Novanta dischi 2010-2015 per l’International Jazz Day 2016

Foto: il logo dell’International Jazz Day










Novanta dischi 2010-2015 per l’International Jazz Day 2016




Questa raccolta di mie recensioni inedite è il frutto di una bizzarra avventura culturale che vi voglio subito raccontare: quando iniziai nel lontano 1999 la collaborazione con un mensile di musica – che per ragioni di privacy non posso nominare – il quale, per la prima volta, nella sua storia ventennale, si apriva alle recensioni di dischi jazz, il patto con il direttore era questo (e tale più o meno rimane ancora oggi): ricevo da lui, per posta, una decina di CD, ne scelgo otto da recensire con la clausola che non sempre, per ragioni di spazio (o altri motivi), potrebbero essere tutte pubblicate. E così accade, con una media “irregolare” di uno “scarto” per ogni numero (con criteri talvolta a me oscuri, indipendenti dal valore della musica) ragion per cui oggi mi ritrovo con decine e decine di recensioni inedite che, solo ora, mi decido a sistematizzare e a pubblicare integralmente (senza alcun ritocco o aggiornamento, persino con gli asterischi da 1 a 5 per indicare il mio gradimento), puntando adesso, per Jazz Convention in esclusiva, optando per una scelta a favore del nostro ultimo quinquennio, che coincide di proposito con l’idea e poi la realizzazione del Jazz Day UNESCO. Non c’è un filo logico o conduttore fra questi novanta dischi (che a volte vengono recensiti a gruppi di due, tre, quattro), emerge piuttosto l’idea che il jazz, mai come oggi, sia un fenomeno eterogeneo, dove convergono linguaggi sonori fra loro assai diversi, benché accomunati da elementi strutturali (l’improvvisazione, il timbro, le rimiche, l’uso di certi strumenti) che da molto tempo sono parte integrante della natura stessa del jazz medesimo.



Area – Live 2012 (Up Art Records)


Area, ovvero International Popular Group (come è specificato anche in copertina), esiste dal 1972e da allora non si è mai sciolto ufficialmente, passando quasi indenne da due gravi lutti: il primo, nel 1979, riguarda la prematura scomparsa del cantante Demetrio Stratos per una rarissima forme di anemia aplastica e il secondo la morte, nel 200, del batterista Giulio Capiozzo per arresto cardiaco durante un concerto; da un lato lo straordinario vocalist che di fatto incarnava lo sperimentalismo dell’intero gruppo, dall’altro il possente drummer che da solo per anni era l’unico dei membri originali a guidare la band con questo nome. Ora, dopo varie analoghe reunion, Area è un quartetto con tre quinti della formazione modello, ovvero Patrizio Fariselli alle tastiere, Sergio Tofani alla chitarre e Ares Tavolazzi ai bassi; a loro si è aggiunto Walter Paoli, un percussionista, che bazzicava con loro negli anni della Cramps Records. Per tutto il 2012 il quartetto ha girato l’Italia proponendo un nuovo spettacolo che riproponeva l’acclamato repertorio dei Seventies e dalle performance tenute via via a Roma, Torino, Pesaro, Orvieto, Follonica, Porto Sant’Elpidio, San Giovanni Valdarno è nato questo doppio CD , in cui intelligentemente i quattro rifanno la musica dell’epoca in maniera diversa, non essendoci in circolazione, almeno in Italia, un cantante in grado di sostituire Stratos a livello creativo; l’unica alternativa poteva essere qualche jazz singer e non a caso in un brano (Cometa Rossa) compare Maria Pia De Vito, tra le poche (assieme a Cristina Zavalloni, Marta Raviglia, Rosella Cangini), a frequentare i territori dell’avanguardia vocale; altrimenti, come viene fatto egregiamente, Area non poteva che puntare su versioni strumentali : e in questo caso è prevalsa una linea jazz vincente, offrendo belle esecuzioni di tredici propri “classici” (tra cui La mela di Odessa, Luglio agosto settembre nero, Nervi Scoperti, Gerontocrazia, Arbeit Macht Frei) in chiave sostanzialmente post-bop, ma con un jazz feeling che si apre indirettamente a contaminazioni ethno, prog, fusion, per un esito finale più che soddisfacente.



Baap! – Sweet Dreams, Baby! (Monk Records)

Calambre – Almas derida (Philology)

Mansarda – Mansarda (Improvvisatore Involontario)

Progetto Original – Progetto Original (Abeat For Jazz)


