Yara Beilinson: la musica come “fatto naturale”

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Yara Beilinson: la musica come “fatto naturale”

Intervista esclusiva, in occasione della prima data italiana al Teatro Civico di Vercelli



La prima nazionale assoluta di Yara Beilinson rappresenta una ghiottissima occasione per tutti gli amanti del jazz di poter ascoltare una delle voci più interessanti della nuova scena brasiliana. Si tratta di una cantante/chitarista/compositrice che in concerto ama esibirsi soprattutto nel duo voce/pianoforte (con il catalano José Luis Guart ad accompagnarla), puntando all’essenzialità sonora pur mantenendo intatti gli equilibri della grande tradizione carioca, bahiana, paulista, con brio, dolcezza, ritmo, sensualità. Yara da Rio de Janeiro (con radici argentine) offre un repertorio colto e popolare al tempo stesso, pescando fra standard jazz, brani propri, motivi verde-oro di Guinga, Roberto Manescal, Chico Buarque de Hollanda, rivelandosi brazilian jazz singer di prim’ordine.



Jazz Convention: Yara, come nasci musicista? Raccontaci qualcosa dei tuoi inizi…


Yara Beilinson: Sono cresciuta in una famiglia in cui c’erano molti artisti e vigeva una particolare sensibilità per l’arte. Mia madre è una scultrice e, a grazie a lei, già da molto giovane mi sono avvicinata al mondo della danza, delle arti visive del teatro e naturalmente, della musica sia dal punto di vista formale (frequentando lezioni serie) sia da quello informale dal lato della sperimentazione e dell’improvvisazione; e casa mia era costantemente un luogo da dove molte persone passavano, sempre aperto ai viaggiatori di tutto il mondo che vogliono condividere arte e musica e spesso c’erano jam sessions armate dove tutti partecipavano.



JC: Figlia d’arte quindi?


YB: Fare musica, suonare e comporre era molto naturale e parte della nostra quotidianità. Potrei dire che anche era un gioco per noi. Sono cresciuta senza un televisore in casa mia e la cosa aiuta molto a sviluppare l’immaginazione. Il fatto di aver preso lezioni da piccola da Pepa Vivanco, mi ha aiutato a concepire la musica come un qualcosa di molto naturale e molto genuino.



JC: Quando ti sei avvicinata al jazz?


YB: Avevo circa 15 o 16 anni. Studiavo al sindacato argentino dei musicisti (SADEM) e a suo tempo avevo anche preso lezioni di canto con Iris Guiñazu, che mi ha dato molto sotto l’aspetto umano e musicale e per come sono io insegnante oggi già da quasi vent’anni. A quel tempo, mi piaceva cantare lo spiritual, il blues e il jazz e miei idoli erano Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald, Carmen McRae, Cleo Laine, Diane Schuur, Louis Armstrong, Miles Davis tra gli altri.



JC: E per quanto riguarda la bossa nova?


YB: Mi piaceva la musica del Brasile, ma non avevo nemmeno mai pensato avventurarmi in questo genere fino a quando tre musicisti (e cari amici), Kubero, Binho y Broder, hanno chiesto di cantare un paio di canzoni con loro ogni mercoledì nella sala “Maluco Beleza” di Buenos Aires, che ha finito per essere un luogo di incontro leggendario per i brasiliani e per quelli con la passione per la cultura brasiliana.



JC: È da lì che hai spiccato il volo?


YB: Era uno di quei Mercoledì a “Maluco Beleza” quando sono apparsi. per quelle coincidenze fortuite della vita, tutti i musicisti e il team manager di Wynton Marsalis, che era venuto a suonare al teatro Gran Rex e che quindi ho avuto il grande piacere di conoscere. Fu lì che Wynton mi sentì cantare e fece bellissimi commenti dandomi il necessario incoraggiamento a continuare con la musica. Da allora in poi, ho continuato gli studi, cantando professionalmente in vari posti sia in America sia in Europa.



JC: E da allora a oggi come sei evoluta musicalmente?


YB: Man mano che cresciamo, purtroppo accumuliamo paura e pregiudizi e le parole “buono” e “cattivo” possono essere molto pericolose, perché possono limitare la nostra creatività (e non solo nell’arte, ma in tutti i settori della vita). Credo che uno dei lavori più duri, per un artista, sia trovare il giusto equilibrio tra la libertà e la ragione. La tecnica è razionale e dovrebbe servire come strumento per avere una migliore possibilità di esprimersi liberamente.



JC: Quindi anche tu Yara sei tra chi sostiene il primato o almeno l’importanza della tecnica nello studio del jazz?


YB: Sai, quando i miei studenti mi dicono cose come “Non so se possa servire la tecnica, perché ho già una voce abbastanza bella” la mia risposta è che ciò che conta non è questo, ma il modo di essere il più sincero possibile come persona e di lavorare abbastanza per trasmettere ciò che voglio esprimere e condividere con quelli che ascoltano. Questo è un principio che cerco di ricordare a me stesso sempre e comunque.



JC: Sei stata di recente in Messico per la primna volta, che te ne sembra?


