Afk Records – afk records 014 – 2014
Vito Maria Laforgia: contrabasso
Vittorio Gallo: sax, oggetti
Giuseppe Mariani: tromba
Adolfo La Volpe: chitarra
Giorgio Pacorig: pianoforte
Giacomo Mongelli: batteria
Un cammino lungo sette tracce che ricostruisce un’esperienza musicale e culturale variegata e ricca.
Questo è Il passo del Geco. A disegnare questo sentiero, spesso scabro e accidentato, è un interessante sestetto guidato dal contrabbassista Vito Maria Laforgia. Lungo la via s’incontrano paesaggi funky, panorami colorati di sonorità rock, scenari boppistici, sequenze free, musica antica, come nella sesta traccia, improvvisata su una sarabanda di Arcangelo Corelli. O squarci di lirismo dolente come nel quarto brano della scaletta.
La tappa finale è uno splendido blues di Mingus: denso, arcaico, potente. Ricco oltre quella souplesse malinconica, di quel pigro disincanto tipico della musica afro-americana delle origini. Laforgia tiene sempre bene l’equilibrio fra modernismo e tradizione. Fa muovere il suo gruppo in maniera molto disinvolta e libera fra questi due punti dell’orizzonte sapendo benissimo che non sono per niente opposti fra loro. Tutto nasce in fin dei conti dal blues arcaico, e tutte le sperimentazioni successive non cancellano mai le tracce degli antenati. Citando una frase di Carmelo Bene che appare nel booklet «il pensiero è il risultato del linguaggio». E dai linguaggi più tradizionali, quali appunto il blues o la musica barocca che sgorgano le improvvisazioni del gruppo, molto libere anche dal punto di vista della ricerca delle sonorità.
In altre parole, Il passo del geco non è un disco inquadrabile in catalogazioni predefinite. Qualsiasi gabbia stilistica risulterebbe troppo stretta per queste sette tracce. È, invece, una ricerca poetica vera e propria, corredata da un apparato letterario scarno (quattro citazioni di autori fra loro molto diversi ma accomunati da un acuto disagio esistenziale) ma efficacissimo. Una ricerca di paesaggi musicali e interiori, non necessariamente inediti ma pieni di suggestioni, di colori, di memorie. Non è certo un caso che l’unico brano non originale (oltre a quello tratto da Arcangelo Corelli) sia firmato da un alfiere della libera ricerca come John Zorn.
Musicalmente il tutto suona bene, senza traccia alcuna di manierismo di alcun genere, senza compiacimenti stilistici. Si avvertono sempre un grande equilibrio fra la massima libertà espressiva e un notevole senso delle misure da parte di tutti e sei i musicisti.
Un disco ben riuscito. Un sestetto e un leader da guardare con interesse.