Pericopes + 1: la musica di questi esseri umani

Foto: da internet










Pericopes + 1: la musica di questi esseri umani


Pericopes, il duo formato di Alessandro Sgobbio ed Emiliano Vernizzi non è più un’eccellenza della sola scena jazzistica italiana. I due strumentisti, per scelte musicali ed esperienze biografiche navigano oramai in acque internazionali. Alessandro vive da anni a Parigi, dove insegna e sta facendosi largo nell’ambiente. Emiliano ha girato a lungo il vecchio continente con un gruppo composto di musicisti statunitensi ed europei – un gruppo che suona gipsy-jazz e molto altro – ma ha anche vissuto per periodi relativamente lunghi a New York.


Ora stanno per cominciare, dopo un lungo soggiorno estivo nella Grande Mela, un lungo tour che porterà il loro nuovo disco in molte piazze europee e italiane. These Human Beings vede la presenza di un batterista americano, Nick Wight, che ha suonato a lungo con Vernizzi nel gruppo multinazionale prima citato?


Pericopes sta mutando pelle? La formula del duo è diventata stretta per le ambizioni di Alessandro ed Emiliano?


«Non direi – risponde quest’ultimo. È che ognuno di noi due sta facendo esperienze diverse. Viviamo anche in città fra loro molto lontane. Nella musica del duo abbiamo cercato di far sentire le nostre radici: gli studi al Conservatorio di Parma sotto la guida di musicisti mentalmente molto aperti, a cominciare da Roberto Bonati, l’amore per il jazz della grande tradizione degli anni 50 e 60, la nostra fascinazione per i musicisti del grande nord e per il suono ECM in particolare, una certa propensione ad un abbandono melodico che diventa “racconto”. Tutto questo non è superato, non possiamo né vogliamo scrollarcelo di dosso. Ma, allo stesso tempo, sentiamo che intorno a noi crescono e risuonano altre musiche che ci interessano. Crediamo ancora molto in Pericopes, non a caso il disco è uscito a nome di Pericopes+ 1 ma non può diventare un progetto cristallizzato. Non è nel nostro modo di pensare.»


«Io adoro Bobo Stenson – aggiunge Alessandro Sgobbio – ho studiato con Misha Alperin, ho lavorato sulle musiche popolari delle valli piemontesi, dove da secoli vivono i miei correligionari valdesi. Ho anche ascoltato molta musica contemporanea. Il rock, il nu jazz, non fanno parte dei miei studi, ma come tutti, li ho ascoltati ovunque, fanno parte del mio vissuto. Quando abbiamo pensato di suonare con Nick sentivamo il bisogno di confrontarci, come duo, con linguaggi per noi un po’ inusuali. Emiliano ha familiarità con certe sonorità. Ha suonato a lungo con Nick. Ma erano i Pericopes, che dovevano scendere su nuovi terreni.»


«In ogni caso – dice il sassofonista – non è nato a tavolino. Ci siamo trovati a suonare con Nick a Parigi e piano piano abbiamo capito che avevamo qualcosa di buono da costruire assieme, che insieme potevamo allargare i nostri orizzonti. D’altronde non ci sono certo molti trii senza basso e questo ci dava la possibilità di sperimentare. Potrebbe capitare lo stesso se incontrassimo un altro strumentista con il quale riuscissimo a ricreare la stessa sintonia. Ci piacerebbe ad esempio lavorare insieme a un/una cantante, ma non è detto che lo faremo. I progetti nascono sul palco, dal vivo, dal confronto di suoni e idee. Se non trovi le persone giuste le idee non camminano molto.»


Avete inciso il disco a New York nel 2014 e vi siete tornati quest’estate. Avete avuto quindi modo di vedere e sentire, quello che accade sulla scena musicale della Big Apple, da sempre un incrocio affollato fra tradizione e avanguardia, fra mainstream e ricerca. Nei giorni scorsi si è riaccesa in Italia la discussione, sempre acre e talvolta sopra le righe, fra i sostenitori delle due “scuole” . Come viene vissuto questo “conflitto”, oltreoceano?


