Stefano Pastor: la musica non è nelle note

Foto: Marija Obradovic, dal sito di Stefano Pastor










Stefano Pastor: la musica non è nelle note


Fra i tanti piccoli fiumi che confluirono nella corrente del jazz ci furono anche le jug bands.

Erano quei gruppi in cui si suonavano, oltre agli strumenti musicali veri e propri, anche oggetti di uso quotidiano: le bottiglie (il termine Jug significa appunto bottiglione), le tavole per il bucato (Washboard). E prima ancora nella tradizione africana c’erano cosiddetti voice disguisers, oggetti utilizzati per imitare le voci della natura, per evocarne gli spiriti. Stefano Pastor è un musicista d’avanguardia (il termine è forse stantio), ma il suo modo di suonare il violino, forzandolo ad avere la pronuncia e l’espressività di uno strumento a fiato, modificandolo con vari artifici (l’uso di corde di chitarra, ad esempio) mi ha fatto sempre pensare ad una ricerca non tanto e non solo sulle sonorità del futuro, ma anche e soprattutto al tentativo di evocare suoni arcaici, primitivi, voci di terra e polvere, a quella espressività primeva della musica afro-americana che qualcuno ha definito “musica degli oggetti”. Il suo ultimo lavoro in completa solitudine Songs (SLAMCD 538) ha acuito questa mia sensazione. In queste sei tracce l’artista genovese spreme il suo strumento fino ad estrarne ogni goccia di senso sonoro. Vi applica dei distorsori che lo trasformano in una inaudita chitarra elettrica, lo percuote con spazzolini da denti trasformandolo in uno strumento a percussione. Ogni suono strumentale che si sente in questo disco è suono di violino. Un violino che muta continuamente voce e che insieme alla voce di Pastor, chiaramente ispirata al modello di Chet Baker, accumula in continuazione materiali (detriti) sonori di provenienze disparate: la canzone brasiliana, gli standard jazz, l’arte meticcia di Jimi Hendrix, l’avanguardia del ‘900. Songs, come dice lo stesso Pastor nelle note di copertina è , una una ricapitolazione “stringente e rigorosa”, del suo percorso artistico.

Jazz Convention: Pensi di poterti riconoscere in questa presentazione del tuo disco?

Stefano Pastor: Non mi dispiace che si dica che, in qualche maniera, la mia musica guardi all’indietro. Ho camminato su un sentiero musicale tutt’altro che rettilineo: ho suonato in orchestre sinfoniche e liriche, ho avuto per sei anni un quartetto d’archi, ho lavorato con Paolo Conte e suonato rock. Oggi il blues – ciò che di esso sopravvive – è il mio riferimento poetico, prima ancora che musicale. Il blues non è una musica basata su un certo numero di battute (sin dal blues rurale potevano essere 12 o 16), non è una questione di forma. È il nucleo centrale di un’autentica cultura afro-americana come afferma Amiri Baraka; ha suoni incompatibili con il sistema occidentale di dodici note, suoni che vengono dal retaggio di una africanità sradicata. Il blues è musica innanzitutto vocale, conserva memoria viva degli shout e dei canti di lavoro degli schiavi, è racconto di sè, dei propri fallimenti e delle proprie afflizioni, ed è sporca. È una condizione esistenziale. Il blues si esaurisce e trasmigra poi nella musica di Armstrong, Bird, Ornette, Trane, ecc. come elemento di autenticità culturale in contrapposizione al ciclico sfruttamento commerciale del jazz da parte dell’industria discografica che ne dissangua la sostanza. In Bird il blues è deflagrante. È un modo di sentire, di vivere.

JC: Anche il jazz è mutato nel corso della sua storia secolare ed ha conosciuto varie fasi. A che punto è oggi quest’arte. Ha ancora la capacità di dire qualcosa di nuovo? È ancora vitale?

SP: Ogni volta che una qualche espressione artistica viene accademizzata, inquadrata, sistematizzata perde autenticità. Cesare Pavese in un suo saggio afferma che il poeta è un esploratore che si inoltra in mondi assolutamente ignoti. L’accademico torna su quegli stessi luoghi magari descrivendone meglio i dettagli, ma non possiede la fiamma che è propria del poeta-iniziatore. In questi decenni le scuole di jazz hanno prodotto eserciti di inutili strumentisti che mai trasmettono il brivido dell’originalità. Nel blues delle origini e in altri tempi pionieristici, l’assenza di una scuola ha esaltato l’individualità delle voci strumentali che non sono costruite con un sapere tecnico trasmesso ma sono vocalizzanti e immaginative; Carmelo Bene – chi altri ha incarnato questi concetti, se non lui? – sostiene, citando Tommaso Landolfi, che il teatro non è nel teatro, la letteratura non è nella letteratura, la musica non è nella musica. L’arte va cercata altrove.

