Foto: Alice Caruso, dal sito di Saya sayajazz.it
Slideshow. Sara Fattoretto.
Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Sara Fattoretto?
Sara Fattoretto: Una ragazza di 28 anni, molto timida e riflessiva, nata in una paesino della Riviera del Brenta che cantava fin da bambina e che ha intrapreso, con umiltà e tanta voglia di imparare, un percorso personale nella musica.
JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
SF: Tra i ricordi della mia infanzia che mi legano alla musica forse il più bello coinvolge mio padre: avevo 6/7 anni, non di più. Mio padre era seduto al pianoforte (un pianoforte a muro molto vecchio; era il piano di mia nonna che da bambina studiava classica). Mi teneva sulle ginocchia e cantavamo insieme le canzoni degli anni ’70, quelle stesse canzoni che mio padre aveva suonato per anni con il suo gruppo storico I Fantastici. Tra le mie preferite c’era Che sarà dei Ricchi e Poveri (!). Devo dire che ancora oggi riascoltando l’incipit del pezzo «paese mio che stai sulla collina…» provo una certa emozione.
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare una musicista? E in particolare una cantante?
SF: Non mi sento una musicista e forse neanche una cantante! Sto guardando questo mondo così vasto, complesso e meraviglioso dal buco della serratura. Non mi ci sento ancora dentro… ci sto camminando attorno, in punta di piedi, con curiosità, rispetto e piena onestà d’animo. Mi piace l’idea di scoprire degli spazi nuovi di espressione e comunicazione: cantavo sin da bambina e seguire (anche) la strada della musica è stato piuttosto naturale, ma non sempre voluto o cercato. È capitato! Non so ancora se la musica sarà o diventerà la mia professione anche nel futuro; se fosse così l’accoglierò con gioia. Di certo rimane primaria l’esigenza espressiva la quale può trovare realizzazione in forme e linguaggi anche molto diversi.
JC: Ti calza la definizione di cantante jazz o ti va stretta?
SF: “Cantante jazz”? Perché no, magari! I confini del jazz o della musica contemporanea stanno diventando sempre più labili e confusi: sonorità diverse, linguaggi eterogenei, forme compositive ed esecutive tra le più varie unite insieme in uno spazio espressivo sempre più vasto, incontaminato e contaminato al tempo stesso… Diventare una voce tra le voci di questa musica mi piacerebbe, parecchio!
JC: Sara, ma cos’è per te il jazz?
SF: Il jazz è uno spazio di espressione, una possibilità; un linguaggio che unisce musica scritta ed improvvisazione; è relazione, condivisione, interplay. È rischiare, sbagliare, rimediare, costruire. È ascoltare e ascoltarsi. È creare in modo estemporaneo ed eseguire con rigore quanto scritto sullo spartito. Il jazz è lo sforzo di cambiare ogni volta prospettiva, punto di vista o espressione rimanendo sempre fedeli a sé stessi e al qui ed ora. È espressione di libertà (al di là dei limiti di ognuno).
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
SF: Libertà, espressione, improvvisazione, relazione, provocazione, tradizione, avanguardia, “errore”, terrore, rischio, “lasciarsi andare”.
JC: Ci parli ora del disco del Saya 5et?
SF: Ho un pinguino nella scarpa è il titolo del primo album di Saya 5et uscito con l’etichetta padovana Indijazzti Records. Saya, tra l’altro, non è il mio nome d’arte, ma ha 2 significati: è l’unione dei nomi dei componenti del gruppo (Sara, Yuri, Andrea) nella sua formazione iniziale di trio poi diventato quintetto; ed è un piccolo omaggio a SAJA, un progetto di permacultura (sinonimo di recupero delle radici e delle risorse del nostro territorio) di un caro amico siciliano.
JC: Che cosa vuole essere anzitutto il disco?
SF: Un omaggio alla canzone italiana datata anni ’30-’60 riproposta attraverso un approccio contemporaneo che unisce jazz e canzone d’autore, melodia ed improvvisazione, tradizione e “sperimentalismo”.
JC: Può definirsi jazz di facile ascolto?
SF: Sì, è un disco di facile ascolto che, però, ha richiesto un impegno ed un lavoro notevoli soprattutto per quanto concerne l’arrangiamento dei brani (di cui si è occupato in particolar modo Andrea Vedovato, chitarrista del gruppo); la ricerca di una sonorità raffinata e leggera, che non cadesse però nello stucchevole o nel banale; la proposta di una serbatoio di brani della tradizione musicale italiana (tradizione di tutto rispetto) reinterpretati attraverso sensibilità e linguaggi contemporanei da cinque musicisti non ancora trentenni. Per quanto mi riguarda desideravo uscire con un primo disco in italiano (lingua davvero piacevole da tenere in bocca quando si canta) e partire dalla mia “tradizione” (concetto tanto amato/odiato nel jazz, ma essenziale ed imprescindibile), dalla tradizione delle mie nonne, del mio paese, per poi andare oltre.
