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Lady Gaga si dà al jazz (e altre storie vocali)
Potrebbe essere ricordato come l’avvenimento musicale dell’anno 2014, almeno a livello di pop (o forse anche di jazz): nessuno infatti si aspetta un album di duetti (vocal jazz, ossia “jazz” cantato per l’appunto) tra l’ultimo degli storici crooner e l’astro della giovane dance music: Tony Bennett e Lady Gaga con il disco Cheek To Cheek (Stream Line Records) fin dal settembre scorso stanno spopolando anche in radio e nelle classifiche dei CD più venduti in tutto il mondo. Per quanto riguarda il successo le ragioni sono molteplici: i fan di Lady Gaga sono ovunque numerosissimi e di lei seguono ogni minima azione; il seguito di Tony Bennett è di nicchia e portato alla curiosità e all’apertura tipiche di ogni buon jazzofilo; in mezzo esiste invece una grossa fetta di semplici curiosi, forse attratti dall’inedita ‘coppietta’. Sui motivi che hanno spinto i musicisti a unirsi in duo, al di là di esigenze commerciali (utili a entrambi) c’è per l’uno il desiderio di confrontarsi con un’artista giovane (dalle esperienze professionali diversissime) e c’è per l’altra la volontà di dimostrare a tutti il proprio valore musicale, guardando a un ‘mostro sacro’ di un genere (il jazz song) ritenuto alla base di ogni tendenza sviluppata dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. In effetti a dover spezzare una lancia a favore di uno dei due, il riconoscimento va di certo verso Lady Gaga, la quale compie una scelta coraggiosa, in linea d’altronde con il suo personaggio e con precedenti azzardi nell’ambito dell’Arte con la A maiuscola, come la presenza nei video e nelle performance di Marina Abramovic (la maggior artista vivente). Allieva di pianoforte in conservatorio, Lady Gaga in effetti più volte rivela o ribadisce, nelle interviste, profonde conoscenze di musica, arte, cultura, che le permettono di crearsi un ruolo di star nella pop music, sfruttando postmodernamente, citazioni sonore, visive, multimediali dall’alto e dal basso delle estetiche contemporanee.
Sentire ora Lady Gaga duettare con Tony Bennett e una big band alle spalle sulle note di Lush Life, But Beautiful, Sophisticated Lady o la title track, riproponendo uno swing divertente, può stimolare i giovani ad accostarsi a un tipo di vocalità che dalla metà degli anni Sessanta, per oltre un quarto di secolo, pare sparita dalla circolazione a causa degli imperanti modelli canori rock e soul, ma che poco a poco – a cominciare da gruppi vocalese come i Manhattan Trasfert o di recente da uomini (Michael Bublé, Jamie Bullum, Peter Cincotti) o donne (Diana Krall, Norah Jones, Stacey Kent, Madeleine Peyroux, Esperanza Spaulding, Melody Gardot) di nuove generazioni – sta tornando in auge, recuperando anche ulteriori modelli di canto jazz che si rifanno ad esempio allo scat e all’avanguardia, fino a uno rapporto più boppistico e meno canzonettistico con l’identità della jazz song medesima. Lungi dall’essere esaustivi, basta ascoltare altri dischi recenti, magari di cantanti non famosissimi al grosso pubblico, benché spesso amati/e dai jazzofili – ma proprio per questo degni/e della massima attenzione – per rendersi conto dell’estrema varietà di proposte affermative.
Le peculiarità comuni a molti degli album selezionati (usciti tutti nel 2014) riguardano soprattutto l’omaggio al passato, con un orecchio verso musicisti, stili, generi, linguaggi, canzonieri che in questi casi posseggono ispirazioni dettate più da profonde ragioni sentimentali che da freddi calcoli utilitaristici come spesso accade con i troppi ‘Tributes’ decisi a tavolino anche in certo jazz. Negli Stati Uniti, ovviamente patria del canto jazz, le vocalist nere e bianche, giovani e mature, classiche e moderne, non hanno paura, a differenza di quanto succede in Europa (Italia in primis) a proporre album di soli standard, lasciando appunto ad altre la presunzione di presentarsi come songwriter o folksinger, invece di mescolare il grande Songbook americano (rinforzato magari da canzoni rock, blues, soul, pop) a propri brani lacunosi sotto l’aspetto sia musicale sia letterario. Le varie protagoniste statunitensi – qui elencate – danno tutte se stesse nell’arte interpretativa, facendo talvolta scoprire, come in questo caso, repertori dimenticati talaltra aggiungendo nuova linfa a pezzi già sentiti infinite volte. In questo modo si spiega l’intrinseca bellezza di questi nuovi album.