Anche nel jazz italiano, similmente a quello statunitense (e internazionale in genere) i gruppi si chiamano con il nome del leader; le rare volte che, sull’onda del rock, hanno assunto denominazioni astratte o surreali, è avvenuto con la fusion ad esempio per Weather Report, Mahavisnhu Orchestra, Return To Forever, Dreams, Straight Ahead; e anche noi abbiamo avuto i vari Perigeo, Area, Lingomania. Tuttavia anche oggi ci sono in giro jazz-band con denominazioni fantasiose che preferiscono in tal modo far leva sulla dimensione corale invece della leadership di un unico solista. Ecco quindi quattro nuove proposte: Sweet Dreams, Baby! del quartetto Baap! con Tony Cattano (trombone), Giacomo Ancillotto (chitarra), Roberto Raciti (basso), Maurizio Chiavaro (batteria) presenta undici brani originali del trombonista che si dispongono in maniera quasi narrativamente come un film o una storia a fumetti: infatti cover e booklet usano rispettivamente comics vintage e graphic novel a sottolineare l’ironia di un progetto new jazz un po’ surrealista che cita Tom Waits e Syd Barrett fra i numi tutelari. E cita anche Henry Cook (sassofoni) e Marta Raviglia (voce), presenti in Mansarda quintetto gestito assieme ai sunnominati Ancillotto e Raciti, con il multipercussionista Francesco Cusa a completare un jazz-combo ancor più pazzo, dadà e surreale del precedente: diciannove pezzi brevi che il gruppo improvvisa totalmente, non a caso dopo essersi trovato assieme qui per la prima volta: ma non è la solita cacofonia free, perché le esperienze di tutti portano ironicamente a miscelare swing, pop, twist, bebop. Almas derida di Calambre Tango Quarteto (così suona il nome completo) con Laura Bagnati (flauto), Luca Rizzo (clarinetto) e la ritmica (Paolo Bernardi, Federica Michisanti, Marco Rovinelli) viaggia sicuramente nella direzione del tango-jazz, distinguendosi però da situazioni analoghe, grazie a una certa italianità dell’assunto estetico, che significa ad esempio accentuare taluni struggenti melodismi e diversi aspetti cameristici, non senza trascurare però quei timbri che, alle prese con gli ormai classici standard di Astor Piazzolla, accentuano le molteplici radici afroamericane di una musica già di per sé fortemente ibridata. Progetto Original vede infine ancora un quartetto con Luca Necciari (contrabbasso), Matteo Addabbo (piano), Avishai Cohen (tromba), Francesco Petreni (batteria): oltre essere indubbiamente “original” è anche il più normale dei quattro progetti, giacché si inserisce in una consolidata tendenza jazziale a metà fra il mainstream e il new hard bop, giocando tanto sulla coesione della band quanto sulle individualità degli strumentisti: i nove brani in scaletta, da loro composti, hanno pure echi latinoamericaneggianti, a dimostrazione di quanto il jazz italiano oggi sappia riferirsi, con logica, maestria, competenza, a tutte le musiche del mondo.



Bossanova Trio – Samba Preludio (Skip Records)

La bossa nova è tornata finalmente a risplendere sotto molteplici luci creative: c’è chi come Vinicius Cantauria si rifà ad essa con piglio cantautoriale per scrivere e interpretare nuovi brani, chi invece come la presente Paula Morelenbaum, che di fatto è la leader del Bossanova Trio, riprende i classici del genere per rivitalizzarsi con inediti arrangiamenti e soprattutto una attualizzata veste stilistica, che guarda soprattutto al jazz contemporaneo. Regina Paula Martins da Rio de Janeiro, maggiormente nota con il cognome, il violoncellista Jacques Morelenbaum, può già considerarsi un pezzo di storia brasileira, facendo già trent’anni fa da trait d’union tra i grandi maestri e i giovani talenti: la coppia infatti fa parte del gruppo che accompagna in tour tra il 1984 e il 1994 il mitico Antonio Carlos Jobim, assieme a Joao Gilberto, il padre fondatore della bossa nova stessa. Paula e Jaques Morelenbaum fondano quindi il Quarteto Jobim-Morelenbaum, insieme a figlio e nipote di “Tom”, ossia di Paulo e Daniel Jobim, approdando in seguito al Trio Morelenbaum2-Sakamoto, ovviamente insieme al grande compositore/pianista Ryuichi Sakamoto a dar vita a un sound electro-etnico. Sono del resto quest’ultime le caratteristiche emergono anche da Samba Preludio, in cui la vocalist dal Giappone si trasferisce per così dire ad Amburgo, organizzando un trio per due terzi tedesco con Joo Kraus alla tromba e Ralf Schmid al pianoforte, oltre l’uso, per entrambi di parecchi aggeggi elettronici, a creare un suono nu jazz che qui ben s’adatta alle dolci melodie di mezzo secolo fa o anche prima, guardando addirittura alla classica: il pezzo iniziale difatti Melodia Sentimental adatta le parole di Dora Vasconcelos su musiche di Hector Villa Lobos, mentre How Insensitive di Jobim e Vinicius De Moraes viene interfacciata al Preludo op. 28 n. 4 di Frederic Chopin. Dunque persino Monteverdi e Schumann coesistono musicalmente, in scaletta, accanto a Marcos Valle, Pixinguinha, Dorival Caymmi, Baden Powell in atmosfere soffuse che la voce di Paula tende sempre più a valorizzare poeticamente.



