Daniele Gorgone, un pianista “appassionato”.

Foto: la copertina del disco










Daniele Gorgone, un pianista “appassionato”.


Daniele Gorgone, pianista compositore e arrangiatore, è un musicista tecnicamente solido, in possesso di uno stile raffinato e un sound di chiara declinazione afroamericana. Capace sia come leader che accompagnatore, si è contraddistinto nel corso della sua carriera, in progress, per collaborazioni di prestigio e progetti interessanti. In questa intervista ci racconta di sé e della sua forte passione per il jazz.

Jazz Convention: Daniele Gorgone, come ti sei avvicinato al jazz e quali sono stati i tuoi maestri?

Daniele Gorgone: Mi sono avvicinato a questo meraviglioso mondo musicale quando avevo 14 anni. C’era una radio cittadina a Livorno che trasmetteva jazz tutti i giovedi sera: lo speaker diventò mio amico… Poi ho cominciato ad ascoltarla dal vivo, ogni volta era un’emozione. I miei maestri sono davvero tanti. Ogni volta che t’imbatti in qualche musicista può insegnarti qualcosa o comunque darti delle ispirazioni o aprirti delle strade. Tra i maestri che comunque porto nel cuore ci sono sicuramente Bill Evans, Duke Ellington, Cedar Walton e Herbie Hancock.

JC: Perché hai scelto il pianoforte e cosa rappresenta per te questo strumento?

DG: Il pianoforte mi ha sempre affascinato, sia esteticamente, sia come logica di funzionamento, sia come timbro che come gamma dinamica che riesce a creare. È una sfida continua, puoi usarlo per fare melodie semplici, per accompagnare e per fare cose sofisticate. Ogni volta che approfondisci un tipo di tecnica ti accorgi che ce ne sono altre cento da imparare. Il pianoforte è una specie di specchio spietato, riflette cosa sei tu  e cosa stai cercando in quel momento.

JC: Tu sei anche un compositore, arrangiatore, didatta e appassionato divulgatore di questa musica…

DG: Si, soprattutto appassionato direi. Se non hai passione per questa musica tutto perde di senso. Insegno piano jazz in un paio di scuole di musica toscane.

JC: Quali sono state le tue collaborazioni più importanti e che ricordi hai?

DG: Ho avuto la fortuna di collaborare con straordinari musicisti italiani e americani. In particolare ho avuto il piacere di fare diversi tour con Scott Hamilton e di incidere un disco a mio nome con Dave Schnitter, già sax tenore nei Jazz Messengers. Con grande gioia ricordo anche le collaborazioni con Peter King, uno straordinario sax alto inglese, con Jesse Davis e Tom Kirkpatrick, col quale ho un progetto stabile da anni. Lavorare e stare a contatto con questi musicisti straordinari oltre che delle vere e proprie icone del jazz è una specie di iniezione endovena di questa musica e di tutto quello che ci gira intorno – aneddoti, racconti, storie di vita vissuta che per noi appassionati di questa musica sono linfa vitale! – e ti da la possibilità di imparare un sacco di cose oltre alla musica: come si sta sul palco, come si organizza un gruppo, come si affrontano le avversità durante una tournée e via dicendo.

JC: Il tuo primo disco… e l’ultimo…

DG: Il mio primo disco: 2007, Mingus sound of love: un disco in quintetto – con cantante e Tino Tracanna come ospite – dedicato a Charles Mingus, con arrangiamenti miei di brani del grande bassista; ultimo disco: Lucky Man, uscito nell’ottobre 2014, con arrangiamenti su standards e un brano originale, realizzato in trio con Luciano Milanese e Giovanni Paolo Liguori. Con questo disco e uesti due musicisti sto girando in Italia.

JC: Il presente e il futuro di Daniele Gorgone?

DG: Attualmente ho un paio di progetti con cui sto girando e a cui tengo particolarmente tra cui appunto il mio trio e il 4tet con Tom Kirkpatrick, Matteo Anelli e Carlo Battisti. Il bello di questa musica è il mischiarsi sempre, collaborare continuamente con nuovi musicisti e creare nuove situazioni. È quello che mi fa vedere il futuro sempre stimolante, ricco e pieno di possibilità.

JC: Cosa vuol dire essere jazzista in Italia?

DG: Vuol dire essere ragazzi coraggiosi e un po’ spregiudicati! Ci sono un sacco di talenti in Italia, davvero devastanti, ma non supportati da una cultura e da un sistema che sempre più spesso si manifestano inadeguati. È anche vero però che spesso mi capita di suonare soprattutto d’estate in qualche realtà italiana – come Vittoria in Sicilia o Fermo nelle Marche o Bitonto in Puglia, ma ce ne sono molti altri.. – dove davvero senti che l’amore per questa musica è profondo, radicato, sentito ed emozionante. Quindi cerchiamo di tenere duro, facciamo pur sempre uno dei lavori più belli al mondo!



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