Ecco allora l’ultima regina delle storiche vocalist, Annie Ross, in To Lady With Love (Red Anchor) inchinarsi di fronte alla memoria dell’unica vera signora dello swing, Billie Holiday, cantandone l’ostico personalissimo repertorio, con l’unico supporto dei chitarristi Pizzarelli (Bucky e John, padre e figlio); nonostante vicende umane assai diverse tra loro, Annie sa entrare nell’universo dolente di Lady Day intonando ballate meditative, fino a comporre due brani, in apertura e in epilogo, che ne esaltano la biografia (musicale e non). In quartetto invece Anne Ducros – francese ma di casa in U.S.a. – con Either Way from Marylin to Ella (Naïve), presenta un repertorio che è quasi sconfinato perché la Fitzgerald ha cantato di tutto, mentre la Monroe fa da trait-d’union (ricordata nell’episodio del Flamingo sul booklet), con un sound decisamente modernizzato grazie alla presenza di molti guest artist (persino Battiato) tra arrangiamenti ultranuovi e pacato equilibro espressivo. La bella afroamericana Cynthia Felton con Save Your Love For Me (Felton Entertainement) rende omaggio ai ‘classici’ della settantasettenne Nancy Wilson che da tempo versa in brutte condizioni; dotata di estensione vocale da quattro ottave, come la Fitzgerald e la Vaughan, la giovane cantante affronta un repertorio già in origine eterogeneo, che include qualche gospel più diversi standard jazz e r’n’b. Viceversa c’è pure l’omaggio di una bianca a una nera giacché il trio della cantante/pianista Dena DeRose in We Won’t Forget (HighNote) affronta il sostanzioso repertorio di Shirley Horn con scat e assolo alla tastiera come nell’originale, tra mainstream e hard bop, anche in compagnia di tre fiati in alcuni pezzi sino a condividere umori e sapori di un jazz genuino. Più o meno analogamente alle ultime due, ma sul piano saggistico Ellen Johnson rende omaggio alla grande Sheila Jordan con un libro, Jazz Child (Rowman & Littlefield editori), visto che l’insegnamento e la saggistica l’impegnano ormai da tempo: però gli unici suoi tre dischi (ancora tutti reperibili) come Chinchilla Serenade, Too Good ToTitle e l’ultimo These Days (2006), fanno scoprire una vocalist davvero singolare e versatile.
Ci sono poi gli album misti nel senso che l’omaggio riguarda diversi autori oppure lo stile musicale: in quest’utlimo caso Maud Hixson in Don’t Let A Good Thing Get Away (autoprodotto) si avvale di un pool di compositori (e di qualche standard) per licenziare un lavoro delicato (come la sua voce) e sospeso tra vivacità swing e atmosfere cameristiche. Si autoproduce pure Kelly Suttenfield con Among The Stars, la cui bellezza è quella di un’operina gentile di crepuscolare minimalismo dove lei dialoga con il chitarrista Tony Romano in dieci evergreen, metà dei quali facenti parte della recente pop song persino di matrice folk e country-rock (Dylan, ecc.) accanto a classici ad esempio di Rodgers & Hammerstein. A questo punto urge un’altra considerazione: tranne la Felton (e più avanti la Morrison) si tratta di vocalist bianche, il cui vocal jazz non può che rimandare – salvo le eccezioni indicate – a modelli canori di pelle chiara, sia pur artisticamente variabilissimi. È difatti nel solco di Anita O’ Day la Nancy Kelly di B That Way (BlueBay Records), forse ancor più jazzisticamente ortodossa delle altre citate prima, anche nell’inflessione vocale; nell’album regala dodici ultra-standard, confrontandosi coraggiosamente persino con la cultura black Don’t Explain della Holiday e Billy’s Bounce di Parker, concedendosi il lusso di un sottofondo bluesy quasi soul-jazz grazie a hammond, chitarra, batteria e sax tenore. Di remote origini italiane, Lisa Ferraro invece con Serenading The Moon (Pranavasonic) compie un omaggio particolarissimo, celebrando la luna con dodici pezzi romantici dei maggiori songwriter statunitensi, da Porter a Mancini, avendo anch’ella a disposizione il robusto e al contempo suadente tenore di Houston Person.
Anche nel caso di Libby Work con Memoir (Libbyworkmusic, ovvero l’ennesima autoproduzione) l’omaggio riguarda la memoria storica di autori come Gershwin (ma c’è anche una cover di Donald Fagen) alla luce di ugole al contempo bianche (June Christie) e nere (Abbey Lincoln), con padronanza ritmica e con il feeling del piano jazz trio (più due ospiti illustri). Decisamente rivolta alla cultura afro, anche per ragioni di epidermide, in questa passerella, c’è solo la Barbara Morrison di I Love You, Yes I Do (Savant) a spaziare tra gli anni ’40 e ’70, includendo canzoni soul e r’n’b (persino una ballad dei Beatles) esprimendo il lato hot del canto jazz, ben coadiuvata da un quartetto in cui spicca ancora il sax di Houston Person, generosamente pronto a contrappuntare grandi voci femminili. E sempre a proposito di cultura afro vanno almeno ricordati i due nuovi album di due bluesman che simboleggiano altrettante generazioni: da un lato il giovane Eric Bibb in Blues People (Harmonia Mundi) parte dal blues per cantare di tutto, sempre però all’interno della black music, disponendo di ospiti straordinari come Taj Mahal, Poppa Chubby, Guy Davis e soprattutto i Blind Boys Of Alabama, a dare un imprinting gospel a un paio di canzoni. Dall’altro l’anziano Andy Bey in Pages From An Imaginary Life (Highnote) compie una sorta di percorso autobiografico in quindici brani suddivisi in quattro capitoli, aiutandosi con la sola voce e il proprio pianoforte a viaggiare nella memoria di un secolo di grande musica afroamericana tra blues, jazz, boogie, classic song.
