Open Jazz Festival 2015

Foto: Daniele Bruschetta










Open Jazz Festival 2015

Ivrea. 19/21.3.2015


L’Open Festival ritorna con le consuete date primaverili e mantiene il suo carattere, la sua fisionomia riempendo di jazz e non solo Ivrea per quattro intere giornate. Come d’abitudine si sceglie un tema e su questo, con agganci più o meno saldi, si evolvono i molti appuntamenti della manifestazione. «L’idea è quella di coinvolgere le iniziative culturali della città e delle zone vicine convogliandole a pieno titolo nella rassegna. Con una parola abusata, questo significa fare sistema.» Così si esprime il direttore artistico Massimo Barbiero e i risultati gli danno ancora una volta ragione. Nei vari rendez vous scendono in campo la letteratura di settore, la pittura, la fotografia, la danza e non mancano gli spazi atti ad esaltare le prelibatezze enogastronomiche del canavese e delle Langhe. Questo avviene in virtù di un recente gemellaggio siglato fra il music studio e il jazz club di Barolo.


Si comincia il 19 con indovinate coreografie sulle musiche di Simone de Beauvoir, ultimo disco di Barbiero eseguito con la sola marimba. Alla sera, lo spettacolo Les voix qui dansent gettano un ponte fra l’Africa e il Piemonte. Le polifonie tribali si materializzano su un palcoscenico migliaia di chilometri a nord da dove hanno avuto origine, senza alcuna intenzionalità straniante.


Il 20 marzo, nella sala S.Marta, dopo la presentazione dell’ultimo interessante libro dedicato a Gershwin dall’infaticabile Guido Michelone, entra in scena l’Eclectic Duo, Cecile Delzant al violino e Emanuele Francesconi al pianoforte. I due giovani e preparati musicisti affrontano il repertorio selezionato da una prospettiva decentrata, con un approccio indiretto, periferico per arrivare al cuore dei motivi dopo una tempestosa navigazione. C’è da lodare, inoltre, l’idea sfiziosa di fondare un duo di questo tipo, una formazione non molto battuta nel panorama della musica afroamericana di oggi. Sulla sinistra della scena il pittore Muroni si impegna, in contemporanea, in un’action painting, dopo l’esperienza con Giancarlo Schiaffini del 2012. Ne viene fuori un quadro dove domina una tastiera fluttuante al centro della tela. Il gesto iconico visualizza, cioè, il contenuto musicale in modo abbastanza conseguente.


Alla sera al Teatro Giacosa c’è grande attesa per Odwalla, a un anno e mezzo di distanza dall’ultima esibizione eporediese. Le aspettative non vengono deluse, anzi, il concerto è certamente fra i migliori degli ultimi anni, se non il migliore in assoluto. In questa occasione Marta Raviglia prende in mano la guida delle voci e garantisce un notevole equilibrio complessivo, valorizzando i momenti solistici, come le parti corali, utilizzando al meglio anche les voix qui dansent, al loro debutto con Odwalla. Pur dovendo governare situazioni contrastanti, la Raviglia riesce a non far sovrapporre i diversi percorsi e a favorire il dialogo fra voci e ballo, fra voci e percussioni in modo ordinato e flessuoso.


L’altra carta vincente della serata si rivela Israel Varela. Dopo un buon esordio nel 2013, dove, però, non era venuta fuori al 100% la sua personalità, in questa circostanza il batterista messicano dimostra di che pasta sia fatto, prodigandosi come un effettivo, ma offrendo anche qualcosa di più, come un ospite di prestigio. Il suo drummin’, infatti, va a nozze con la macchina ritmica che pompa e spinge alle sue spalle e apporta anche qualche elemento inedito in una tessitura già ricca e screziata.


Giulia Ceolin, poi, e Karem Lugo, messicana residente a Barcellona, si inseriscono al meglio nella danza solitamente di pertinenza di artisti africani, qui ridotti a due unità. La Lugo, in particolare, ha modo di esprimere tutta la sua abilità e fantasia di ballerina moderna di flamenco, in un intermezzo in coppia con Varela di una tale intensità da far crollare il teatro per gli applausi,


Il resto dell’ensemble procede con una vitalità, una applicazione e una sintonia ogni volta superiori, in grado di far apparire come nuovi, brani proposti in parecchie altre occasioni. Tutto fila liscio come l’olio. Melodie delicate incrociano tempi dispari complicati, siparietti pensosi e malinconici si alternano a un’orgia percussiva in cui non si perde mai il controllo della materia. La band, all’occorrenza, si scompone in gruppi più piccoli, per ricomporsi a segnali convenuti. E’ un flusso movimentato in cui si attendono determinati numeri, che emergono ogni volta in maniera differente.


Il titolo della performance è L’uomo invisibile, come da argomento centrale dell’open. Nei recitativi affiorano rimandi al contenuto del libro di Ellison e si comprende che soltanto un’ispirazione potente di questo genere può incanalare nel verso giusto tanta energia espressiva..


