte di una line-up strumentale calibrata e talentuosa, che a partire dall’espressività grintosa e la duttilità superiore dei fiati di Bearzatti, via via si completa con tutta la pertinenza del plastico basso di Paolino Dalla Porta, la abili figurazioni pianistiche di Luca Mannutza, la versatilità del drumming di Marcello Di Leonardo (nonché le tessiture e gli innesti elettronici della titolare): la rievocazione dei quel filone creativo, efficace corrispettivo in jazz delle lettere secondo il condivisibile intendimento della band-leader, esita in una produzione di elevato profilo che per quanto attiene lo stato creativo della vocalist capitolina non fa che lasciar intendere svolte di certo, ulteriore interesse.