Capitolo Italia: soltanto qualche veloce suggestione, perché l’argomento è denso e complesso, nel senso che mai come oggigiorno esiste una estesissima varietà di proposte musicali femminili soprattutto da parte di giovani interpreti che, a loro volta, proprio come le americane, recuperano i modelli più variegati e talvolta eterogenei: al di là delle personalità riconosciute anche internazionalmente come Tiziana Ghiglioni, Maria Pia De Vito, Ada Montellanico, Chiara Civello, Laura Conti, Danila Satragno, Maria Laura Baccarini, Erika Dagnino e molte altre ancora, è doveroso soffermarsi ancora su una grandissima artista quale Cristina Zavalloni che in The Soul Factor (Jando Music) compie un’operazione per lei inusitata, addirittura inedita sul piano discografico: un omaggio al soul, come dice il titolo, ma non ricorrendo a cover (tranne un caso su dodici song) bensì scrivendo in tema assieme al pianista Uri Caine: ne fuoriesce un prodotto vintage sul filo dell’ironia che denota intelligenza e creatività anche grazie a una voce in grado di cantare di tutto. Passando invece alle giovani proposte, rigorosamente fedele all’avanguardia Marta Raviglia in Gabbia (Splasch) con Massimo Barbiero presenta un duo in cui la vocalità si destruttura in foné, interagendo con le percussioni quasi a creare astratti contrappunti sonori di sentita fisicità performativa, quasi come invenzioni improvvisate. Sempre al novero dell’avanguardia appartiene Boris Savoldelli che in Eletric Bat Conspiracy (CNM), cofirmato dal chitarrista Garrison Fewell, attenua i radicalismi degli album precedenti, a favore di una propensione ludica, il cui registro virtuosistico si può ammirare tanto in standard/cover (persino Lou Reed all’inizio) quanto nei brani scritti assieme, a esaltare il gioco ora dell’uno ora dell’altro.
Attiene ancora, in parte, all’avanguardia ludica il trio inedito Carlone Licalzi Righeira che registra Italiani (Artis), ovvero tredici canzoni nazionalpopolari rivisitate e arrangiate in chiave tecno-jazz da Giorgio Licalzi (tromba ed electronics), il quale s’avvale di due voci particolari: da un lato Gian Luigi Carlone (Banda Osiris), dall’altro Johnson Righiera (dell’omonimo duo); e un filo di malinconia pervade l’intero lavoro forse un po’ trattenuto, molto serioso e poco ironico rispetto all’idea del progetto. Ma per tornare al jazz-jazz c’è pur sempre il CD di Eleonora D’Ettole in Bilieve In Spring (Abeat) con il suo Quartet assieme a Ricci, Bagnoli e il compianto Sellani, a impegnarsi romanticamente negli standard contemporanei da Hubbard a Bill Evans, da Legrand a Clifford Brown (non senza autori più ‘classici’) fino ad assecondare una naturale inclinazione a un vocal jazz ‘ moderno senza tempo’. Si può infine trovare autentico vocal jazz anche in chi ne è forse aliena, come la giovane cantatessa Carlot-ta che al secondo album Songs Of Mountain Stream (Brumaio Records) si conferma autrice talentuosa e musicista autentica (anche per la quantità di strumenti suonata): pur operando nei circuito del rock alternativo, possiede un feeling, una sensibilità, un timbro, un’intonazione che ha del jazzistico molto più che in tante dichiarate jazziste “professioniste”: se registrasse un album di standard, sarebbe un disco col botto…
Discografia citata in ordine alfabetico per cantante:
Andy Bey, Pages From An Imaginary Life (Highnote)
Eric Bibb, Blues People (Harmonia Mundi)
Carlone Licalzi Righeira, Italiani (Artis)
Carlot-ta, Songs Of Mountain Stream (Brumaio Records).
Dena DeRose, We Won’t Forget (HighNote)
Eleonora D’Ettole, Bilieve In Spring (Abeat)
Anne Ducros, Either Way from Marylin to Ella (Naïve)
Cynthia Felton, Save Your Love For Me (Felton Entertainement)
Lisa Ferraro, Serenading The Moon (Pranavasonic)
Lady Gaga & Tony Bennett, Chjeek To Cheek, CBS
Maud Hixson, Don’t Let A Good Thing Get Away (autoprodotto)
Ellen Johnson, These Days (Vocal Vision)
Nancy Kelly, B That Way (BlueBay Records)
Barbara Morrison, I Love You, Yes I Do (Savant)
Marta Raviglia, Gabbia (Splasch)
Annie Ross, To Lady With Love (Red Anchor)
Boris Savoldelli, Eletric Bat Conspiracy (CNM)
Kelly Suttenfield, Among The Stars (autoprodotto)
Libby Work, Memoir (Libbyworkmusic)
Cristina Zavalloni, The Soul Factor (Jando Music)