Fabrizio Bosso – Plays Enchantment (Schema Records)

I Compani – The Film Music Of Nino Rota (Toondist)

Nino Rota (1911-1979) resta forse il più geniale inventore di colonne sonore nella storia del cinema italiano, senza dubbio l’artista che ha nobilitato una musica prima di lui ritenuto minore, secondaria, pacchiana. Scoperto di recente anche come autore classico di tradizionale originalità, ed esaltato dai jazzisti fin dagli anni Ottanta con omaggi e tributi, da Hal Willner alla Gap Band, da Enrico Pieranunzi al Tommaso/Rava Quartet, dall’Harmonia Ensemble agli stessi Compani con Rota (ITM, 1987), l’autore nato a Milano ma vissuto tra Puglia e Roma, viene ora di nuovo riletto jazzisticamente con due eccellenti album, ma assai diversi tra l’altro, quasi all’opposto, quasi a indicare le due facce della stessa medaglia, ossia la duplice vena compositiva di Nino Rota medesimo. Il cd anglo-italiano con il fine trombettista torinese ha quale sottotitolo L’incantesimo di Nino Rota ed è un chiaro omaggio ritmo-sinfonico perché accanto al proprio trio (Claudio Filippini, Rosario Bonaccorso, Lorenzo Tucci), Bosso s’avvale della London Symphony Orchestra condotta da Stefano Fonzi; in tal modo e anche per la delicata verve solista l’album scopre il lato romantico, intimo, liricizzante dei nove score per Fellini e altri registi. Per contro I Compani, ottetto olandese con Bo van de Graaf (sassofoni), Jeroen Doomernik (tromba), Aili Deiwiks (violino), Jacqueline Hamelink (violoncello), Michel Mulder (fisarmonica), Christoph MacCarty (piano), Marko Bonarius (basso), André Groen (batteria), si lanciano nella clownerie più assoluta, antologizzando ben 25 performance (spesso autentici frammenti) registrati far il 1985 e il 2011: forse sono loro a essere i più rotiani, i più fedeli a uno spirito ludico, dissacratore, finanche vivace, swingante, jazzistico, che trapela pensando alle altrettanto surreali immagini di Amarcord o della Dolce vita, di Casanova o di Otto e mezzo.



Anthony Braxton – Echo Echo Mirror House (Victo)

Spontaneous Music Ensemble – Challenge (Emanem)

Slobber Pup – Black Aces (Rare Noise)

Berserk! – Berserk! (Rare Noise)

Il nuovo disco di Anthony Braxton – esponente di punta, fin dal 1968, dell’A.A.C.M. (ovvero l’avanguardia nera chicagoana) – ancor più degli ultimi lavori, riaccende il discorso sulla sperimentazione nel jazz e in tutte le musiche. Cosa vuole dire infatti oggi ricerca sonora? Per Braxton, pluristrumentista, bandleader, compositore, la risposta è forse in questo Cd che risulta la Composition No 347: sessantadue minuti filati di suoni in libertà, che assomigliano al free jazz (nel senso di improvvisazione assoluta), ma che in realtà vantano una struttura complessa, dove convergono le passioni di questo artista ultraconcettuale: olistica, logica, matematica vengono abbinate e rielaborate alla luce della black music radicale, dove un settetto dall’organico eterogeneo tradizionale interagisce con il proprio iPod nell’inventare continue rifrazioni acustiche. All’ascolto non sembra Echo Echo Mirror House non sembra differire molto da Challenge che il londinese Spontaneous Music Ensemble, guidato da John Stevens e Trevor Watts, incide tra il 1966 e il 1967: musica radicale, affine a tratti, alle invenzioni atonali della classica post-dodecafonica, dove il gesto resta forse più importante dell’effetto di piacevolezza o meno sul pubblico. Dunque non è cambiata la sperimentazioni in quest’ultimo mezzo secolo? Per trovare qualcosa di diverso come Black Aces del quartetto Slobber Pup con Balázs Pándi (Obake, Merzbow), Trevor Dunn (Fantomas, Melvins Lite, Secret Chief 3, Endangered Blood), Joe Morris (William Parker, Whit Dickey), Jamie Saft (New Zion Trio, Metallic Taste of Blood) esordio urticante e isterico, ma originale e intelligente, dove i quattro si divertono a straziare jazz, blues, rock e prog, sbriciolandoli in devastanti e corrosive particelle micro tonali, proponendo in cinque lunghi brani strutture iper-stratificate dalla natura totalmente improvvisata Anche il duo allargato Berserk! Nell’omonimo cd pesca a piene mani nell’attività sperimentale degli ultimi decennio dal free al prog; i polistrumentisti Lorenzo Feliciati e Lorenzo Esposito Fornasari, chiamando via via Pat Mastelotto, Sandro Satta, Gianluca Petrella, Fabrizio Puglisi, Simone Cavina, Eivin Aarset offrono dieci brani avant-jazz riuscendo a far convivere piacevolissimamente esperienze molteplici e culture eterogenee.



Bugge & Henning – Last Spring (Act Music)

Klaus Paier & Asja Valcic – Silk Road (Act Music)

Rudresh Mahanthappa – Gamak (Act Music)