JC: Dove è questo “altrove” per te?

SP: Non nella esecuzione corretta o nella bella scrittura. È invece nel miracolo che si crea – se si crea – al di fuori dell’aspetto tecnico. È manifestazione dell’indicibile. Necessita sia del creatore che del fruitore. E qui occorre dire che la fruizione consapevole è un fenomeno sempre più raro. Oggi la musica è proposta, spessissimo, come mero sottofondo. Siamo assediati da musica inutile e brutta al supermercato, nelle stazioni, ovunque, senza volerlo. L’atto della fruizione viene negato poiché esso avrebbe bisogno di un silenzio che ci è stato sottratto. Il pubblico, a parte poche eccezioni è sempre più ignorante, condannato alla cecità che il potere impone attraverso il controllo del mercato che è tutt’altro che libero ma totalmente monopolizzato. La massa – si noti, non più popolo – è piegata alle leggi del consumismo più feroce e il pluralismo disturba il sistema capitalistico-consumistico. Il jazz, per tornare alla domanda precedente, può sopravvivere solo in presenza di un pubblico consapevole e, soprattutto, di musicisti consapevoli. Non è morto tuttavia, nonostante si faccia di tutto per ucciderlo. Sopravvive, in alcuni ambienti d’avanguardia che ho la ventura di frequentare, soprattutto negli USA, sopravvive in una nicchia di pubblico attento ad una ricerca artistica non accademica. Mi ripeto, ma è necessario: la musica non è nelle note. Si può insegnare la tecnica, non l’originalità. Nulla si può dire dell’indicibile che poi è l’unica cosa che conta in arte. Per Rilke l’opera d’arte è di una solitudine infinita, non la si può capire o giudicare, si può solo provare ad amarla. I palinsesti dei media e i cartelloni dei teatri e dei festival sono colpevolmente ridotti a una feroce omologazione e a una vuota semplificazione della proposta. Chi non si allinea non sopravvive. Vi è ancora però chi resiste a tutto questo.

JC: Come vedi il futuro

SP: Ho molti elementi per immaginare orizzonti sempre più cupi, ma non per questo posso cambiare la mia natura. Non potrei mai suonare musica che non partisse dal mio profondo per assecondare le mode. Continuo ad essere critico nei confronti della superficialità dilagante, imposta dall’alto e non posso che affermare il mio radicale dissenso. Questo soltanto posso fare, di questo potrò soltanto morire.

JC: Oltre a Songs quali sono i tuoi progetti recenti?

SP: Sto continuando a lavorare su me stesso, da qualche tempo riappropriandomi del repertorio sinfonico, cameristico e concertistico che è sempre stato fonte di ispirazione profonda per me. Una riappropriazione, dopo tanta musica improvvisata, che mi pone nuove domande sia da un punto di vista didattico-pedagogico e sia da quello artistico e non so a quali nuovi orizzonti potrà condurmi. Nel frattempo sono usciti Narcéte, per l’inglese SLAM, un CD con Steve Waterman, il compagno di tante avventure George Haslam e la poetessa Erika Dagnino, anch’ella collaboratrice assidua con la quale mi sono esibito recentemente in duo al festival di poesia Poestate di Lugano. Paragone d’Archi in duo con Charlotte Hug per la Leo Records, che abbiamo presentato a Zurigo nel prestigioso contesto della rassegna di Fabrik Jazz lo scorso aprile. Ancora per Leo Conversations About Thomas Chapin, con Stefano Leonardi, Fridolin Blumer e Heinz Geisser, un disco molto apprezzato anche da Terri Castillo, la vedova di Thomas e dalla sorella di lei, Stephanie che ha intervistato me e Leonardi a Milano per il suo film su Thomas di imminente uscita. L’amicizia nata con Terri e Stephanie in seguito all’uscita di questo lavoro rappresenta per me qualcosa di speciale e commovente che a volte la musica può far accadere.