Guardando dentro alle note, quale jazz al microscopio?

Foto: La copertina del libro










Guardando dentro alle note, quale jazz al microscopio?

Breve riflessioni attorno al nuovo libro del grande musicologo Marcello Piras


Il nuovo libro del maggior jazzologo italiano è uscito da pochi mesi e fa già discutere critici e giornalisti, esperti e appassionati per un’impostazione metodologica che non convince tutti, suscitando perplessità e scetticismo tra amanti della musica e addetti ai lavori. I primi ritengono il testo di ardua lettura, i secondi rifiutano l’approccio esclusivamente classico alla cultura afroamericana. In effetti, senza nulla eccepire al valore delle analisi, è in effetti la considerazione del jazz solo nell’esclusiva componente sonora (“trasposta” su pentagramma) a causare dubbi o perplessità.


Ma cosa fa esattamente Marcello Piras? Lo studioso giustamente lamenta lo scarso interesse del mondo accademico italiano verso gli studi jazzistici, riprende e corregge (al minimo) quaranta saggi pubblicati sul mensile “Musica Jazz” tra gli anni Ottanta e Novanta, riguardanti ciascuno la disamina di un brano di jazz inciso su microsolco, dal l’Hot al Post-Free: si tratta di pezzi musicali talvolta celeberrimi, talaltra quasi misconosciuti (ma essenziali alla stessa arte jazzistica), che vengono sviscerati alla stregua di partiture colte (trascrivendo i suoni dai dischi) con l’idea che nel jazz prevalga la composizione rispetto all’estemporaneità e allo spettacolo. Queste ultime asserzioni sono vere per alcuni jazzisti (forse i migliori) ma non per altri che hanno costruito un’estetica o una poetica basandosi sul proprio afflato solista, in modo spesso individualistico, lasciando ai margini il lavoro di squadra, per concentrarsi altresì sulla teatralità performativa.


In tal senso un altro problema irrisolto restano le note riportate (dal musicologo, non dal jazzman) sullo spartito quali entità minime significanti a livello semiotico: in realtà, a parte i 40 casi osservati al microscopio, molto jazz ha suoni irrapresentabili visivamente con la notazione occidentale. E di conseguenza, anche per il lettore non musicalmente alfabetizzato al pentagramma, sarebbe stato meglio allegare al libro un CD con i pezzi studiati oppure organizzare con l’editore un sito per scaricare i files dei brani. Ora, ammettendo che ad esempio Africa di Coltrane, Louise di Reinhardt, Mood Indigo di Ellington o Turkish Mambo di Tristano, siano quanto assai ben descritto da Piras, manca l’essenza, la vita, lo spirito, il gesto del jazz che è soprattutto – va ripetuto! – arte performativa, tra spettacolo e visualità, perché il jazz accoglie al proprio interno (come pure nell’aspetto esteriore) non solo i suoni dalle notazioni impossibili, ma anche il corpo, l’azione, il volto, la mimica, lo spazio, la prossemica, il vestiario, la scenografia del jazzista medesimo. Vero è che tutto questo manca al disco per ovvie ragioni tecnologico-strutturali, ma sarebbe anche ora di riscrivere non solo la storia ma anche la teoria e l’anima del jazz attraverso le fotografie, i film, i video a disposizione, con buona pace dei nostalgici di Bach o di Chopin, che pure erano grandi improvvisatori.