L’Act Records è un’etichetta indipendente tedesca che venne creata dall’appassionato Siegfried Loch per dare ai jazzisti soprattutto europei e asiatici di esprimersi liberamente e guadagnarsi una fama mondiale (come accade in effetti con molti nomi quali ad esempio Esbjörn Svensson, Nils Landgren, Michael Wollny, Viktoria Tolstoy, Lars Danielsson, Wolfgang Haffner, Leszkek Mozdzer, Nguyên Lê, e Youn Sun Nah) purché si esprimano con sonorità che riescano a catturare il pubblico e non a scioccarlo o intimidirlo. La fama sinistra di cui gode proprio il free tedesco (e nordeuropeo in genere) e la saturazione degli stili boppistici di ascendenza neroamericana, fa sì che l’Act opti fin da subito per una musica sofisticata dalle ascendenze dotte, in cui talvolta è impossibile separare il jazz dalla classica: in teoria sarebbe un pregio, ma la ricerca spasmodica di un’identità eurocentrica diventa anche un difetto, un ostacolo o u limite se si devono per forza usare le parole “jazz” o “classica” come termini di giudizio. Il problema nasce infatti dall’ascolto di dischi recenti come Last Spring o Silk Road: nel primo, registrato a Oslo, i pur bravissimi Bugge Wesseltoft (pianoforte) e Henning Kraggerud (violino e viola) presentano brevi esecuzioni (mediamente lunghe quanto una canzone) derivate da folclore nordico o di autori risaputi (Grieg e Brahms) o locali (Soraas, Svendsen, Mortensen). Nel secondo, da Vienna, Paier (fisarmonica e bandoneon) e la Valcic si affidano invece a loro undici composizioni, ma il risultato, salvo qualche scossa vivace in più (talvolta appena swingante), non cambia: sembra di essere tornati, in entrambi i casi, all’era tardoromantica! Se si giudicano con i parametri del jazz il voto è insufficiente! Meglio allora far ascoltare al jazzofilo l’indiano Rudresh Mahanthappa che, da Brooklyn, con trio cosmopolita – Dan Weiss (batteria), Francois Moutin (contrabbasso) e David Fiuczynski (chitarra elettrica) – si prodigano in un jazz-funk-rock molto urbano e molto risoluto fino a raggiungere alti gradi di estrema intensità. Alla fine il gusto personale conduce a Last Spring di Bugge & Henning, perché davvero i norvegesi Wesseltoft al pianoforte e Kraggerud alla viola e al violino sembrano, nel jazz, il referente a una cultura europea che va oltre l’antica tradizione popolare, per trattare modernamente il romanticismo nordico, con dirette citazioni da Grieg e Brahms in un paio di brani, mentre alla fine tutto suona come un’unica grande variazione cameristica.



Francesco Cafiso – Moody’n (Verve)

Stefano Cocco Cantini – Living Coltrane (Egea Records)

Matteo Cigalini – Res Nova (My Favorite)

Gianluca Esposito – Biancoscuro (Wide Sound)

Tra i jazzmen italiani oggi sembrerebbe prevalere la tromba quale strumento cult, a osservare il successo dei vari Paolo Fresu, Enrico Rava, Fabrizio Bosso, Flavio Boltro; oppure il pianoforte con Stefano Bollani e i sempreverdi Franco D’Andrea, Enrico Pieranunzi, Giorgio Gaslini. Eppure, dopo l’eredità dei pionieri Gianni Basso, Eraldo Volonté, Mario Schiano, sta emergendo anche una folta schiera di giovani sassofonisti che, imbracciando tenore, alto o soprano, riescono a raggiungere notorietà e successo, preservando indiscusse doti artistiche. È il caso anzitutto di Francesco Cafiso, enfant prodige, ora ventiduenne, assai maturato anche quale leader e compositore: qui, in Moody’n è a capo dell’Island Blue Quartet, senza batteria con lui al contralto e con i consanguinei siciliani Dino Rubino (tromba, flicorno) Giovanni Mazzarino (piano), Rosario Bonaccorso (contrabbasso). Ottimamente suonato, “inciso” per una label storica e distributivo da una major, il CD ha metà original e metà jazz-standard, tre dei quali firmati da Charlie Parker a dimostrazione delle strade che Cafiso vuole percorrere. Tradizionale invece il quartetto di un altro ventiduenne, il piacentino Mattia Cigalini, con Res Nova al quarto album a proprio nome: dunque formazione tipica del jazz quartet con piano-basso-batteria, rispettivamente i collaudatissimi Mario Zara, Yuri Goloubev, Tony Arco, per tre lunghe suites a firma del leader, che ricama una musica complessa tra scrittura e improvvisazione, sempre guardando a testa alta la lezione del post-bop e del modale, con un occhio a John Coltrane. E proprio quest’ultimo è protagonista assoluto di Living Coltrane del quartetto del toscano Stefano Cocco Cantini con Francesco Mazzianti (p.), Ares Tavolazzi (cb.), Piero Borri (batt.). «No project, no tribute, just the music of John Coltrane…» dice il sottotitolo in bell’evidenza sulla copertina e sul resto, quasi a ribadire a chiare lettere la voglia di perpetuare la lezione di un gigante del sassofono, lavorando con naturalezza e semplicità attorno a otto standard del suo grande repertorio. Infine, l’unico a distaccarsi dalla formula del quartetto è l’abruzzese Gianluca Esposito che un Biancoscuro raduna attorno a sé altri sei musicisti, peraltro assai noti negli ambiti jazzistici, come gli americani Bob Mintzer (ten.) e John B. Arnold (batt.), Kelly Joyce (voce) e Flavio Boltro (tr.), Daniele Mencarelli (cb.), Mauro Grossi (batt.); il suono che ne fuoriesce è assai variegato in grado di spaziare tra inediti e cover (anche rock) tra funk, blues, post-bop con un’impronta spesso travolgente. Quattro album di giovane sax italiano a dimostrazione del momento di grazia del jazz tricolore.