«In tutta sincerità – risponde Emiliano – devo dire che, a nostro modo di vedere, ne abbiamo parlato spesso, la scena del jazz italiano, ma anche di quello europeo anche se in misura minore, è un po’ viziata da un eccesso di ideologia, da una tendenza a schierarsi da una parte o dall’altra che ci pare eccessiva. Si parla troppo per formule, dalle nostre parti. A noi è sembrato che a New York invece, domini una straordinaria apertura mentale, una grande libertà di giudizio. Esistono decine di club nei quali i musicisti lavorano sulle proposte più disparate. Ne abbiamo visitati molti durante il nostro secondo soggiorno (il primo è stato interamente dedicato all’incisione e a un successivo tour): abbiamo trovato un pubblico attento, curioso, privo di pregiudizi.»


«Abbiamo suonato in diversi locali. Alla fine c’era sempre qualcuno che veniva a porre domande, a chiedere chiarimenti. E questo abbiamo visto che accade dappertutto, sia nei locali dedicati al jazz mainstream sia a quelli dove si pratica l’avant-garde. Nessuno ci ha mai contestato che il nostro non fosse jazz autentico.»


«Ci sono state persone di una certa età, magari abituate a un jazz più “tradizionale” che hanno comprato il nostro disco complimentandosi per la nostra scelta di un trio così insolito.»


«Non è solo questo – aggiunge Alessandro. Molti continuano a chiedersi se il jazz americano abbia ancora forza di proporre nuove strade. Secondo noi sì. A New York si ascoltano continuamente musicisti che guardano avanti. Anche la scena cosiddetta mainstream ci è parsa tutt’altro che ingessata. Quella città e immersa in un flusso continuo di cambiamento. Vi si respira la musica libera, viva, quella che cambia quasi giorno dopo giorno; le baruffe ideologiche appaiono distanti.»


«Parigi, la città nella quale vivo, non è certo provinciale o chiusa. Ma la Big Apple offre molto di più. È ancora il centro della vita musicale del pianeta.»


Come breve conclusione di questa intervista occorre dire che il risultato finale è perfettamente in linea con le intenzioni degli autori: These Human Beings, pubblicato da AlfaProjectsè un disco molto originale e, allo stesso tempo, ricco di emozione. Come scrive Enrico Rava nelle note di copertina «c’è l’avventura, la ricerca ma c’è anche il cuore. C’è rabbia e amore. C’è l’urlo ma anche il canto.»

articolo 1 – buttafuoco

Foto: da internet










Pericopes + 1: la musica di questi esseri umani


Pericopes, il duo formato di Alessandro Sgobbio ed Emiliano Vernizzi non è più un’eccellenza della sola scena jazzistica italiana. I due strumentisti, per scelte musicali ed esperienze biografiche navigano oramai in acque internazionali. Alessandro vive da anni a Parigi, dove insegna e sta facendosi largo nell’ambiente. Emiliano ha girato a lungo il vecchio continente con un gruppo composto di musicisti statunitensi ed europei – un gruppo che suona gipsy-jazz e molto altro – ma ha anche vissuto per periodi relativamente lunghi a New York.


Ora stanno per cominciare, dopo un lungo soggiorno estivo nella Grande Mela, un lungo tour che porterà il loro nuovo disco in molte piazze europee e italiane. These Human Beings vede la presenza di un batterista americano, Nick Wight, che ha suonato a lungo con Vernizzi nel gruppo multinazionale prima citato?


Pericopes sta mutando pelle? La formula del duo è diventata stretta per le ambizioni di Alessandro ed Emiliano?


«Non direi – risponde quest’ultimo. È che ognuno di noi due sta facendo esperienze diverse. Viviamo anche in città fra loro molto lontane. Nella musica del duo abbiamo cercato di far sentire le nostre radici: gli studi al Conservatorio di Parma sotto la guida di musicisti mentalmente molto aperti, a cominciare da Roberto Bonati, l’amore per il jazz della grande tradizione degli anni 50 e 60, la nostra fascinazione per i musicisti del grande nord e per il suono ECM in particolare, una certa propensione ad un abbandono melodico che diventa “racconto”. Tutto questo non è superato, non possiamo né vogliamo scrollarcelo di dosso. Ma, allo stesso tempo, sentiamo che intorno a noi crescono e risuonano altre musiche che ci interessano. Crediamo ancora molto in Pericopes, non a caso il disco è uscito a nome di Pericopes+ 1 ma non può diventare un progetto cristallizzato. Non è nel nostro modo di pensare.»


