Zaffiro con Perle Scaramazze: Uri Caine Ensemble plays Gershwin

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Zaffiro con Perle Scaramazze: Uri Caine Ensemble plays Gershwin

Stresa Festival: Midsummer Jazz Concerts, Stresa – 23.7.2015



Uri Caine: pianoforte

Joyce Hammann: violino

Mark Helias: contrabbasso

Jim Black: batteria

Ralph Alessi: tromba

Chris Speed: sassofoni

Theo Bleckmann: voce

Barbara Walker: voce

Quando si va ad ascoltare Uri Caine è indispensabile mettersi sulla stessa lunghezza d’onda, sonora, e dare libero sfogo alla fantasia, senza limiti; anche a parole.


Il far ricorso alla similitudine, forse, meglio spiega il titolo che, per i presenti a Stresa al concerto di giovedi 23 luglio, non penso possa risultare poi così enigmatico. Invece, per chi non c’era – che peccato – si rende necessario essere più chiari.


Per coloro che conoscono il Lungolago La Palazzola è chiaro che la cornice naturale, appartata e discreta rispetto all’ambiente cittadino, gioca un ruolo indubbiamente fascinoso. E, seppure all’aperto, con le tecniche moderne e raffinate il suono di certo non viene penalizzato: amplificazione bilanciata, al limite della perfezione. Affatto disturbante, grazie alla sua discrezione, l’aggirarsi sottopalco dell’immancabile, e sempre grande, Roberto Cifarelli, unico documentatore di immagini, da tramandare ai posteri. E, per un concerto di jazz, è un segno di distinzione, secondo me.


Il palco è allestito con idonee postazioni per un ensemble di certo non numeroso; Uri, al pianoforte, sarà a sinistra, poi a seguire, verso il fondo, il contrabbasso di Mark Helias e la batteria di Jim Black, in costante possibilità di contatto visivo con il leader. In front line, Joyce Hammann al violino, quindi Ralph Alessi, alla tromba ed infine Chris Speed, unico con cappellino; suonerà clarinetto e sassofono tenore.


Questa essenziale formazione, un sestetto e non altro, sta per eseguire una delle più moderne esecuzioni, efficace, fantasiosa, ricchissima di sfumature sonore, con ampi richiami e rimandi all’intera opera gershwiniana, e non solo, di quel gioiello sfarzoso che porta il titolo di Rhapsosy In Blue. Da qui il richiamo al blu profondo e luminoso di una pietra preziosa come lo zaffiro.


Musicalmente ho già ascoltato altre versioni, registrate dal vivo dall’Ensemble di Caine, in altre circostanze; stasera l’ascolto dal vivo è però autenticamente “live”, nel senso dell’immediatezza dell’accadere. Lo considero, sotto il profilo strettamente artistico, un arricchimento impagabile.


Forse le luci di palco non caratterizzano al meglio l’atmosfera; trovarmi in seconda fila potrebbe considerarsi limitatezza, dovuta alla prossimità, per quel che riguarda la visione del colore d’insieme. E’ solo un’impressione la mia, da considerarsi quindi non una manchevolezza da parte degli addetti alle luci. E poi è una parte altrettanto mutevole, come lo sarà la musica in questa serena atmosfera estiva lacustre.


L’ingresso rapido dei sei musicisti riconduce al palco il mio sguardo che, rivolto a destra, stava traducendosi in una considerazione mentale spazio – temporale. La placida superficie liquida del lago, in cui si riflettono le luci dell’Isola Bella, in primo piano, e la piatta linea continua delle luci di Verbania in lontananza, è in contrasto netto con un’immaginaria sky line metropolitana, tale già nel passato, come era New York novant’anni fa, quando Gershwin ideava e componeva questo suo gioiello, il più conosciuto ed apprezzato forse.


Come Uri appoggia le mani sulla tastiera del pianoforte, subito evoca un brontolio sonoro indistinto cui fa seguito, quasi in sincrono, una libera quanto brevissima espressione di tutti gli altri strumenti. Siamo subito in grado di comprendere che la rilettura che egli fa della celebre rapsodia gershwiniana è quanto di più lontano si possa immaginare dalla esecuzione per pianoforte solo da parte del compositore, o da quella per pianoforte ed orchestra di un Leonard Bernstein: per citare quelle meno recenti. Mentre, nel contemporaneo, il pensiero corre a Chailly e Bollani.