Uri Caine – Twelve Caprices (Winter & Winter)

U – Whirl (Palmetto Records)

Enrico Pieranunzi Latin Jazz Quintet – Live At Birdland (CAM Jazz)

Il pianoforte nel jazz è uno strumento completo, versatile, persino accomodante, in grado di attraversare indenne le mode e le tendenze di quasi cent’anni di registrazioni fonografiche afroamericane: la storia del piano-jazz in altre parole corre in parallelo e in sintonia con le tradizioni classiche e le spinte innovatrici che dalle origini al bebop, dal free all’attualità vedono da sempre questo strumento come grande protagonista, leader al centro dei più svariati contesti. E in effetti i tre nuovi dischi di altrettanti indiscussi personaggi della scena jazz contemporanea sono proprio la dimostrazione pratica, corretta, esaustiva delle innumerevoli possibilità combinatorio tra pianoforte e altri strumenti, pianoforte jazzato e stili anche molto diversi tra loro. Tutti quelli che amano il jazz sanno chi sono Caine, Hersch e Pieranunzi, ma è interessante ora ascoltarli dunque in situazioni eteroclite. Uri Caine è un progettista che mette la propria tastiera al servizio di lavori orchestrali molto elaborati in cui di volta in volta fa convergere un bagaglio culturale immenso dal barocco all’hip-hop: ora grazie a Twelve Caprices con il classicissimo Arditti String Quartet – Irvine Arditti (violino), Ashot Sarkissjan (violino), Ralf Ehlers (viola), Lucas Fels (violoncello) – compone infatti dodici capricci dove sono preganti le ascendenze dodecafoniche, con un risultato finale vicino alla musica da camera d’avanguardia, in cui a sua volta il solo pensiero jazzistico è quello che ogni tanto esce dai contrappunti pianistici del leader medesimo. Altra storia invece in Whirl con il tipico piano-jazz-trio di Fred Hersch, da sempre abituato a un jazz assai più moderato: dieci brani che per melodiosità e trattamento appaiono standard ma che invece sono usciti dalla pena di Hersch o dei suoi collaboratori: nell’ordine You’re My Everything; Snow Is Falling; Blue Midnight; Skipping; Mandevilla; When Your Lover Has Gone; Whirl; Sad Poet; Mrs. Parker Of K.C.; Still Here. Il trio si muove tra mainstream e post-bop con swing e lirismo, confermando le doti di solista e compositore di Hersch e la buona vena accompagnatrice di John Hebert al contrabbasso e di Eric McPherson alla batteria. Ed infine il Live At Birdland del nostro Enrico Pieranunzi in una veste insolita, a condurre un quintetto latinoamericano che fa appunto il jazz tipico della cultura ispano-americana del Centro e del Sud del Nuovo Mondo: con formidabili musicisti quali Diego Urcola (tromba), Terry Yosvani (sassofoni e percussioni), John Patitucci (bassi), Antonio Sanchez (batteria) si produce anch’egli nell’improvvisazione attorno a Talk, Danza 2, Choro Del Infinito Hombre, Rosa Del Mare, Danza Nueva, Miradas, Tierra Nativa, tutti usciti dalle sue carte pentagrammate. È un sound vivace e caliente, ma al tempo ardimentoso e virtuosistico nel solco del miglior hard bop dagli echi caraibici.



Vinicius Cantuaria – Indio de appartamento (Naïve Records)

Sessantenne, originario di Manaus in Amazzonia, il cantautore e pluristrumentista cresce musicalmente a Rio de Janeiro; benché oggi sia giustamente annoverato tra i grandi della rinascita della bossa nova, gli inizi sono caratterizzati da un eclettismo che va dal rock con il gruppo O Terco ai successi di canzoni quali “Só Você” e “Lua e Estrela” dal gusto world pionieristico. Ma è solo quando si stabilisce a New York nel 1996 che Vinicius Cantuaria fa piazza pulita dei precedenti orpelli per tornare a un’asciuttezza del suono che al sound carioca mancava da oltre trent’anni, dai tempi appunto della prima bossa nova di Joao Gilberto e Tom Jobim. Ed ecco che negli album Sol Na Cara, Amor Brasileiro, Tucuma c’è già il cantautore intimista e un po’ jazzato così come lo si apprezza oggi. E da lì inizia il giro delle collaborazioni prestigiose fra i musicisti d’avanguardia nella Grande Mela: Laurie Anderson, Brad Mehldau, Arto Lindsay, Marc Ribot, Brian Eno, David Byrne, Ryuichi Sakamoto e Bill Frisell; questi ultimi due sono presenti, rispettivamente al pianoforte e alla chitarra, anche in Indio de appartamento, assieme ad altri cinque ospiti, dalla cantante Jesse Harris al piano di Norah Jones, fino al gruppo di brasiliani con Mario Laginha, Liminha, Olivier Glissant, Dadi, che però non suonano mai tutti assieme, essendo metà album registrato dal solo leader che, oltre cantare (e comporre nove pezzi su dieci), abbraccia chitarre, tastiere, batteria, percussioni. E il risultato in questo quarto album per la francese Naïve, dopo Cymbals, Samba Carioca, Lágrimas Mexicanas, è ancora una volta sorprendente grazie all’incredibile delicatezza generale, dove la ricchezza di contrasti non contraddice, anzi intensifica la voluta integrità stilistica che conduce alla fine verso un levigato classicismo.