Il pubblico apprezza il sontuoso spettacolo di Odwalla e decreta un successo meritatissimo alla fine della rappresentazione o meglio del “rito”.


Il 21 marzo lo Spazio bianco, sito votato all’ospitalità intelligente e alle iniziative artistiche di qualità, ospita il duo Artemisia. Le giovani Giorgia Bovolone e Veronica Perego, rispettivamente cantante e contrabbassista si impegnano in un set gradevole fra standards conosciuti e canzoni meno battute con verve e spigliatezza.


A S.Marta, per contro, nel tardo pomeriggio, la musica lascia il proscenio ad un dibattito di livello sull’ invisibilità della persona nel contemporaneo. L’invisibilità si riferisce alle categorie non protagoniste nella società di oggi, gli indigenti, i precari, i diversi per razza, colore o perché colpiti da handicap, gli esclusi dalla festa dei più fortunati. E di converso si è imposto, in questa epoca, il mito della visibilità come valore da perseguire e da conservare. Su queste contraddizioni, su questa dicotomia si susseguono interventi colti, ma fruibili, da parte di sei competenti relatori, coordinati dal moderatore Alberto Bazzurro. E non difettano, fra le pieghe, accenni alla storia del jazz .


Subito dopo il quartetto Pagliacci inonda la sala con un jazz rock non particolarmente aggressivo, adatto a concludere la prima parte del programma nella chiesa sconsacrata.


Alla sera al Teatro Giacosa è in cartellone l’incontro fra Maurizio Brunod e Garrison Fewell. Brunod è un vero specialista nell’arte del duetto, con collaborazioni che vanno da Miroslav Vitous ad Enrico Rava, passando per tanti altri nomi (tra cui Lodati, Barbiero e Succi). Fewell è un suo punto di riferimento, ne ha studiato lo stile e il metodo di lavoro. Il chitarrista italiano parte molto concentrato ed elabora e riespone tutta una serie di frasi melodiche o di riff insistiti vicini al rock psichedelico, operando sul suono allungato e distorto del suo strumento, usando loops e altri accorgimenti per portare la musica verso territori a lui familiari. Fewell stabilisce, invece, di non affrontare la chitarra in modo canonico e ortodosso. Adopera tutta una serie di aggeggi, dai campanelli, a minuscoli piatti, ad altri marchingegni di difficile etichettatura per produrre un discorso spigoloso, arcigno mosso in direzione dell’antimelodico, dell’atonale. Il dialogo si concretizza con una certa fatica e difficoltà. I segmenti in cui il confronto fra due idiomi così dissimili si realizza al meglio, trovando punti di intesa, si avvicendano ad altre sequenze in cui i tracciati procedono in parallelo, senza collegamenti manifesti. Alla fine si rimane con l’impressione di aver assistito ad un raffronto intellettuale sicuramente teso e rigoroso fra due personalità piuttosto lontane esteticamente,. La cosiddetta scintilla, però, in verità, non scatta che raramente in questa ora di improvvisazione assoluta.


Tutt’altra musica si sente dal quartetto di Rosario Bonaccorso. Il bassista ligure è in tournèe per presentare Viaggiando, il suo ultimo disco. La scaletta comprende, perciò, esclusivamente brani del recente album, in cui figura Roberto Taufic, anziché Natalio Mangalavite come in questa data del tour. Bonaccorso illustra, ogni volta, la genesi dei pezzi e ne spiega il contenuto, in modo affabile e convincente. Ha voglia di fare musica, di divertire e di divertirsi. Si impegna come cantante debuttante, dimostrando di saper usare meglio il contrabbasso rispetto alla sua voce. Non è fondamentale. Dopo le sue introduzioni, tutto sommato gustose, prende il via il botta e risposta fra i due fiati e successivamente partono gli assoli. Avere Bosso e Girotto in squadra significa contare su due fuoriclasse in condizione di modificare il profilo di composizioni piacevoli ma non straordinarie, trasfigurate, nobilitate, dal magistero solistico di una front line di questo peso e valore. Pure Natalio Mangalavite tiene botta, assicurando, con il suo pianoforte, un sostegno armonico e melodico a songs che profumano di Mediterraneo e di Sudamerica. Il pubblico gradisce questo tipo di proposta bene organizzata, di agevole ascolto e riserva ripetuti applausi alla fine del concerto.


Resta da riferire della bella mostra fotografica sempre ospitata a S.Marta con scatti riguardanti le edizioni precedenti del festival e del contributo di Lisa Gino e Simonetta Valenti all’inizio di tutti gli spettacoli serali attraverso una lettura partecipata di estratti da opere di Andersen, Pirandello e Jonesco.


Ancora una volta Massimo Barbiero e i suoi validissimi collaboratori del Music studio riescono a condurre in porto un festival dai molti aspetti artistici, dove la musica incontra altre discipline e si arricchisce da questo interscambio, come ne beneficia ampiamente il territorio che ospita l’evento.