Sidney Bechet in Svizzera

Foto: la copertina del cofanetto









.
Sidney Bechet in Svizzera


C’è da qualche mese in circolazione un cofanetto (libro illustrato bilingue + quattro cd musicali), dal titolo Sidney Bechet In Switzerland / En Suisses, che dovrebbe fare riflettere l’industria culturale italiana (ma anche discografici, giornalisti, musicologi, ricercatori, intellettuali del nostro Paese) su come si possa lavorare serissimamente attorno a un tema anche ristretto nello spazio e nel tempo, come la presenza di un musicista in un territorio straniero per tenervi concerti in pubblico e alla radio. Sidney Bechet che vive in Francia dal 1949 al 1959 compie in quegli anni undici visite ufficiali documentate da registrazioni live di ottimo livello. La presenza sul suolo elvetico, nel volume, è poi valorizzata, altrettanto copiosamente, da fotografie, locandine, appunti, ritagli di giornale e i commenti di esperti di oggi. Per fare tutto questo è presumibile uno sforzo collettivo immane, reso possibile dalla posizione strategia della Svizzera nell’ambito culturale internazionale: gli “sponsor” dell’operazione, non a caso, come si evince dalla quarta di copertina, sono United Music Foundation, l’UNESCO, la Journée mondiale du patrimoine audiovisuel, la RTS (Radio Televisione Svizzera), la Ville de Lancy, la Ville de Genève, la Repubblica e Cantone di Ginevra e Pozzoli. A livello culturale, la,ricerca è coordinata da David Hadzis, i saggi sono scritti da Fabrice Zammarchi (in collaborazione con Roland Hippenmeyer) con ben tre prefazioni di Daniel Bechet, Bob Wilber, Claude Wolff.


Ora bisogna capire cosa rappresentino il libro e i dischi nella vicenda pubblica e privata del creolo Sidney Bechet, che, nella storia del jazz, resta il maggior clarinettista di New Orleans e di stile hot: un certo punto, però, decide di lasciare gli Stati Uniti e di andare a vivere a Parigi, dove trascorre l’ultimo decennio della sua vita, accolto come un idolo o un maestro, diventando subito il primo esempio, in ordine cronologico, di “American in Europe” in quanto jazzista. Da allora il jazz americano muta radicalmente, aprendo definitivamente la strada a incontri alla pari, senza il complesso di inferiorità di solisti e orchestre del Vecchio Continente nei confronti dei colleghi (soprattutto se di pelle scura) del Nuovo Mondo. In tal senso – come mostra eloquentemente questo quadruplice album – va detto che, negli anni europei, è lo stesso Sidney Bechet a esibirsi quasi esclusivamente con formazioni autoctone, avvantaggiando quindi il locale fenomeno revivalista. Più che insegnare un tipo di jazz che i giovani musicisti francesi conoscono da tempo attraverso i dischi, Sidney Bechet è al loro fianco nel promuovere e condividere e lo spirito di New Orleans attraverso concerti, recital, jam-session, trasmissioni radiofoniche (di cui è composto quasi la metà dell’album).


Dunque da queste occasioni sul vicino territorio svizzero, si può ascoltare un Bechet pimpante che forse dai il meglio di sé proprio dal vivo, quando i vincoli della tecnologia discografica – è di quegli anni il lento passaggio dal 78 al 33 giri da parte dei jazzisti – vengono da lunghe improvvisazioni, davanti a menti più liberi, dall’alternanza dei comprimari in efficacia solo. Tuttavia nel Bechet di questo e degli altri dischi ‘europei’ si ascolta ciò che ai suoi orchestrali francesi sembra precluso a priori: è un feeling impossibile a descrivere a parole, ma avvertibile pelle, o meglio a orecchie: la voce del clarinetto (o del sax soprano) esprime New Orleans e il primo mezzo secolo di storia jazzistica afroamericana soprattutto nei dualismi gioia/dolore, allegria/tristezza tipici del sound primigenio. I pur bravi Pierre Braslawsly, Claude Luter, Les Rhythmes de Radio-Genève, André Réwéliotty, Claude Aubert con le loro orchestrine dixieland o swing posseggono altre voci: il loro jazz, pur congeniale a un leader adattabile a ogni contesto musicale, pare una semplice parafrasi e non può essere altrimenti, giacché Bechet da un lato, Luter e gli altrimdall’alto possono oggettivamente condividere la stessa esperienza per diversità di contesto, di storia, di ragioni etnico-culturali.


I compagni di Bechet in Svizzera però possono, debbono, anzi vogliono però condividere l’esperienza del momento sul palcoscenico o ai microfoni di una radio come in effetti accade nei quaranta brani racchiusi nel cofanetto. Il problema delle differenze identità musicali viene dunque per la prima volta esplicitato da Bechet, ma si ripeterà con tutti gli Americans In Europe almeno sino al free jazz, quando la condizione socio-esperienziale diverrà paritetica. Resta però, quella di Bechet, dal 1949 al 1959 – qui documentata con le tournée del 1949, 1950, 1951, 1953, 1954, 1954, 1958 – una testimonianza profondamente europea: le band francesi e svizzere fanno del loro meglio non solo nell’assecondare l’estro di Bechet, ma anche per garantire (o garantirsi) un avvicinamento all’hot jazz tra filologia e creatività, ripetendo all’infinito (tre-quattro volte nei quattro cd) gli ultra classici di un repertorio volutamente ristretto, per esaltarne la popolarità anche extra-jazzistica, come nel caso di Saint Louis Blues, Muskrat Ramblers, Summertime, Royal Garden Blues, Basin Street Blues, ogni volta uguali e al contempo diversi da sera a sera, come vuole il canone del jazz, che persino nell’austera Confederazione Elvetica trova un’accoglienza calorosissima, preludendo forse a ciò che, rispettivamente venti e trent’anni dopo, saranno Montreux e Ascona, per il jazz popolare e per quello di tradizione…