Alain Caron – Sep7entrion (Cream Records)

Donny McCaslin – Perpetual Motion (Greenleaf Music)

La fusion è un genere moderno, forse l’ultimo grande novità jazz in ordine cronologico, che da oltre trent’anni continua imperterrita a macinare successi di pubblico, un po’ meno di critica per via di qualche grossolanità di troppo che talvolta coinvolge e penalizza anche esponenti di primo piano. Tuttavia la fusion, al pari di altre lingue jazz, consolidatesi nei decenni, come il modale, l’hardbop o lo stesso free, riesce continuamente a rinnovare se stessa, come dimostrano questi due nuovi album di jazzmen ancora poco conosciuti in Italia ma meritevoli di ascolti e attenzioni. Sono due opere assai differenti tra loro: l’unico legame riguarda il tipo di formazione: per entrambi la scelta ricade sul quartetto elettrico, anche se attorno a Perpetual Motion ruotano ben sette musicisti. L’album firmato da Donny McCaslin, al sax tenore, un protagonista della scena newyorchese progressista che filtra persino con l’avanguardia, è in fondo un work in progress, ossia il prodotto di una serie di collaborazione e sperimentazioni tra musicisti a cui vanno strette le etichettature; ed in effetti definire fusion al 100% questo disco sarebbe un errore, perché al suo interno vi confluiscono molte altre esperienze. Alla fine però si avverte che McCaslin e soci (l’onnipresente Tim Lefebvre al basso e via via Uri Caine, David Binney, Antonio Sanchez, Mark Giuliana, Adam Benjamin) vogliano soprattutto lavorare attorno al recupero creativo del jazzrock degli anni Settanta. Differente è il caso Sep7entrion di Alain Caron, bassista canadese, molto richiesto quale session man dai musicisti più svariati: la sua è invece una fusion canonica, che attinge alle influenze popolari degli anni Settanta/Ottanta, facendo ruotare attorno a sé e al proprio batterista (Damien Schmitt) alcuni validi esponenti della chitarra (Frank Gambale, Pierre Coté, Jean-Marie Ecay e pure Christophe Raymond al violino), e della tastiera (John Roney, Tony Raymond, Otmaro Ruiz) di ascendenza funky. Meno originale di Perpetual Motion, se proprio è necessario un confronto, Sep7entrion risulta comunque un disco fresco e ben suonato.



Ron Carter and The WDR Big Band – My Personal Songbook (Inadout Records)

Ron Carter dovrebbe essere considerato ormai una leggenda nella storia del jazz, eppure il suo carattere (schivo), il suo ruolo (perlopiù accompagnatore) e il suo strumento (il contrabbasso) non lo hanno certo imposto platealmente fra un pubblico avvezzo di solito agli esuberanti, ai frontman, a fiati, corde, percussionisti, tastiere che, pure nel modern jazz, producono chiasso, rumore, spettacolo. Ron Carter è invece un artista serio, tranquillo, puntiglioso che dunque non ama mettersi in mostra, ma semplicemente dare il meglio di se fornendo un apporto decisivo ai contesti più disparati (compresi i 34 album a suo nome dal 1961 a oggi). Incontratosi quasi per caso nel 2013 con Rich De Rosa – entrambi ospiti del Guimaraes Jazz Festival in Portogallo – Ron Carter viene invitato quale guest star della WDR Big Band di Colonia (Germania), che da anni è specializzata in dischi tributo al “visiting professor” che solitamente veste i panni del leader o del solista, come è successo, nel passato recente, ad esempio con Maceo Parker, Joe Zawinul, Bill Evans, Patti Austin, Billy Cobham. Il lavoro con Ron Carter risulta invece diverso da tutti gli altri, per i motivi di cui sopra, in particolare per il fatto che di rado ha fatto il caporchestra o il trascinatore; e quindi il problema viene risolto congiuntamente da De Rosa e da lui, puntando su un’attività meno nota però alquanto significativa: la composizione. Il contrabbassista è infatti autore, sin dagli esordi negli anni Sessanta, di numerosi temi per diversi colleghi, grazie a una vena soprattutto liricizzante, che ha trasformato semplici melodie in autentici jazz standard. Il disco si muove quindi su una interpretazione orchestrale di dieci piccoli capolavori – Ah Rio, Blues For D. P., Cut And Paste, – presentati con arrangiamenti sontuosi, dove a turno si susseguono begli assolo dai due ai cinque per volta di un Ensemble formato da jazzmen sia tedeschi sia americani. Ron Carter al contrabbasso interviene solo quattro volte con un personale contributo solistico, mentre il resto è un tripudio di fiati (e pianoforte, chitarra, batteria) nello stile tipico delle attuali orchestrone a metà tra mainstream e hard bop, non senza qualche lucente invenzione.



