Alfredo Ferrario: clarinetto
Paolo Alderighi: piano
Roberto Piccolo: basso
Gianni Cazzola: batteria
Permettetemi una riflessione d’apertura.
Avevo già scritto questo articolo quando è arrivata come un fulmine a ciel sereno (ma temuto. Ah, se temuto…) la notizia della morte del grande Max Roach.
Che c’entra, direte voi, la morte di Roach con la recensione del bel disco di Alfredo Ferrario dedicato all’altro (nostro, italico) grande compianto del jazz, Hengel Gualdi?
C’entra, c’entra. Molto. E spiegherò più avanti il perché.
Galeotta fu un’intervista di non molto tempo fa all’immenso percussionista di Brooklyn (anche se nato nel North Carolina).
Invitato, infatti, ad esprimersi su alcuni grandi del passato (e stilisticamente anche un po’ lontani dal suo mondo, in cui il concetto di ‘black awareness’ era ben più di un efficace motto), il buon Max incominciava a sperticarsi in lodi per il grande Benny Goodman, definendolo come “uno dei musicisti più carichi di swing che abbia mai conosciuto. (…) Dove si trova un altro come Benny Goodman?”.
Goodman, il re dello swing. Il Sultano del Clarinetto. L’idolo del giovane Hengel Gualdi, il più grande clarinettista jazz italiano di tutti i tempi. L’idolo (pure) del giovane Alfredo Ferrario.
In questo CD i due mondi, quello di Goodman (lo swing) e quello di Roach (il be bop) coesistono magicamente (è il caso di dirlo, tra tanta serendipità dei rimandi), grazie alla squadra scelta dal titolare del disco. Ai tamburi siede sua boppità Gianni Cazzola, al contrabbasso il puntuale Roberto Piccolo e al piano un Paolo Alderighi che lascia intendere che certo jazz non è esclusivo territorio di caccia di Mr. Rossano Sportiello.
Indovinate come si chiama il brano d’apertura? Dedicated to Benny, of course.
E qui Ferrario, con la sua sonorità sobria ed il suo fantasioso fraseggio, omaggia alla grande sia Goodman che il compianto maestro di Correggio in un sol colpo. Alderighi con convinto cipiglio mostra di avere interiorizzato Teddy Wilson, Billy Kyle ed il ‘Fatha’ Hines meno barocco, seguito come un’ombra da un Piccolo che sa di Blanton e Callender. Poi Cazzola è memorabile. In un break, parte dal magistero di Krupa ed approda (come se nulla fosse) proprio a Roach, riproponendo il suo ‘single stroke roll’ tra rullante e tom.
Quando veniva registrato questo CD, Roach era ancora vivo. Ne sarebbe stato entusiasta.
Out of nowhere, grande classico, qui viene riproposto con sonorità assai prossime all’Oliver Nelson più sfumato. Tutto in souplesse, swing a profusione ed un Ferrario che con un mood tra Buddy De Franco e Jimmy Giuffre ci ricorda come il clarinetto sia strumento ancora vivo, emozionale e di grande, immortale fascino. Alderighi lo asseconda rendendo viva la lezione di Dodo Marmarosa. Eccezionale.
Gran classe pure in Anouman ed in Nuits de St. Germain des Pres del grande Django Reinhardt. La beffarda e dolente malinconia del grande chitarrista dell’Hot Club de France viene resa con un mood collettivo da brividi: trasognato nel primo e con un feeling fresco e rilassato nel secondo.
Ma tutto il disco è da scoprire. Per esempio in Trois Escales – Capri, col leader che ci restituisce intimismi di un jazz ingiustamente dato per morto (elegante, qui, Alderighi); oppure in Bernie’s Tune dove la lezione del pianoless quartet di Mulligan viene trasfigurata ottimamente dal gruppo ed in Someday You’ll Be Sorry’ dove la melodia di Satchmo scorre languidamente sui binari di una bossanova che omaggia Getz. Incantevole anche la breve solitaria delicatezza di Ninna Gaia.
Trovatevele voi le altre quattro gemme che mostrano in maniera evidente che Alfredo Ferrario è l’erede diretto del magistero del grande Hengel (ma anche di Tomelleri, Longhi e Sanjust), che Alderighi e Piccolo sono realtà vive del jazz italiano, e che Gianni Cazzola si conferma un autentico artista del jazz.
Ha ragione Gianni Basso, perfetto testimonial di questo delizioso cd, quando nelle note del booklet chiama il jazz ‘una forma d’arte molto importante’. Quest’opera ne è una inequivocabile prova.
Unico appunto, per il produttore Piangiarelli. Gualdi era Hengel, non Henghel (con l’acca). Un po’ d’attenzione non guasta. Soprattutto quando si tratta di copertine di dischi di tale spessore artistico.