Young Jazz 2015

Foto: Fabio Ciminiera










Young Jazz 2015

Foligno – 21/23.5.2015

Giunto all’undicesima edizione, Young Jazz trova il modo di rinnovare e proseguire il proprio cammino. Un rinnovamento che investe i luoghi, le sonorità, gli incontri con altri festival ed istituzioni europee.


L’epicentro quest’anno è stato posto presso lo Spazio Zut, lasciando l’Auditorium San Domenico. Un cambio notevole secondo tutte le coordinate: ambientali, sonore, dimensionali. Una sala cinematografica riadattata a spazio multiplo, dotato di una acustica di grande atmosfera, calda e precisa, sicuramente più ascritta rispetto all’auditorium, e capace di ospitare circa 120 persone, rispetto alle oltre 500 della basilica trecentesca. Ovviamente le differenze permettono alla direzione artistica di disegnare una rassegna pensata secondo accenti mutati per quanto coerenti con i paradigmi esposti finora dal festival, rassegna capace quindi di aggiungere altre possibilità espressive al proprio programma.


Il cambiamento non riguarda tanto la voglia di sperimentare, quanto la “confezione dell’abito” con cui il festival si presenta al suo pubblico. Complice anche il maltempo che ha funestato Foligno nel weekend del festival, lo Spazio Zut ha manifestato la sua attitudine poliedrica ospitando tanto i concerti in solo che gli incontri tra jazz, improvvisazione ed elettronica. E così sul palco si sono alternati concerti in solo e la moltitudine chitarristica voluta per il finale del suo concerto da Teho Teardo, quartetti e trii dalla lineup tipicamente jazzistica e tavoli, “popolati” da mixer, campionatori e computer, a disposizione di manipolatori sonori.


Una caratteristica comune alla maggior parte dei concerti è stata la ricerca sul suono. Interventi sugli strumenti pensati sia attraverso la dimensione acustica che con successivi passaggi elettronici, utili in ogni caso a dare ulteriore profondità ai linguaggi dell’improvvisazione e nuove possibilità all’interplay. Le formazioni più canoniche hanno marcato la propria identità per mezzo di scelte di repertorio precise: da questo vengono fuori l’esplorazione nell’estesissimo mondo di John Zorn operata da Gabriele Coen, il ripensamento degli standard operato dal trio di Beppe Scardino e lo sguardo alla musica contemporanea dell’XY Quartet di Nicola Fazzini e Alessandro Fedrigo, una ricerca rivolta a cercare la sintesi tra jazz e scrittura, tenendo ben presenti le ragioni e le matrici di entrambi i terreni musicali. Se si vuole, anche i due quartetti si misurano in qualche modo con la ricerca sonora, viste le scelte di affidare le armonie alla fisarmonica di Luca Venitucci o al vibrafono di Saverio Tasca e puntare ad un possibile allargamento del vocabolario espressivo. Il completamento di questo discorso, il possibile anello di congiunzione, arriva dal concerto di Marcello Giannini con un quintetto che prende le mosse dal Miles elettrico per giungere alle istanze più attuali, alla ricerca di una sintesi tra sonorità metropolitane e mediterranee, mettendo insieme in maniera efficace il gesto e la tecnica sullo strumento con la possibilità di intervenire di continuo sulla produzione del suono.


Kaja Draksler, Pak Yan Lau, Dimitri Grechi Espinoza e Federico Scettri hanno calcato il palco dello Zut in solo. Quattro set totalmente differenti. Se il sassofonista ha proposto uno degli episodi più intensi del festival con il suo solo una vera e propria preghiera in musica (il progetto Oreb nasce infatti nella dimensione, sonora e sacra, di una piccola chiesa) capace di mettere in evidenza tanto la spiritualità quanto la coerenza con il suo percorso musicale, il batterista ha messo i suoi strumenti al centro di una performance teatrale in cui il gesto, il travestimento e le frasi suonate hanno uguale importanza nel risultato finale di uno spettacolo davvero totale. Kaja Draksler ha portato sul palco un concerto rigoroso dove si intrecciano riferimenti colti e soluzioni ben calibrate nello sviluppo del filo narrativo. Pak Yan Lau ha costruito, invece, il suo solo “intorno” al pianoforte: innanzitutto la scelta di tendere delle corde tra il coperchio e l’armatura del pianoforte ha reso immediatamente evidente una connessione stretta tra gesto e suono, tra musica e coreografia utile a produrre la musica. E, poi, con la continua ricerca di soluzioni poco convenzionali per utilizzare secondo logiche differenti uno strumento a suo modo antico e inequivocabilmente strutturato, la pianista ha legato i quadri sonori scaturiti dalle frasi e dalle composizioni “convocate” nel suo concerto.