Joe Chambers – Horace To Max (Savant Records)

Mintzer, Moroni, Fioravanti, LaBarbera – La vita è bella (Abeat for Jazz)

Horace To Max, La vita è bella, Jasmine sono CD sono anch’essi tre CD all’insegna di un new hard bop, anche perché, nel primo caso, il leader Joe Chambers, ai tamburi (ma pure con vibrafono e marimba), fa parte del gruppo di Miles con In A Silent Way e in tanti altri dischi da Bobby Hutcherson ad Archie Shepp; il quintetto di base con Eric Alexander, Xavier Davis, Dwayne Burno, Steve Berrios, arricchito da tre ospiti, suona gli arrangiamenti del leader sui pezzi di Horace Silver e di Max Roach citati nel titolo, non senza disdegnare anche il repertorio di Dorham, Monk e Shorter. Nel secondo, la leadership è collegiale, ossia condivisa da tutti e quattro, due americani, Bob Mintzer (tenore) e Joe LaBarbera (batteria) e due italiani, Dado Moroni (piano) e Riccardo Fioravanti (contrabbasso); rispettivamente solista negli Yellowjackets e membro del Bill Evans Trio, gli statunitensi nobilitano una session che punta molto sulla title track (colonna sonora dell’omonimo film di Roberto Benigni, pluripremiato agli Oscar), nonostante la presenza di pezzi quasi tutti originals. Ma all’ascolto di questi dischi riemerge non solo il ritorno di alcuni Grandi del jazz, che hanno fatto e continuano a fare (assai bene) la storia di questa musica, ma anche la volontà di stupire, coinvolgere, accarezzare, sorprendere con un sound che parte dalla radici ma guarda al futuro attraversando la stretta attualità con la mano sul cuore e l’orecchio alla realtà del presente.



Billy Cobham – Palindrome (BHM Productions)

Ahmad Jamal – A Quiet Time (Dreyfuss Jazz)

Dave Holland Octet – Pathways (Dare 2 Records)

Michela Lombardi e Phil Woods – Sing & Play The Phil Woods Songbook (Philology)

Messi accanto, i quattro CD di Billy Cobham, Ahmad Jamal, Dave Holland, Phil Woods (con la vocalist italiana Michela Lombardi), rappresentano il ritorno compatto dei grandi del jazz, benché si tratti di personaggi che non sono mai scomparsi né sui dischi né ai concerti; semplicemente, alcuni di loro hanno diradato l’attività pubblica, a causa dell’età anagrafica o per meglio dedicarsi all’insegnamento o a lavori extramusicali. Infatti, oggi, negli Stati Uniti il jazzman famoso che vanta un curriculum di tutto rispetto – l’appartenenza alle ere leggendarie del bebop, del cool o dell’hardbop – è molto richiesto, in qualità di conferenziere, docente o testimonial, da istituzioni prestigiose, come università, accademie, scuole di musica e di perfezionamento. Tuttavia, a differenza dei colleghi rock o pop, che amano spesso prendersi lunghe pause chiudendosi per mesi negli studios di registrazione o frequentando con assiduità il jet-set internazionale al posto dei tradizionali palcoscenici, il jazzista ama suonare, suonare e suonare, ovunque, senza rinunciare al piccolo club o al mega festival, alla jam session o ai dischi altrui. E questo spiega l’abbondanza di testimonianze fonografiche in un solista molto o mediamente famoso: tuttavia E per restare su questi quattro grandi – dove con “Grandi” si intendono i personaggi ultrasessantenni, attivi dallo storico jazzrock in giù – si ascoltano oggi importanti novità discografiche di artisti coinvolti in progetti insoliti oppure raggruppati in formazioni inedite o ancora redivivi dopo inaspettati silenzi (con una giovane ospite italiana, in più). Talvolta l’autoesclusione dallo show business – celebri i ritiri dalle scene di Sonny Rollins, Lennie Tristano e Charles Mingus negli anni Sessanta o di Miles Davis a metà Seventies – giova alla propria creatività, benché non esistano regole al proposito: c’è l’hard boppers iperattivo che rimane sempre ad altissimi livelli, così come esiste il solista appartato, ma in grado di esprimersi compiutamente ogni qual volta arriva la giusta occasione. E di giuste occasioni si può quindi discorrere per questi nuovi quattro album!



Freddie Cole – Singing The Blues (HighNote Records)

Di dodici anni più giovane del fratello, il celebre Nat King Cole (1919-1965), Freddy inizia a cantare appena ventenne ma nel primo quarto di secolo di carriera – tra il 1952 e il 1978 – riesce a incidere solo sei dischi a 33 giri. È dal 1990 che Freddy Cole inizia una personale escalation che lo condurrà a primeggiare tra il vocalismo jazz tornato in auge, con ben ventitré album, tutti di buon livello, guadagnandosi persino nel 2010 una nomination ai Grammy con Freddy Cole Sings Mr. B, il lavoro dedicato al cantante bebop Billy Eckstine, di cui ama considerarsi allievo e continuatore. In effetti lo stile di Freddy, come si deduce anche, ovviamente, dall’ascolto di questo nuovo Singing The Blues può vantare diverse influenze dall’ambito coroner al più generale contesto afroamericano. E proprio alla cultura musicale afroamericana il suo riferimento è costante, giungendo persino a un vero e proprio tributo al generale che è la culla di tutte le espressioni vocaliche. Il modo di affrontare però il blues non è quello dei bluesman, ma ancora una volta è il mood del crooner o del jazzsinger a prevalere: un’intonazione calda, delicata, tranquilla, distesa, pacatissima. Ciascuno degli undici blues spesso famosissimi – All We Need Is a Place, Another Way To Feel, Ballad of the Sad Young Men, Goin’ Down Slow, Meet Me at No Special Place, Muddy Water Blues, My Mother Told Me, Old Piano Plays the Blues, Pretending, Singing The Blues, This Time I’m Gone For Good – è trattato come ballad o a mid-tempo anche grazie a un jazz quintet abilissimo, con Harry Allen, John di Martino, Curtis Boyd, Randy Napoleon, Elias Bailey, nei controcanti strumentali. Alle fine ne fuoriesce un CD assai godibile che potrà risultare utile, interessante, apprezzabile tanto dagli amanti del blues quanto, come sempre, dai fini intenditori del canto jazz.



