Lady Gaga & Tony Bennett @ Umbria Jazz 2015

Foto: cortesemente offerta dall’Ufficio Stampa di Umbria Jazz










Lady Gaga & Tony Bennett @ Umbria Jazz 2015

Perugia, Arena Santa Giuliana – 15.7.2015


Senza dubbio quello di Lady Gaga e Tony Bennett è stato il concerto più discusso di questa 41esima edizione dell’Umbria Jazz Festival: prima data annunciata di tutta la rassegna nonché unica tappa italiana per il duo, ha registrato il sold out con mesi di anticipo e una presenza di pubblico forse mai vista. L’Arena Santa Giuliana di Perugia, suggestivo scenario per i grandi concerti dell’Umbria Jazz, ha accolto circa cinquemila persone (di cui gran parte non certo affezionate al festival). La stella del pop e il crooner americano hanno così indirizzato le scelte artistiche verso un successo assicurato in quanto ai numeri, lasciando però gli appassionati seguaci del festival con l’amaro in bocca.


Le discussioni iniziano infatti già in merito alla scelta della direzione artistica: «ma cosa centra Lady Gaga con il jazz?» Ai puristi della tradizione, che da anni criticano scelte troppo “azzardate” per il cartellone di Umbria Jazz, va detto ad onor del vero che un’apertura a favore di novità musicali non strettamente jazzistiche non può che far guadagnare credito presso il pubblico dei più giovani. Inoltre questo sodalizio musicale anche se nasce da un chiaro pretesto economico-mediatico – da una parte rinverdire il novantenne Tony Bennett ormai sul viale del tramonto, dall’altra nobilitare il fenomeno mediatico della Germanotta che si porta dietro il sentore di essere solo fumo e niente arrosto – potrebbe significare un’ulteriore diffusione del repertorio degli standard tra i meno avvezzi. Mettendo da parte i pregiudizi è quindi il caso di ascoltare il concerto.


Ascoltare già di per sé non è facile perché il variegato pubblico dei fan di Lady Gaga è in visibilio ogni volta che lei compare, e considerando che la star passa più tempo dietro le quinte a cambiarsi piuttosto che sul palco (7abiti diversi per un’ora e mezza di spettacolo), ogni sua apparizione o parola è seguita da un boato di grida di estasi. La star, anche se in veste più sobria rispetto ai suoi soliti show, non rinuncia ad abiti eccentrici (tanto che l’attesa delle sue apparizioni si tramuta in «chissà cosa indosserà» piuttosto che in «chissà cosa canterà»), raggiungendo il più alto livello di bassezza quando in Nature Boy, durante l’assolo del chitarrista, lei si volta e con nonchalance mostra il “lato B” in tutta la sua nudità (pubblico in estasi). A questo punto i dubbi sul valore musicale del concerto forse sono concessi.


Tralasciando lo show, è quindi il caso di spendere due parole sulla musica. Innanzitutto sul povero Tony Bennett, del quale emerge una gran professionalità acquisita in 60 anni di onorata carriera, ma che onestamente non fa una gran figura in questa occasione: la scena ricorda più che altro un vecchio marpione che ringalluzzisce nel vedere questa ragazzotta intraprendente ballargli davanti mezza nuda. Inoltre la voce non lo sorregge più e non lo aiuta a dare una versione personale dei brani scelti. La scelta dei brani appunto, è una carrellata impressionante di standard della durata media di due minuti (niente assoli): via uno avanti il prossimo, con arrangiamenti impeccabili ma totalmente impersonali, senza un approfondimento che ne evidenzi le particolarità, e il risultato è che appaiono tutti uguali. Insomma musica jazz in perfetta chiave pop. I brani in duo sono anche relativamente pochi, i due artisti principalmente si alternano sul palco, come due mondi musicali che sono inconciliabili nonostante gli sforzi. Lui, tra i tanti, sceglie I left my heart in San Francisco, Watch what happens, Smile, lei invece La vie en rose, Bang bang (my baby shot me down), Bewitched, bothered and bewildered («Vi starete chiedendo cosa ci faccia io qui a cantare jazz! Vi sentirete un po’ stregati, infastiditi e disorientati…»). Un’ulteriore delusione è però senza dubbio la vocalità di Gaga, che fin dal primo brano sforza la voce (sembra quasi che le tonalità scelte non siano comode per lei), si concede qualche indiscutibile “stecca” e in generale risulta di una piattezza interpretativa imbarazzante. Di assoli ovviamente manco a parlarne.


Per il gran finale dello show scelgono It don’t mean a thing (if it ain’t got that swing), unico brano in cui viene concesso più spazio ai solisti sul finale per permettere alle star di scappar via sulla limousine col motore acceso senza essere troppo infastiditi dal pubblico in delirio. Niente bis.


Insomma si, sono standard, ma sarà poi jazz questo? Forse i pregiudizi avevano qualche fondamento.



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