Aruán Ortiz Trio – Hidden Voices

Aruán Ortiz Trio - Hidden Voices

Intakt Records – CD 258 – 2016




Aruán Ortiz: pianoforte

Eric Revis: contrabbasso

Gerald Cleaver: batteria

ospiti

Arturo Stable & Enildo Rasúa: claves (in: Caribbean Vortex/Hidden Voices)





Una corrente interrogativa percorre in tutte le sue estensioni questa incisione, non contraddicendo le note programmatiche del prolifico pianista da Santiago de Cuba, che così introduce il proprio ultimo lavoro: «pensavo a quest’album come ad un circolo senza un inizio o una fine», principio fondante nella selezione definitiva della tracklist, comprendente una composizione a testa dei capitali Monk e Coleman, peraltro a firma dell’artista prontamente migrato su lidi statunitensi, per trovarvi un recente mentore in Muhal Richard Abrams, di cui appare un epigono in peculiare guisa, ma ben più precocemente sembra aver definito la propria voracità estetica.


Già alquanto prolifico discograficamente, nell’incarnazione totalmente rinnovata dell’Aruan Ortiz trio (che oltre dieci anni fa fidava su Peter Slavov e Franciso Mela) arruola Eric Revis, di cui colpisce il virtuosismo sottile ed il plastico nitore, e Gerald Cleaver, che con maestria declina il proprio drumming sensibile e fremente, entrambi conducenti il tenore discorsivo su ben elevato stadio e certamente vitali nel determinismo del soundscape, ma si palesano comunque orientati dalla nervosa regia e dalle umorali sortite del leader: il post-bop esplorante di Ortiz si giova di temperata, nativa solarità caribeña, che infonde fioritura e manierata vivacità ai meccanismi compositivi, estensivamente pervasi da intrinseche e non pacificate tensioni.


Tra gli assi di spicco della tastiera pervenuti alle nostre attenzioni dalla pittoresca (quanto travagliata) isola di Cuba, e già un decano tra i neo-emergenti (tra cui vorremmo ricordare almeno David Virelles o Roberto Fonseca), non avremo riserve nel concedere spazio, e credito, ad un talento poco più che quarantenne che ama definire la sua musica con (non troppa) semplicità: «architettonica struttura di suoni, che incorpora musica classico-contemporanea, ritmiche afro-cubane, ed improvvisazione quali materiali primari per le composizioni» e che, se dei titolati maestri reca linguisticamente più di un tributo almeno a Monk e Corea (ma sembra esser passata la lezione anche di Hancock o Bley), appare gestore e certamente titolare di un proprio linguaggio, di decifrazione non immediata ma già orientato stilisticamente nel designarsi un’argomentata collocazione tra i grandi apolidi del jazz.


La ricchezza ideativa profusa nella scrittura espone più che in filigrana l’amalgama tra tutti gli elementi suddetti ma persiste aperta all’avventura ideativa, con attenzioni per le tattiche ritmiche e le strategie melodiche di lunga misura, declinate secondo uno stile complesso e talvolta ostico, con una quota di rischio fraseologico che ingloba squassanti clusters e saettanti figurazioni melodiche (e contro-melodiche), non minimizzando il valore dell’interplay che, fatte salve le esposte considerazioni, si manifesta vitale al respiro e all’imbastitura di questa importante esperienza su solco.


Un’anteprima 2016 da parte del catalogo zurighese che, con avveduto senso prospettico, arricchisce il proprio roster grazie ad una personalità relativamente inattesa, di fatto assai in sintonia con le aperture oltre-Atlantico della label, che già ne detiene esponenti trans-generazionali e di fortissimo profilo, e ci sollecita a recuperare la discografia del motivato pianista e compositore,
creativo d’allure primariamente intellettuale, le cui “Voci Nascoste” esplicitano fascino formale denso d’eco imitative e profilo in parte sfuggente, meditazioni dinamiche che lasceranno all’ascoltatore più spunti di riflessione ed inviti a rinnovato cimento




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