Jazz Forever: Gian Nissola intervista Guido Michelone

Foto: la copertina del libro










Jazz Forever:

Gian Nissola intervista Guido Michelone

Barney Edizioni, 2015


Sabato 28 novembre il nostro collaboratore Guido Michelone presenta nella sua città Vercelli, alla Liberia dell”Arca, il nuovo libro sul jazz da poco pubblicato presso la neonata editrice Barney di Siena. Il testo dal titolo Jazz Forever. La straordinaria storia del jazz dalle origini ai nostri giorni è qui discusso con l”autore a poche ore dall”incontro pubblico e dalla prima “uscita” ufficiale.



Jazz Convention: Jazz Forever, un nuovo libro sulla storia del jazz, perché?


Guido Michelone: Mi piace scrivere, è una esigenza interiore supportata da passione e studio, in questo caso. E poi perché non si parla mai abbastanza di jazz, anzi in molti contesti non se parla affatto. E penso che anche la “quantità” – un “ennesimo” libro di storia del jazz – possa fare la differenza o la sua parte, a patto che sia al contempo garantito l’aspetto qualitativo.



JC: Ma dove il jazz è un argomento tabù o comunque minoritario?


GM: Viene escluso o trascurato ad esempio in televisione e parlo ovviamente del prime time e delle tivù generaliste; è rimosso dalle principali emittente radiofoniche; è dimenticato persino dalle grosse case editrici se non in maniera superficiale. Nelle università o addirittura nei conservatori non è sempre presente mentre come tutta la cultura musicale non esiste nell’insegnamento secondario superiore. Ma anche dove il jazz “c’è”, non viene trattato o vissuto in maniera adeguata e soddisfacente.



JC: Vuole dire che il jazz è vissuto male? Dove e perché?


GM: Sto parlando, come prima, sempre della situazione italiana che è l’unica che conosca bene per esperienze dirette. E, salvo alcuni periodi di un passato che sembra ormai remotissimo – sto parlando degli anni Settanta in primis – mi pare che il jazz oggi sia percepito troppo superficialmente dal pubblico e dagli organizzatori, mentre è considerato in un modo troppo virtuosistico ed estetizzante da parte dei jazzisti: si pensa solo a imparare o esibire la tecnica (che resta comunque fondamentale) ma si ignorano i contenuti musicali in riferimento soprattutto alla storia del jazz.



JC: Infatti stavo proprio per porle questa domanda, sul come oggi viene vista la storia, naturalmente la storia del jazz.


GM: C’è un grosso problema che riguarda chi sa poco o nulla del jazz e chiaramente ignora anche la storia jazzistica. Ma ci sono purtroppo i giovani interessati come musicisti o come ascoltatori che non hanno idea del valore della Storia con la S maiuscola. I futuri jazzisti ascoltano pochi stili limitati a un periodo assai breve: per cantarle chiare, si limitano al modale e all’hard bop tra fine anni Cinquanta e inizio Sessanta, a volte spingendosi verso il mainstream contemporaneo che è persino una posizione di retroguardia nei confronti degli hard bopper e dei modalisti.



JC: Quindi il suo libro nasce anche con l’esigenza di far conoscere anzitutto il jazz attraverso la storia?


GM: Sì la mia è una storia del jazz e quindi l’aspetto storico resta prioritario o fondamentale. Ma l’obiettivo è anche un altro, quello di cui parlavamo poc’anzi. C’è troppo pressappochismo attorno alla cultura del jazz, una musica che spesso viene svilita a livello di piano bar. Se si eccettuano i festival specifici o l’inserimento del jazz in rassegne di musica classica, il jazz, dal vivo o su disco, è solo robetta di sottofondo musicale per bar, ristoranti, birrerie. Per carità, il jazz nasce così, nei bordelli e nei night club, ma almeno lì lo si ballava, non aveva certi alibi: aveva una funzione sociale intimamente connessa alla cultura afroamericana, che si è un po’ persa nel passaggio dall’America all’Europa, dove si pensa che basti ascoltarlo dal vivo e suonarlo con qualche maestro, per capirlo, il jazz! Invece bisogna leggere e studiare, in particolare leggere libri e riviste di jazz.



JC: Sembra, questa, una lamentela diffusa anche in altri settori non solo musicali, vero?


GM: Penso di sì e mi preoccupano soprattutto gli artisti di qualsiasi tipo, genere, linguaggi, che credono che basti scrivere, dipingere, recitare, suonare per diventare rispettivamente scrittori, pittori, attori e musicisti, non solo jazzman, nel nostro caso. Ma un jazzista o un ascoltatore per conoscere e amare davvero il jazz deve cominciare ascoltando una marea di dischi, però selezionati secondo criteri assolutamente razionali, con la chance ulteriore di personalizzare i propri percorsi. Ecco perché nel libro ho voluto inserire oltre duemila album.



