Un’Isola di jazz: AH-UM Jazz Festival

Foto: il manifesto della rassegna










Un’Isola di jazz: AH-UM Jazz Festival.


L’AH-UM Jazz Festival si presenta quest’anno ancora più corposo e ricco d’iniziative e concerti. Residente nel quartiere Isola di Milano andrà in scena dal 9 al 24 maggio 2015. Al suo interno ospiterà anche due importanti avvenimenti, la giornata dedicata alla Nau Records e il Maletto Prize. Di questo e altro ce ne parla Antonio Ribatti, ideatore e fervido animatore della rassegna.




Jazz Convention: Antonio Ribatti, quando è nato l’AH-UM Jazz Festival?


Antonio Ribatti: L’AH-UM è nato nel duemila. È nato come risposta a una situazione che si era creata a Milano tra la seconda parte degli anni novanta e i primi del duemila. Praticamente non c’era nulla! Poche occasioni per suonare. Avevano chiuso i club più importanti, ed erano stati tolti i fondi a importanti iniziative e festival. Non c’era neanche più il festival internazionale come quello dell’Arco della Pace. Questo è dato da tanti fattori. Uno di questi è che stava cambiando anche il modo di fruire la musica. In aggiunta metteremmo anche l’avvento delle nuove tecnologie. Il festival è nato dai musicisti, partendo dalla base. L’idea era: basta lamentarsi perché non succede nulla. Facciamoci il festival!



JC: Com’è andata avanti questa idea?


AR: Abbiamo preso un teatro, il Barrio’s, di duecento posti, comodo e agile, con il pianoforte e l’impianto audio. Era attrezzato per avere un’organizzazione poco complicata. Lo abbiamo messo in piedi nel giro di un mese.



JC: Da allora quante edizioni si sono susseguite dell’AH-UM Jazz Festival?


AR: Da allora abbiamo fatto tredici edizioni. Ne abbiamo saltate solo un paio. Dal 2006 al 2009 sono stati anni di riflessioni importanti. Il Festival nel corso del tempo è cambiato molto.



JC: In che senso?


AR: I festival devono cambiare. Non ho l’ambizione di fare un festival sempre uguale a se stesso.



JC: Dai primi tempi a oggi quali sono le differenze, quelle più macroscopiche?


AR: I primi cinque anni sono stati il periodo più sperimentale dal punto di vista artistico perché stavamo inventando il festival. Ed è quello che aveva una visione più collettiva.



JC: Anche in termini musicali?


AR: Si anche in termini musicali. Abbiamo azzardato molto. Cosa che cerco di fare ancora adesso anche mantenendo gli obiettivi iniziali che c’eravamo dati e definiti insieme con gli altri colleghi che erano Alberto Tacchini, Tito Mangialajo e Paolo Botti. Il collettivo eravamo noi quattro. La missione era dare spazio ai progetti originali. Spesso eravamo additati come il festival della musica d’avanguardia. In realtà nel corso degli anni hanno suonato anche musicisti che certo non fanno avanguardia. Abbiamo dato spazio a qualunque forma musicale.



JC: Quali sono stati i luoghi del festival?


AR: I primi cinque anni sono stati al Barrio’s. Poi siamo cresciuti. Abbiamo saltato il 2006 perché fare un festival è molto faticoso. Dopodiché ci siamo rimessi in moto. Sono riuscito ad avere l’appoggio del Teatro dell’Arte. Per me era molto importante perché era un teatro storico. Volevo rivalutare il festival e dargli una connotazione storica molto simbolica. Tornare al centro della città, portarlo al centro delle attenzioni del pubblico, in una struttura importante a fianco della triennale. In quella struttura siamo stati due anni. A un certo punto la triennale si è appropriata del teatro. I miei referenti erano cambiati e io stavo riconsiderando l’idea del festival. La sfida di sempre è portare la gente al festival, convincerla, attrarla. Intorno al 2010 si era cominciato a parlare di rete. C’era questa idea legata fortemente alla tecnologia con la quale gioco forza sta cambiando la nostra vita. Bisognava riportare il jazz tra la gente, cercando di comunicare anche un jazz non semplice nella sua fruizione. Per questo motivo devi creare un ambiente disponibile all’ascolto reciproco. I musicisti devono ascoltare il pubblico e viceversa. È un lavoro molto delicato. La sfida può essere questa: portare il festival tra la gente e utilizzare qualsiasi tipo di luogo. Creare un festival territoriale che sia inclusivo.



