ECM Records – ECM 2357 – 2014
Mark Turner: sax tenore
Avishai Cohen: tromba
Joe Martin: contrabbasso
Marcus Gilmore: batteria
Quasi che il co-protagonismo non fosse una firma, le articolate prodezze del Fly Trio (e non meno altre centellinate ma nitidissime partnership) avevano certamente sancito gli spessori interpretativi del giovane e motivato prodigio sassofonistico, e così maturata tanta credibilità non giunge affatto velleitario il momento di esplicitare i propri talenti in forma di leadership, come condensato in questa ripresa presso i risonanti Avatar Studios in New York.
Quanto potrebbe sulle prime risaltare, è una sorta di bidimensionalità che nell’esposizione strutturale sembra esplicitarsi a discapito della dimensione di spessore e volumetria, ma tali riserve su una siffatta modalità (in realtà mai estranea ad alcuna tipologia espressiva, né aliena a certe concezioni formali del jazz) vengono spazzate dalle folate di un’ariosa corrente di dinamiche sottili che in pochi tratti conferiscono sfaccettata eloquenza ad un soundscape di prodigiosa essenzialità e immediatezza comunicativa.
Quesito aperto circa il portato ispirativo dell’omonimo lavoro di Ursula K. LeGuin (romanzo d’anticipazione basato sulla concretizzazione del sogno creativo), ma analoga appare l’ispirazione piuttosto pura del leader, che da una dimensione onirica traspone lungo la fattiva performance fermenti ideativi con salda concezione della progressione storico-stilistica, ma cimentandosi con misurata ed avveduta prudenza nell’innesto progressista, suggerendo una sosta evolutiva in una ripercorrenza di (dis-)armonie colemaniane, ma imbastendo il tutto con supremo nitore di forma ed esposizione.
Quadri del jazz odierno articolati in appena sei misure, i passaggi dell’album si sostengono in mirabile tessitura ritmica ripartita tra l’ultradecennale partner Joe Martin, il cui plastico interventismo a quattro corde procede d’intesa telepatica con un Marcus Gilmore, che non vive delle solo rendite di pedigree ascendenti al grande nonno Roy Haynes, del quale comunque riformula con grandezza d’effetto le figurazioni in tessitura alta e i giochi di trasparenza; le soluzioni piano-less della band investono i due fiati del massimo investimento esplorativo, forgiato dalle volute catturanti del tenore di Turner in agiatissima agilità e fraseologia sensitiva, e dalle limpide, compiute circolarità d’ottone della rising-star (con merito) Avishai Cohen – e se i due rimandano in via non del tutto dissimulata alla classica dualità Davis-Shorter, ne operano comunque un misurato restyling, in concordanza con i già esposti, ponderati procedimenti.
Quartetto la cui disciplina cameristica non osta un’attitudine al profondersi lungo un autentico torrente di fluente musicalità e a librarsi nel volo di una “ipnotica grazia”, la Falce del Cielo di Turner & C coinvolge astri adeguati ad incidere comunque una propria traccia nel firmamento, non certo disabitato o silente, di un partecipativo jazz d’estese prospettive, col valore aggiunto dell’appartenenza ad un giovanile filone, pensante e progettuale.