Questo approccio, caratteristico e fondamentale, mette il pianoforte in prima fila rispetto al celeberrimo e inconfondibile lamento del clarinetto, icona indiscussa del suono jazz anni venti. Ci pensa Chris Speed a renderlo evidente più tardi, ma forse in modo più pacato, meno crudo e lancinante, mentre tromba e violino concertano sul sostegno armonico del trio di base. Occorre a questo punto liberare la nostra mente dal ricordo, se ancora ci fossero lontane reminiscenze di altre esecuzioni, per potersi concentrare sulla musica, grande, che sta accadendo. E’ indispensabile per godere della poesia che Caine and Friends stanno distillando sui rispettivi strumenti.


Una musica che richiede grande attenzione, concentrazione, pur sapendo generare, da sola, sensazioni di non facile descrittività a parole; musica per tutti i sensi.


Si rimane come incatenati, avvinti da sonorità, a volte soavi, a volte contrastanti, come ormai siamo avvezzi ad ascoltare nell’ambiente contemporaneo in cui viviamo, sommersi da contraddizioni più che immersi nell’armonia. Questi sono dei grandi musicisti che, con linguaggio proprio e pertinente, sanno farci condividere le loro sensazioni. Il loro discorso espressivo, sicuramente indirizzato dal leader, ma non scevro da spazi improvvisativi, mantiene alta la tensione. Ci si rende conto di star assistendo ad una esecuzione superba, non convenzionale, intendendo il termine come re-interpretazione dello spartito originale: non in senso deteriore quindi.


L’applauso finale, è liberatorio, non fragoroso ma partecipe, da parte del numeroso pubblico che esaurisce i posti disponibili, con alcuni in piedi sotto gli alberi, e non solo per l’irrinunciabile sigaretta lontano dagli altri che potrebbero averne disturbo.


In aggiunta al sestetto, a questo punto, fanno il loro ingresso le due “voci”, Barbara Walker e Theo Bleckmann, per completare il concerto con altre arie tematiche, più o meno conosciute che, nella sua purtroppo breve vita, il genio di Gerschwin ha avuto modo di lasciarci. Di variabile grandezza è ovvio: e non sono solo identificabili nella semplice, ma non meno valida, linearità melodica, unita però a corposità armonica in questo caso, che distingueva l’immenso patrimonio musicale di Tin Pan Alley, di cui anch’egli fece parte, ricordiamolo. Il programma si dipana in una decina di brani, ne citerò come titolo solo un paio – But Not for Me e Someone To Watch Over Me – contraddistinti da una varietà indescrivibile di linguaggi espressivi, solistici, in duo, vocali e strumentali, con interventi fantasiosi, ricchi di verve e di ironia, bilanciati negli spazi sonori coperti da parte di ciascuno dei componenti. Frutto tutto questo di arte interpretativa autentica, ottimamente preparata e ben condotta.


La statura, artistica ovviamente, di ciascun musicista si sta manifestando attraverso la loro individualità al servizio del suono d’insieme. Quindi Ensemble è un termine coerente: di più non si potrebbe per definire una tale formazione strumentale, con necessità di voci. Barbara e Theo hanno caratteristiche distanti, sia timbriche che di linguaggio; in molti passaggi hanno saputo fonderle in momenti imperdibili.


Un commento di una gentile signora, al riguardo di Theo – della sua voce – che forse suggella il tutto: nella sua ugola quell’uomo ha un’intera orchestra.


Quanto a Barbara, nel bis concesso, ha espresso la sua classe in un’interpretazione superba di Summertime, un tantino slegata forse dal contesto dell’atmosfera che permea il melodramma gershwiniano. Ma la sua espressione gioiosa e carica di swing era in carattere con l’atmosfera generale di questa serata e, pertanto, appropriata.


Per questo in apertura ho parlato di perle scaramazze. Questa similitudine, penso, rifletta in pieno la bellezza dei pezzi eseguiti. Autentici gioielli, con solitario.


Quindi sinfonismo e canzone gershwiniana ma, se si eccettua il brano di bis, nulla che attenga al melodramma: a Porgy and Bess per chiarire. Forse Uri Caine, in un prossimo futuro, si cimenterà ancora su George Gershwin: su quello che possiamo considerare un risvolto non pienamente riconosciuto. Immeritatamente e senza motivo.


Se lo ha fatto in passato per Verdi, sulla sindrome di Otello, figuriamoci se non lo farà per Gershwin, con il quale Uri ha tanto in comune, visitando la celebre American Folk Opera.