JC: Qual è il luogo che hai individuato?


AR: Il luogo ideale secondo me è il quartiere Isola. È un luogo tradizionale ma aperto all’innovazione e fervido di attività e iniziative. Sono riuscito a utilizzare dei posti che i milanesi, abitando a due passi, non conoscevano come la Fonderia Napoleonica, la Fondazione Catella, e via dicendo.



JC: Quando hai cominciato a “fruire” del quartiere Isola?


AR: Nel 2010. A oggi sono ormai cinque anni. È stata scritta anche una tesi da Loredana Scadura sul rapporto tra il festival e il territorio, in questo caso dell’Isola.



JC: Parlaci della rassegna di, quest’anno…


AR: Il festival è diviso, da quando è all’Isola, in due ambiti diversi. Un ambito è quello dei concerti. Quelli più importanti sono realizzati nei teatri, luoghi adatti per avvenimenti destinati ad avere un grosso seguito. Poi c’è un circuito chiamato Isola Jazz Club, un jazz club a cielo aperto, dove hai tanti locali che propongono musica e dove l’utente può, dall’aperitivo al dopo cena, ascoltare più concerti cambiando location. L’anno scorso abbiamo fatto tredici concerti. Quest’anno L’Isola Jazz Club sarà affiancato dal Maletto Prize. Inoltre ci saranno anche gli eventi collaterali collegati con la musica.



JC: Nel programma ci sono musicisti italiani e stranieri?


AR: Normalmente è sempre stato un festival dedicato al jazz italiano perché ci interessava valorizzare la nostra realtà. Quest’anno ci sarà una musicista straniera, Jay Clayton, che farà il concerto dopo un workshop. Una giornata molto importante dal punto di vista dei concerti è quella dedicata alla Nau Records.



JC: Come nasce questo rapporto con la Nau Records?


AR: Questa è un’idea nata con Gianni Barone, titolare dell’etichetta. Conosco diversi musicisti che hanno inciso con la Nau Records e che stimo sia come persone che come musicisti. Tutto è nato da una telefonata e un pranzo con Gianni Barone. Quando ci sono degli obiettivi comuni basta poco per mettere insieme delle iniziative, soprattutto nell’ambito musicale.



JC: Dunque quest’anno le novità sono due: l’integrazione all’interno della rassegna della giornata dedicata alla Nau Records di cui abbiamo parlato e il Maletto Prize.


AR: Il Maletto Prize nasce da un’idea di Gianni Barone e mia. Durante un nostro incontro abbiamo parlato proprio di Gian Mario Maletto che entrambi stimavamo e ammiravamo molto. Abbiamo quindi pensato che il modo migliore per tenere viva la sua memoria fosse realizzare un premio, a lui dedicato, e indirizzato ai talenti emergenti.



JC: In che cosa consiste il premio?


AR: Noi facciamo una selezione a porte chiuse con una giuria composta da otto elementi. Questa selezionerà otto finalisti che saranno invitati a suonare nel contesto dell’Isola Jazz Club. Dunque dare visibilità a giovani musicisti. Poi il vincitore, che verrà scelto dalla giuria, avrà la possibilità di pubblicare un disco con la Nau Records. Noi abbiamo l’obbligo di creare occasioni per far emergere potenzialità altrimenti sommerse.



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