Mancuso/Suzda Project – Lines

Mancuso/Suzda Project - Lines






Simone Mancuso: percussioni

Jeff Suzda: sassofoni







Conosco Simone Mancuso, mio concittadino e valente percussionista, da molti anni e mi è parso sempre un individuo, una persona che ama avvicinarsi a territori ignoti con umiltà e curiosità allo scopo di dare vita a nuove sfide. Per lui, naturaliter avvezzo a territori assai vicini a Cage, Stockhausen (col quale ha collaborato), Xenakis, Boulez, Kagel e Lygeti, il jazz all’inizio era sempre un oggetto (oscuro) di desideri che aspettavano le giuste ‘fiamme’ per essere accesi. Ricordo ancora nitidamente il suo guardare, con occhio scettico, le mie infatuazioni per Oxley (soprattutto), Favre, Graves, Bennink, Cyrille ed il collettivo M’Boom del grande Roach.


Ma l’uomo propone e Dio dispone.


Dopo alcuni anni in Svizzera, il nostro, per amore (e per lavoro) va a stare a Washington D.C., la città natale di Duke Ellington. E qui Simone si innamora definitivamente del jazz, del suo assoluto valore musicale, delle sue potenzialità espressive e del suo patrimonio comunicativo. È quindi con immenso piacere che accolgo la sua prima prova discografica in questo campo.


È dai tempi di Hastening Westward (A.D. 1995 – Label ECM) di Nils Petter Molvaer e Robin Schulkowsky, rispettivamente trombettista e percussionista, che non ascoltavo qualcosa che coniugando uno strumento melodico alle percussioni (siano esse tuned, che not tuned) provasse ad allargare gli orizzonti espressivi dell’idioma bastardo per eccellenza che, massì, ci ostiniamo ancora a chiamare jazz.


Lines (ecco il titolo), ossia linee, è un viaggio sonoro in cui tali segni sono intesi dagli stessi autori come stili, colori, pensieri, melodie, strutture, direzioni, sequenze e possibilità, nonchè disco assai riuscito, anche grazie al grande lavoro del partner di Simone, Jeff Suzda, sassofonista dell’Illinois anche lui trapiantato nella capitale statunitense, che dimostra che il jazz contemporaneo continua a sfornare horn player di grande e suggestiva creatività.


Il cd si apre con Metamorphosis, dialogo ieratico, prima a distanza e poi ravvicinato, tra sax alto e vibrafono con una bellissima introduzione-tema che richiama il bop di matrice monkiana. Il riferimento a Dolphy, però, mi sembra alquanto evidente: Mancuso col suo ricordare nel suono il Gary Burton dei dischi ECM e nei fatti il Bobby Hutcherson di Out to Lunch e Suzda che compendia ricerca e soulfulness come Julius Hemphill ha sempre fatto.


Segue Lines, in cui il solitario baritono di Jeff coniugando Pepper Adams e John Surman ci regala un canto evocativo di sognante bellezza, adagiandosi sul tappeto aleatorio delle percussioni di Mancuso, prima di lanciarsi in sprazzi solistici di intenso vigore.


To D.H. è un palesissimo omaggio a Dave Holland ed al suo (immenso) mondo sonoro. Che dire? Rarefazione e concretezza si congiungono deliziosamente in un abbraccio in cui i richiami a Steve Nelson e Chris Potter (e Steve Coleman), sono rielaborati esibendo un certo carattere nella prassi interpretativa.


Il Baritono di Jeff, poeticamente meditativo, apre Haiku 3, dove crepitacoli di legno e di metallo, un vibrafono diafano ed i fragori di un gong perentorio, fanno da sfondo all’evocazione di quegli omonimi componimenti poetici giapponesi di 17 sillabe (distribuite in 3 gruppi di 5, 7 e 5): Suzda mostra eguale lirismo in cui coesistono ascesi e humour.


Six impressions, sembra uscito da un sogno più patafisico che surreale. Il patrimonio di Lee Konitz e Milt Jackson, tramite un lavoro di cesello da parte del duo, incontra la filosofia di Alfred Jarry.


Gran lavoro di Suzda in Cassiopeia, dove i suoi stridenti armonici del baritono cercano responso dai fittizi scricchi e fruscii di Mancuso.


Terminano un disco sapido e complesso due composizioni di Simone: One in Greenland (to Yng-Gwei Chen) e Journeys (scritta a quattro mani con Jeff).


Nella prima il vibrafono crea una cristallina atmosfera misterica, avviluppando in una delicatissima vaporosità melodica un soprano che ricorda sia quello di Paul McCandless che quello di Garbarek, ma di quest’ultimo è assente certa asperità struggente. Nella seconda il baritono disegna un itinerario di solitario canto tra gong, metallofoni e crepitacoli di legno che ne accompagnano l’intenso eloquio strumentale. Battiti apparentemente aleatori tracciano di ancestralità mediterranea nuovi percorsi per un soprano dal vagabondare narrativo fino all’improvviso finale singulto.


Per richiedere il cd visitare i siti www.simonemancuso.com e www.jeffsuzda.com.