Greg Burk & Rakalam Bob Moses – We Are One

Greg Burk & Rakalam Bob Moses - We Are One

Ra-Kalam Records – 008 – 2014




Greg Burk: pianoforte, voce, batteria

Ra-Kalam Bob Moses: batteria, piatti, percussioni, Hapi Drum, pianoforte

Henry Cook: sax alto, sax soprano, flauto, flauto alto, washint, clarinetto

Matt Renzi: sax tenore, flauto alto oboe, playett

Ron Seguin: contrabbasso





«Sinceramente, mi annoio a suonare solo sugli accordi per un set intero, o solo free… la varietà è una cosa che mi stimola sia quando suono in concerto sia su disco.» Così si espresse il pianista italo-americano, allievo di Paul Bley, in un’intervista del 2007. Parole valide anche per questo disco che è ricco d’idee e suggestioni, difficile da inquadrare in una qualsivoglia casella stilistica. D’altronde il gruppo stesso messo insieme da Burke è in qualche maniera, nelle biografie dei suoi elementi, meticcio. Il pianista e Matt Renzi non sono solo italo- americani, ma sono anche figli di musicisti classici. Henry Cook, figlio di uno scultore è nato e cresciuto in Italia. Ron Seguin vive nel nostro paese. Bob Moses, statunitense doc è tuttavia anche un appassionato di musiche tradizionali oltre che un poeta e uno scultore.


Normale che da tanta ricchezza di esperienze e radici dovesse nascere un lavoro come We are One (inciso, peraltro, in Italia).


Facciamo qualche esempio. In Love of the deep, il piano suona in maniera talora tardo-romantica, talora percussiva, i fiati suggeriscono melodie senza tempo (il tenore di Matt Renzi ha un accento quasi arcaico), mentre i tamburi di Bob Moses tessono di suoni oscuri, primordiali, tutta la storia del brano (e del cd).


La traccia successiva parte da una semplice melodia del flauto, di sapore sudafricano, che torna poi spesso e si snoda poi una lunga improvvisazione ai limiti del free. Il brano sembra un omaggio a grandi gruppi dell’Africa australe come i Blue Notes e la Brotherhood of Breath.


Notevole anche Folk Music of the Unknown, ulteriore rievocazione di quel mito musicale dell’etnia immaginaria che da decenni intriga tanti musicisti.


Nell’ultima traccia Burk canta (in maniera a dire il vero non indimenticabile) anche la melodia che dà il titolo al cd. Un titolo, We are one, che è anche la sintesi del programma musicale di questo quintetto: la libera fusione di linguaggi e sensazioni, di arcaismo e modernità, delle tante stratificazioni che questi musicisti hanno nel loro bagaglio. Da questo punto di vista il disco è ben riuscito. Il quintetto si muove molto bene nella sua foresta sonora fatta di percussioni tribali, di suoni arcaici, di free jazz e di echi della musica accademica a cavallo fra ottocento e novecento. Burk e i suoi partners non disegnano un mero collage sonoro (come potrebbe suggerire la copertina del disco disegnata da Bob Moses). La loro ricerca di una musica nuova e possibile è sincera e tutt’altro che banale. Che poi We are one non sia un disco di jazz è un’altra questione; nemmeno molto rilevante.