La “sezione elettronica” del programma, la connessione tra jazzisti e dj o producer, ha avuto come protagonisti il progetto Electric Tree – con Franco D’Andrea, Andrea Ayassot e DJ Rocca – e l’incontro tra Enrico Zanisi e Backwords. Come è ovvio, è impossibile dire se sarà questa la strada del futuro del jazz e, in generale, della musica. Certo, anche per i più restii ad accettarlo, l’elettronica è diventata uno strumento, con dignità ormai comparabile agli altri: per di più, viene utilizzata da tantissimi musicisti per ampliare il proprio spettro sonoro. Electric Tree è un incontro tra due diverse storie musicali: D’Andrea e Ayassot, da una parte, e DJ Rocca dall’altra si sono incrociati grazie a un contest organizzato da Radio Due. E D’Andrea, con il solo pianoforte, torna così a confrontarsi con sonorità elettriche, dopo la stagione del Perigeo. Sul palco, i tre portano una musica dove gli elementi si compenetrano poco alla volta per rispondersi e per intrecciarsi – sia nella dimensione aperta con cui esordisce il set, sia nella gestione dei temi che punteggiano soprattutto la seconda parte del concerto – in un discorso che mantiene uno sviluppo canonico del filo musicale e conserva i ruoli del gruppo in maniera riconoscibile, con DJ Rocca a sostenere spesso la parte ritmica. Backwords, l’intreccio tra Zanisi e Backwords, è più paritario, più concentrato sulla produzione e sulla manipolazione dei suoni: un ragionamento concreto, capace di usare tanto l’improvvisazione quanto la dimensione “meccanica” per andare al di là, prima, dei generi musicali e, poi, delle convenzioni sonore.


Incroci sonori tra strumenti “tradizionali” e manipolazioni elettroniche del suono sono stati presenti, come già accennato sopra, nell’esibizione di Marcello Giannini e in Le retour a la raison, lo spettacolo multimediale di Teho Teardo. Il compositore e polistrumentista si misura infatti con tre brevi film di Man Ray: colonne sonore composte a distanza di quasi un secolo dalla realizzazione delle pellicole, suonate dal vivo con una strumentazione molto particolare – viola, violino, chitarra elettrica e dispositivi elettronici – per un risultato in un certo senso imprevedibile. La natura stessa dell’opera di Man Ray è una ricerca sulle immagini e non condiziona lo sviluppo delle musiche con una trama stringente, lascia alla scrittura e all’esecuzione i margini per una esplorazione ulteriore che tenga conto del percorso compiuto dall’arte visiva e dalla musica nel corso di questo secolo. Un percorso completato nel finale del concerto realizzato dal trio insieme a una schiera di chitarristi: l’esecuzione di un drammatico crescendo, secondo un disegno lineare – i chitarristi eseguono in pratica un solo accordo con intensità sempre maggiore – che riprende la visione post-moderna, o post-storica se si vuole, del’incontro tra Man Ray e Teho Teardo, a tutti gli effetti una ricerca a posteriori, sin dal titolo. Ritorno alla ragione, ma anche ripensamento di quanto vissuto, raccontato ed espresso nel corso del secolo appena passato.


Se il percorso del festival è rimasto non del tutto compiuto, a causa dell’annullamento di alcuni concerti e dello spostamento di altri dovuto al tempo inclemente, Young Jazz ha dimostrato con la sua undicesima edizione di mantenere salda l’intenzione di esplorare gli incontri tra linguaggi diversi, portando all’interno del suo programma anche nomi ed esperienze difficilmente presenti in altri cartelloni nazionali.



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