Pi Recordings – pi 61 – 2015
Jen Shyu: voice, pianoforte, liuto orientale, zither, gong, idiofono
Ambrose Akinmusire: tromba
Mat Maneri: viola
Thomas Morgan: contrabbasso
Dan Weiss: batteria
Apprezzata per la militanza nelle falangi di Steve Coleman, ma in primis e per vocazione artista eclettica e sperimentatrice naturale, la vocalist e multistrumentista (nonché dance-performer, produttrice e motivata ricercatrice) d’origini estremo-orientali torna alle attenzioni con il proprio ensemble Jade Tongue, ora rivisto nelle sue punte solistiche, a sei anni di distanza dal primo omonimo album, espressione di parte delle sue radicali ricerche su destini e destinazioni della Diaspora cinese, che l’avevano fatta addentrare oltre che nell’isola di Taiwan lungo i ben più remoti lidi di Brasile e Cuba.
Indagini e percorsi ulteriori l’hanno condotta sulle scie di un ben più vasto pan-(estremo-)orientalismo, non ripercorrendo soltanto le terre delle proprie linee genitoriali, Timor est e (di nuovo) Taiwan, ma anche Corea, Vietnam e Indonesia, banali in prima lettura ma in realtà nient’affatto di pubblico dominio nelle più intime implicazioni.
Tali materiali non sembrano comunque esser riportati in termini filologici, quanto quali potenti flussi ispirativi di un linguaggio d’azione, tonificato da una rinnovata, quanto titolatissima line-up strumentale, che non sacrifica né il carattere dei singoli partecipanti, che anzi accettano di mettersi in buona parte in gioco nel forgiare delle creazioni in musica di peculiare accuratezza pur nella grande quota di libertà, fino alla crudezza, dell’estetica complessiva.
A nudo dunque la poetica cruda della leader ed autrice, non certo ignara né riottosa alla bellezza, ricercata per trame e percorsi raramente estetizzanti, anzi piuttosto vividi per urgenza drammatica ed elaborazione di segni, laceranti e a nudo gli apporti dell’ottone di Ambrose Akinmusire e delle corde contralto di Mat Maneri; nel basso di Thomas Morgan s’incontra un energico timoniere sulle increspature del ritmo, frastagliato dal drumming eccentrico e scrosciante di Dan Weiss, tutti funzionali ad un soundscape drammatico, su cui si conforma un’amalgama di caratteri in sintonia, di tratto talvolta primitivo e insieme (assai) sofisticato, d’immanente bellezza cui non difettano sprazzi d’istintuale ferocia.
Rispondente sono in parte, anzi assai blandamente, ai canoni comunemente “affibbiati” al carattere estremo-orientale, la poliedrica espressione di Jen Shyu incorpora anche quei tratti apparentemente effimeri, ed istantanei, del cifrario musicale proprio di una certa Creative Music, e la complessità identitaria del cantato, non scindibile da pulsioni recitative così come da primordiali ritualità e stati evocativi, rende arduo minimizzare il valore della sua vocazione drammatica: lungo una seducente, sentita esperienza ove si cimentano grazia aerea e impeti di fuoco, una testimonianza del carattere occulto ma vivente negli ancestrali luoghi dell’artista, da cui s’estrapola almeno la dimensione dell’ambivalenza e soprattutto dell’Enigma.