JC: Tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?
SF: La domanda delle domande la cui risposta è non lo so! In assoluto davvero non lo so. Posso dire quello che ho nel lettore in questo momento e che ultimamente ascolto volentieri: Betty Carter e Ray Charles, Dedicated to you; Charles Mingus, Blues and Roots; Chet Baker, It could happen to you; Rita Marcotulli, Koiné; Norah Jones, Come away with me; Jeff Buckley, Grace; Fabrizio De André in tutte le salse; Sousaphonix e Mauro Ottolini, Musica per una società senza pensieri; John De Leo, Il grande abarasse.
JC: Noto che ci sono anche album di jazz italiani…
SF: Infatti, tra gli esperimenti più riusciti di reinterpretazione del repertorio italiano mi sento inoltre di citare il disco Tiziana Ghiglioni canta Tenco; Stefano Bollani, Abbassa la tua radio; Barbara Casini/Renato Sellani, Un anno d’amore; Ettore Martin, Senza parole (a cui, come gruppo, siamo molti legati grazie anche alla collaborazione con Ettore nel brano Notte di luna calante presente nel disco).
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
SF: Sempre più difficile! Nella musica due sono state le mie maestre del cuore: Elena Camerin e Alessia Obino. Mi hanno insegnato entrambe, in modi diversi ma complementari, l’importanza dell’ascolto del proprio io e della sua libera espressione in musica.
JC: Nella cultura e nella vita?
SF: Sono un’idealista, pacifista, animalista, vegetariana, agnostica. I miei maestri sono tutti coloro che hanno contribuito a diffondere cultura e consapevolezza tra la gente portando avanti istanze di libertà, di pace e giustizia sociale; che hanno lottato per il riconoscimento dei diritti umani, per la parità tra i sessi, per l’uguaglianza al di là di ogni discriminazione; che hanno abbracciato la causa ambientalista nel rispetto della natura e delle sue creature; che hanno proposto dei paradigmi nuovi per uno sviluppo ed un’economia sostenibili in un’ottica di “decrescita felice”; che non hanno promosso il diffondersi il delle arti, della musica e della cultura in generale… mi verrebbe da citare da Ghandi a Martin Luther King, da Latouche a Gino Strada; da J.A. Abreu a Rosa Parks e molti molti altri.
JC: E mi sveli le cantanti, soprattutto jazz, che ti hanno maggiormente influenzata?
SF: Intramontabili: Ella, Anita O’ Day, Billie Holiday, Betty Carter, Carmen MCrae, Miriam Makeba, Nat King Cole. Contemporanei: Bobby McFerrin, Cecile McLorin Salvant, Cyrille Aimée, Stacey Kent. Italiane: Maria Pia De Vito, Barbara Casini, Tiziana Ghiglioni, Alice Ricciardi, Francesca Corrias. Sicuramente Lelio Luttazzi e Luigi Tenco tra quelli proposti nel disco.
JC: Qual è stato per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
SF: Lo scorso aprile quando abbiamo presentato il disco: il teatro era colmo di gente. È stata una grandissima emozione: tante facce amiche, tanti volti nuovi. Grandi soddisfazioni. Un altro momento importantissimo è rappresentato dalla nostra (del tutto inaspettata) candidatura alla Targa Tenco 2014 nelle sezione “Interpreti” accanto a nomi sacri della musica italiana (Mina, Mannoia, Arbore e molti altri).
JC: Come vedi la situazione della musica in Italia? E più in generale della cultura in Italia?
SF: C’è molta voglia di fare e molto talento in Italia. Il livello dei musicisti, anche dei “giovanissimi”, è davvero alto e non ha nulla da invidiare ai compagni europei ed americani. Il problema dell’Italia (ciò vale per la musica e la cultura in generale) è che non c’è alcuna intenzione di investire sui giovani, sulla creatività, sull’espressione artistica e culturale. È un paese stravecchio incastrato in decadenti meccanismi di potere che, per decenni, non hanno fatto altro che indebolire qualsiasi forma di libertà artistica o di semplice tutela delle risorse culturali presenti. Non è un periodo florido. Molti miei coetanei se ne sono già andati. Ci sono pochi spazi e poco investimento. Ma le risorse ci sono tutte e, mi auguro davvero, si riescano a trovare forme valide per farle emergere.
JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
SF: Stiamo lavorando alla realizzazione di uno spettacolo teatrale dal titolo “Ho un pinguino nella scarpa e due attori nel cappello” in collaborazione con la compagnia Amor Vacui di Padova e al regista Lorenzo Maragoni: si tratta di uno spettacolo di “teatro-canzone” con alcune musiche del disco e testi teatrali originali. Debutteremo il 12 Aprile al Teatro di Piove di Sacco PD. Tra i progetti futuri c’è anche l’idea di un album di inediti.