YB: Il Messico è un paese vasto e meraviglioso; purtroppo la mia tournée è stata molto veloce. Vorrei tornare con più tempo e conoscere bene la cultura dei messicani Teotihuacan è sensazionale, i tramonti sull’Oceano Pacifico, con le sue acque calde. sono incredibili, il cibo è delizioso, penetranti e bellissimi gli sguardi che hanno attraversato le donne anziane; i loro occhi che mi han preso e non ho potuto smettere di guardare loro; e mi hanno commosso gli indios che vendevano street food e artigianato immersi nei loro abiti di lana coloratissimi, a sostenere la loro cultura sotto i 30 gradi di temperatura e un e sole cocente. La città di Guanajuato è bella e ogni anno lì si tiene il Festival Internacional Cervantino, che mi piacerebbe frequentare non solo da spettatrice, ma per offrire la mia musica.



JC: Cambiando argomento, quali sono i migliori dischi jazz che hai ascoltato nella tua vita?


YB: Beh, non oso pronunciare la parola ‘migliore’, perché non mi piace dire “migliore” o “peggiore”, ma posso citare alcuni dischi che ho amato e che ho sentito più volte : senza un ordine preciso Affinity di Toots Thelemans e Bill Evans, Leucocyte di E.S.T, Doo Bop di Miles Davis, First Instrument di Rachelle Ferrer, The garden of the blues di Shirley Horn, Play blue note de Bobby Mc Ferrin e Chick Corea.



JC: Ma per te Yara cos’è il jazz?


YB: Il Jazz è una forma espressiva. Un musicista jazz è qualcuno aperto all’improvvisazione, al rischio, a comunicare con altri musicisti, sensibili a ciò che si suona intorno a loro, disposti a condividere e aperti a una ricerca costante.



JC: Tu applichi questa poetica ai tuoi concerti?


YB: Quando vado in scena il mio più grande desiderio è quello di avere una perfetta comunione tra i musicisti che condividono quel momento in modo da poter creare la magia e trasmettere al pubblico per toccare a un certo punto la loro sensibilità. La mia gioia più grande è che questo accada e amo condividerlo con le persone che ci ascoltano; è essenziale poter creare una connessione tra pubblico, musicisti e la musica dove tutti sono aperti a dare e ricevere. Con atteggiamento di presa e di resa. Quando questo accade, è una bellissima sensazione. Un musicista di jazz è un musicista in cerca di abbandonarsi come necessità per improvvisare. Il jazz è una musica dal vivo dove la libertà prevale.



JC: Tu vivi da tempo a Barcellona, com’è la situazione oggi a livello musicale?


YB: Dipende da che tipo di musica vogliamo parlare… Non ci sono grandi festival come il Sonar e il Primavera Sound che hanno molto successo per l’ascolto di musica elettronica per esempio. Ora, se si parla di Jazz o World Music tutto diventa più complicato. I principali festival come il Grec, sono quasi inaccessibili per poter partecipare. I comuni, che prima della crisi organizzavano festival con ingresso gratuito al pubblico, non sono più finanziati. L’aumento dell’IVA non facilita l’acquisto del biglietto. Molte società di management che si occupano assai meno di musica commerciale, privilegiando la qualità come Jazz e World Music, vivono come possono, se non hanno ancora chiuso. I localini sperano sempre che il musicista abbia un seguito di fan irriducibili e amici dediti alcool sempre pronti a pagare l’ingresso e consumare molte bevande per essere un lavoro redditizio (nel caso ipotetico che siano disposti a pagare i musicisti per il loro lavoro). E quasi quasi non esistono più spazi pubblici dove programmare musica e pagare con dignità gli artisti.



JC: Ma a livello di jazz club? Una volta Barcellona era tra le più attive in Europa…


YB: Le poche situazioni come i jazz club che oggi vogliono programmare buona musica, non hanno vita facile perché il permesso per avere la musica dal vivo, deve soddisfare un sacco di requisiti che non sono a portata di mano. Se confronto la situazione di oggi con quella di cinque anni fa, le occasioni per cantare e suonare sono diminuite molto.



JC: Ma c’è unione o solidarietà fra i jazzisti?


YB: Purtroppo non vi è un’unione di musicisti per regolare i prezzi, il che significa che in qualsiasi lavoro si sa che cosa il salario minimo e come si deve rispettarlo; nella professione della musica dovrebbe essere uguale, ma purtroppo il musicista è il primo a non seguire il buon esempio e in tal modo mettere a repentaglio l’intero settore. Ma, nonostante tutte queste cose che sto dicendo, ci sono molti musicisti e studenti di musica che studiano, anche nel jazz, per rendere tali sacrifici la loro professione di domani.



JC: Quindi, Yara, puoi dirmi che anche a Barcellona esistono giovani jazzmen interessanti?


YB: Certo che si! Ci sono tantissimi giovani musicisti con una formazione molto buona e talvolta anche senza di essa hanno molto da dire e da dare e, c’è da auspicare che gli si creino dei posti per farsi conoscere; di recente in un parco mi bloccai ad ascoltare un ragazzo durante le prove delle sue canzoni ed è stata una bella sorpresa, mi è parso di grande talento; altri giorni a piedi anche per le strade di Barcellona è pieno di musicisti di valore che meriterebbero maggiori attenzioni.