Foto: Gianmichele Taormina
African Noises: la trentacinquesima edizione del Roccella Jazz Festival
Roccella Jonica – 11/22.8.2015
Nel titolo e nella complessa idea di festival concepita da Vincenzo Staiano e Paola Pinchera, sostava quest’anno tutta la natura e la peculiarità artistica di un progetto assai impegnativo e dai forti connotati afrocentrici, ovvero “African Noises”.
Giusto è parso quindi concludere la trentacinquesima edizione di una delle manifestazioni italiane più longeve al mondo con l’esibizione della Marockin’ Brass – ospite il trombettista Byron Wallen – formazione rappresentativa dello spirito come sempre felicemente “contaminato” impresso all’interno del cartellone 2015.
Con Jazz, soul e R.&B. miscelato a suoni, ritmi, canti (e costumi) del Marocco, l’eterogenea band proveniente inoltre da Inghilterra, Belgio e Francia, seppur con momenti scollegati tra loro ha espresso il poco noto concetto di Gnawa Music, una sorta di antica sonorità modale sulla quale scivolavano vocalizzi ipnotici ispirati a una delle più antiche etnie provenienti dal sud del Marocco.
Dalla differente pronuncia estetica e da diversa derivazione semantica è stato come era auspicabile aspettarselo il concerto di punta del programma roccellese, quello cioè di Roscoe Mitchell. Quindici anni dopo la splendida esibizione con la Note Factory, Mitchell e il suo trio, completato dai fidi Jaribu Shahid al contrabbasso e Tani Tabbal alla batteria, ha donato al pubblico calabro l’essenza carismatica ed energica del suo spirito sempre innovativo. Travolgente sin dalla prima nota il sassofonista di Chicago ha aperto il sipario con Chant, composizione simbolo di un linguaggio esplosivo spesso proferito nel solco di una solitudine infinita, propria della sua irripetibile creatività. In altri luoghi del concerto la musica si manteneva scevra da compromessi e condizionamenti, libera di vagare nei territori improvvisati dai meravigliosi partner di cordata. Fino al consueto bis di Odwalla, storica coda finale per l’epilogo di un concerto sicuramente indimenticabile.
Grande aspettativa, ripagata, (seppur con soli quarantasei minuti di concerto), vi è stata alla stessa stregua per l’esibizione del Wadada Leo Smith Golden Quartet (con Pheeroan Aklaff, Anthony Davis e John Lindeberg). La musica, di grande tensione ritmica e avvolta in un esplosivo intercalare di eventi, è emersa fulgida nella sua affascinante bellezza sonora. Costruito da intense congiunzioni collettive ma anche da brevi riflessioni e inaspettati silenzi individuali, il tappeto sonoro di Smith si evolveva ininterrottamente, intersecandosi tra lunghi episodi solisti. Specie quando il leader navigava in solitudine, attraversando luoghi epici, esoterici. Inesplorati. E di seguito si alternava in enormi spazi che il trombettista riservava ai suoi musicisti, specie per un meraviglioso Anthony Davis, abbondantemente emerso nella prima parte.
Spettacolo dalla dirompente forza sciamanica è stato invece quello della vocalist e percussionista ivoriana Dobet Gnahoré. Giovane e affascinante, energica e creativa, la Gnahoré non si è risparmiata in vitalità e coraggio nell’affrontare il suo ricco repertorio pescato dai suo quattro lavori solisti. Un variegato crossover non scevro dal moderno temperamento africano che caratterizzano i nuovi e antichi suoni del variopinto continente. Band superlativa.
Seguendo poi la scia di sonorità e ritmi cui l’Africa è stata punto di riferimento più alto vanno inoltre segnalate le esibizioni di Julius Orlando e la sua variopinta band The Heliocentrics nonché la formazione proveniente da Francia, Spegna e Marocco dei Gabacho Maroconnection. Per entrambe le situazioni si è assistito a spettacoli dalla natura festosa e solare. Il settantaduenne sassofonista nigeriano ha trasmesso inarrivabile happiness e giocosità irresistibile mentre i secondi hanno, soprattutto alla fine del concerto, intercalato ai suoni Gnawa anche reggae e pop sino al movimentato coinvolgimento del pubblico danzante.
Più vicino alla fusion e alla world music, è piaciuta la proposta dei Gansan & Tamount Ifassen. Band proveniente per lo più dal Belgio, la formazione è stata apprezzata per lucidità artistica, scelta ottimale nella distribuzione scenica e dei vari interventi solisti. Tra questi da sottolineare la chitarra di Nicolas Dechène e Ludovic Jeanmart ai sassofoni.
Dal versante italiano sono invece giunte conferme artistiche di indubbio valore espressivo. A cominciare dal granitico trio guidato da Rosario Di Rosa. Reduce dal grande seguito ottenuto con l’incisione di Pop-Corn Reflection, il pianista vittoriese insieme ai begli innesti di Cristiano Calcagnile alla batteria e Paolo Dassi al contrabbasso, ha regalato presso l’ex Convento dei Minimi un’esibizione perfetta, composta da variegate forme compositive: dallo swing, alla musica libera (sarebbe un delitto parlare di free), alla fulgida ricerca contemporanea sino a quella minimal elettronica (sempre misurata e mai abusata), a ballads dall’impressionante e incantevole bellezza.
Congratulazioni a Di Rosa ma anche al trombettista Angelo Olivieri, compositore maturo e innovativo il quale, con il suo ZY Project, ha ottenuto il meritato assenso del pubblico dell’Auditorium Comunale. Dirigendo una formazione ben amalgamata con la bravissima Susanna Stivali alla voce, Olivieri ha intercalato le proprie splendide composizioni dal piglio elettrico tra i testi di Antonella Gatti Bardelli e la voce recitante di Sara Alzetta per la regia di un nume tutelare come Wilma Labate.
Al suo esordio da leader, il contrabbassista toscano Francesco Marcocci da qualche tempo trapiantato a New York, presentava a sua volta un quartetto dalle variegate anime jazzistiche: dal pianista argentino Leo Genovese (celebre per le sue collaborazioni con Esperanza Spalding), a Godwin Louis al sax alto e soprano, con inoltre, Willy Rodriguez alla batteria e, ospite in gran spolvero, il sax soprano di Gavino Murgia, sempre immenso solista, sempre una spanna “avanti”, cultore e animatore di una ricerca etnica che non ha eguali.
Swing e tradizione, bop intrigante e assai lirico sono stati i punti salienti del quartetto del notevole sassofonista Tommaso Starace, il quale ha “sorvolato” con le sue composizioni, le foto in bianco e nero di un maestro come Gianni Berengo Gardin. Al suo fianco tre belle realtà del jazz italiano: Michele Di Toro al pianoforte, Tommy Bradascio alla batteria e, al contrabbasso uno splendido musicista di assoluta maestria come Attilio Zanchi.
In chiusura segnaliamo l’esilarante concerto di Daniele Sepe dedicato alle colonne sonore di film italiani con omaggi a Fellini, Nino Rota, Alberto Sordi e con le immagini tratte da film di Totò, nonché il bel concerto, intenso e carismatico dei Tetes De Bois (con la voce recitante di Paolo Hendel e i disegni dal vivo di Sergio Staino), i quali hanno raccontato la struggente storia dell’anarchico Passannante con riferimenti a testi di Verlaine, Baudelaire e Leo Ferrè.