«Io adoro Bobo Stenson – aggiunge Alessandro Sgobbio – ho studiato con Misha Alperin, ho lavorato sulle musiche popolari delle valli piemontesi, dove da secoli vivono i miei correligionari valdesi. Ho anche ascoltato molta musica contemporanea. Il rock, il nu jazz, non fanno parte dei miei studi, ma come tutti, li ho ascoltati ovunque, fanno parte del mio vissuto. Quando abbiamo pensato di suonare con Nick sentivamo il bisogno di confrontarci, come duo, con linguaggi per noi un po’ inusuali. Emiliano ha familiarità con certe sonorità. Ha suonato a lungo con Nick. Ma erano i Pericopes, che dovevano scendere su nuovi terreni.»


«In ogni caso – dice il sassofonista – non è nato a tavolino. Ci siamo trovati a suonare con Nick a Parigi e piano piano abbiamo capito che avevamo qualcosa di buono da costruire assieme, che insieme potevamo allargare i nostri orizzonti. D’altronde non ci sono certo molti trii senza basso e questo ci dava la possibilità di sperimentare. Potrebbe capitare lo stesso se incontrassimo un altro strumentista con il quale riuscissimo a ricreare la stessa sintonia. Ci piacerebbe ad esempio lavorare insieme a un/una cantante, ma non è detto che lo faremo. I progetti nascono sul palco, dal vivo, dal confronto di suoni e idee. Se non trovi le persone giuste le idee non camminano molto.»


Avete inciso il disco a New York nel 2014 e vi siete tornati quest’estate. Avete avuto quindi modo di vedere e sentire, quello che accade sulla scena musicale della Big Apple, da sempre un incrocio affollato fra tradizione e avanguardia, fra mainstream e ricerca. Nei giorni scorsi si è riaccesa in Italia la discussione, sempre acre e talvolta sopra le righe, fra i sostenitori delle due “scuole” . Come viene vissuto questo “conflitto”, oltreoceano?


«In tutta sincerità – risponde Emiliano – devo dire che, a nostro modo di vedere, ne abbiamo parlato spesso, la scena del jazz italiano, ma anche di quello europeo anche se in misura minore, è un po’ viziata da un eccesso di ideologia, da una tendenza a schierarsi da una parte o dall’altra che ci pare eccessiva. Si parla troppo per formule, dalle nostre parti. A noi è sembrato che a New York invece, domini una straordinaria apertura mentale, una grande libertà di giudizio. Esistono decine di club nei quali i musicisti lavorano sulle proposte più disparate. Ne abbiamo visitati molti durante il nostro secondo soggiorno (il primo è stato interamente dedicato all’incisione e a un successivo tour): abbiamo trovato un pubblico attento, curioso, privo di pregiudizi.»


«Abbiamo suonato in diversi locali. Alla fine c’era sempre qualcuno che veniva a porre domande, a chiedere chiarimenti. E questo abbiamo visto che accade dappertutto, sia nei locali dedicati al jazz mainstream sia a quelli dove si pratica l’avant-garde. Nessuno ci ha mai contestato che il nostro non fosse jazz autentico.»


«Ci sono state persone di una certa età, magari abituate a un jazz più “tradizionale” che hanno comprato il nostro disco complimentandosi per la nostra scelta di un trio così insolito.»


«Non è solo questo – aggiunge Alessandro. Molti continuano a chiedersi se il jazz americano abbia ancora forza di proporre nuove strade. Secondo noi sì. A New York si ascoltano continuamente musicisti che guardano avanti. Anche la scena cosiddetta mainstream ci è parsa tutt’altro che ingessata. Quella città e immersa in un flusso continuo di cambiamento. Vi si respira la musica libera, viva, quella che cambia quasi giorno dopo giorno; le baruffe ideologiche appaiono distanti.»


«Parigi, la città nella quale vivo, non è certo provinciale o chiusa. Ma la Big Apple offre molto di più. È ancora il centro della vita musicale del pianeta.»


Come breve conclusione di questa intervista occorre dire che il risultato finale è perfettamente in linea con le intenzioni degli autori: These Human Beings, pubblicato da AlfaProjectsè un disco molto originale e, allo stesso tempo, ricco di emozione. Come scrive Enrico Rava nelle note di copertina «c’è l’avventura, la ricerca ma c’è anche il cuore. C’è rabbia e amore. C’è l’urlo ma anche il canto.»