JC: Infatti, per arrivare al discorso sul libro, tra le caratteristiche spicca proprio questa selezione “voluminosa” e personalissima…


GM: Personale ma secondo criteri esplicitati: molto più “oggettiva” di tante altre! La discografia per me è stato il lavoro più faticoso del libro, con le inevitabili esclusioni e con certe aggiunte che probabilmente scandalizzeranno molti critici. E lo stesso vale per i brani selezionati che, a mio avviso, è un’operazione importante perché trascurata da molte storie del jazz, soprattutto quando si entra nell’era del long playing e si considera il disco come un tutt’uno anche se in realtà è formato da tanti brani diversi.



JC: Qui però si entra in un campo minato, perché si parla di singole musiche, di composizioni specifiche registrate in una o più sedute…


GM: Certo, la questione è complessa, perché da un lato l’album è un vero unicum, un lavoro conchiuso, un’opera compatta con un inizio e una fine, ma dall’altro, salvo rare eccezioni, un album è un insieme di diversi pezzi, ciascuno dei quali non solo ha una propria storia e una propria fisionomia ma soprattutto ha un valore autonomo in sé, al punto che può essere eseguito o interpretato in concerto accanto a pezzi di altri dischi attraverso le combinazioni più fantasiose possibili. Ci sarebbe da scrivere un trattato sull’argomento, cosa che non è stata ancora fatta, anche se ad esempio di recente Ted Gioia ha dedicato un libro agli standard usati nel jazz, che mi sembra un discorso molto importante.



JC: Tornando invece al suo libro un’altra caratteristica è l’attenzione enorme, forse eccessiva, dedicata al jazz attuale. Come spiega questo sbilanciamento verso la contemporaneità?


GM: Lo spiego con il fatto che sono le altre storie del jazz recenti a essere sbilanciate verso la classicità, liquidando l’oggi in poche pagine o comunque in maniera totalmente sproporzionata rispetto a quanto accaduto nella storia del jazz grosso modo fino al trionfo della fusion. Se guardiamo ad esempio storie “famose” come quelle di Berendt o di Polillo – mi riferisco alle prime edizioni pubblicate negli anni Settanta – vediamo erano aggiornate ed esaustive anche verso la stretta attualità, a cui dedicavano lo stesso spazio riservato alle epoche passate. Oggi invece sul jazz contemporaneo – e non parlo solo del jazz del 2015 o del 2010, ma anche del jazz dal 1980 in avanti – i libri sono avari di sintesi e di informazioni. Sbilanciato, insomma, non è il mio libro, ma quelli di chi dedicano ad esempio 1000 pagine alla storia dal 1917 al 1980 e solo 20 dal 1981 a oggi. Il jazz contemporaneo occupa cronologicamente ormai un terzo della storia generale, ma stando a certi storici ne vale solo un trecentesimo. Mi scuso se ho voluto insistere su questo problema, ma tengo molto a certe precisazioni!



JC: Però sul jazz contemporaneo si pone una duplice questione: da un lato è troppo recente per essere storicizzato; dall’altro si sta espandendo in tutto il mondo; e tutto ciò rende difficile una ricognizione a tutto campo. Lei come ha reagito nel libro?


GM: Premetto che la prima questione è vera solo in parte: se gli storici, che ho nominato prima, riuscivano a raccontare quanto accaduto fino a pochi mesi prima dell’uscita del libro, perché non farlo anche ora? Il problema semmai riguarda altre due difficoltà: da un lato l’enorme proliferazione di jazzisti anche solo negli Stati Uniti, dall’altro la mancanza di una leadership da tutti riconosciuta (come accadeva per Parker o Coltrane) e di nuovi stili ben definitivi, che di solito tra gli anni Venti e Ottanta si identificavano con uno o due per decennio, ad esempio il cool e l’hard bop rispettivamente nella prima e nella seconda metà degli anni Cinquanta. Ma che dire ad esempio degli anni Novanta o degli anni Zero? C’è uno stile nuovo predominante? No. C’è un jazzman originale che fa scuola? Direi di no anche qui. Ma questo non significa non parlarne in un trattato storico.



JC: Condivido. In Jazz Forever compie una sorta di giro del mondo in 80 jazz attraverso tutti i continenti. Come ha fatto e quali criteri ha adottato per conoscere o riconoscere le qualità jazzistiche di una nazione?


GM: Bah, è un discorso più di individualità o persone che di nazioni e continenti, benché la cultura sedimentata di uno stato sovrano influenzi a volte profondamente lo sviluppo di un’arte e di una socialità jazzistiche. È chiaro, poi, che non è una ricognizione completa, ma perlomeno ho tentato di compendiare la storia dei jazzmen famosi in patria con quella dei solisti noti invece all’estero: sono due storie che non sempre coincidono e sarebbe bello avere a disposizione, in tal senso, materiali specifici su cui studiare e lavorare.



JC: Ho visto che, in Jazz Forever, ha inserito anche molte classifiche dei dischi epocali: non trova che talune scelte facciano “discutere”?


GM: Devono far discutere perché questo è l’intento! Ho cercato di proposito le track list più eterogenee consultando jazzmen, giornalisti, critici, per incuriosire il più possibile i lettori, facendo capire che i dischi di culto non sono uguali per tutti, benché alla fine da certi album di Coltrane, Ellington, Brubeck, Ornette o Miles non si possa “sfuggire”…