Ernest Dawkins – The Prairie Prophet (Delmark)

Ernest Dawkins detto Khabeer, ancora poco noto in Italia, forse perché emerso come solista in età adulta (oggi ha 58 anni), resta comunque un musicista di spicco della scena avanguardista afroamericana da quais un ventennio; attuale presidente dell’AACM di Chicago, esponente di punta della creatività nera chicagoana, in qualità di sassofonista, compositore, band leader e talent court, Dawkins si forma artisticamente all’interno della stessa Association for the Advancement of Creative Musicians e poi alla Governors State University dell’Illinois. Musicista di grande intelligenza e di gusto fortemente teatrale, si impegna soprattutto a scrivere brani jazz dedicati alle lotte per i diritti civili negli Stati Uniti. Eccellente strumentista, oltre a dirigere propri gruppi, collabora con l’Ethnic Heritage Ensemble di Kahil El’ Zabar e lavora via via con improvvisatori radicali come l’Art Ensemble Of Chicago, Anthony Braxton, James Newton, Henry Threadgill, Steve McCall, Fred Hopkins, Amina Claudine Myers, Douglas Ewart, oppure con i divi del black pop The Dells, Jerry Butler, Ramsey Lewis. Questo nuovo disco con il New Horizons Ensemble attivo dal 1978, fonde mirabilmente bebop e post-bop, swing e new thing. Il Chicago Tribune lo descrive come «a band with an uncommon versatility that erupts into new music bursts of dissonance and color.» Ora in The Prairie Prophet, Dawkins (tenore e contralto), Steve Berry (trombone), Marquis Hille e Shaun Johnson (trombe), Jeff Parker (chitarra), Junius Paul (basso), Isaiah Spencer (batteria) eseguono sette composizioni originali dedicandole a Fred Anderson (pilastro dell’AACM) scomparso l’anno scorso, mostrando grinta e passione, regalando ancora un free intriso di cultura neroamericano ispirata soprattutto alla ribollente musica di Charles Mingus dei primi anni Sessanta.



Max De Aloe Quartet – Borderline (Abeat for Jazz)

Marcella Carboni – Stillchime (Abeat for Jazz)

«Il mondo del jazz in Italia è un mondo piccolo, lontano dal music-business e dai clamori, ma questo suo limitato potere commerciale ha il vantaggio di preservare la purezza e l’autenticità del processo creativo. Tradotto vuol dire che possiamo scrivere, suonare e registrare la musica che più ci aggrada. E non è poco». Così si esprime Max De Aloe nel booklet che accompagna il suo nuovo lavoro sorto, come egli stesso racconta, dopo la visita alla mostra Borderline a Ravenna: un’esposizione di quadri in bilico tra follia e normalità, dipinti perlopiù da gente rinchiusa in carcere o nei manicomi. E proprio per questo l’armonicista – tra l’altro eccellente virtuoso dello strumento cromatico – inserisce in scaletta oltre sette composizioni originali (di cui due dedicate all’opera del pittore Carlo Zinelli, per dieci anni in isolamento) le cover di musicisti per così dire “disturbati”, ma a cui non manca il talento geniale ed estroso, dal jazz al rock, dal pop alla classica, come Thelonious Monk (Ruby My Dear e In Walked Bud), Kurt Cobain (Smells Like Teen Spirit e All Apologies), Syd Barrett (See Emily Play), Robert Schumann (Andante cantabile). L’esito non è però drammatico, perché De Aloe recupera anche il lato gioioso di ciascun pezzo, trasformandolo in passionale romanticismo, ben sorretto dal vivace equilibrio della ritmica con Roberto Olzer (pianoforte), Marco Mistrangelo (contrabbasso), Nicola Stranieri (batteria). De Aloe compare anche in tre brani su nove dell’album dell’arpista Marcella Carboni, la quale, invece, non offre un manifesto programmatico, bensì propone indirettamente un gustoso omaggio al senso della melodia che trapela da un repertorio variegato composto per due terzi da standard individuati da vari momenti della storia jazzistica dalla bossa nova di Baden Powell (Samba em preludio) a una densa ballad Duke Ellington (African Flowers). De Aloe suona in nel song classicismo The Nearness Of You di Hoagy Carmichael e nel celebre soul-funk It’s Magic di Stevie Wonder, riservandosi anche, in Babel, un bel duetto con la voce di Francesca Corrias, cantante e autrice del pezzo. A completare un bell’album, dai suoni eterei, arcani, trasognanti dell’arpa della poetica Carboni, la ritmica con Yuri Goloubev e Francesco D’Auria fa il resto, proponendo, come detto all’inizio, la “musica che più ci aggrada” in un mondo piccolo.



Hamilton De Holanda – Brasilianos 3 (Adventure Music)

Hamilton De Holanda, trentaseienne di Rio de Janeiro, è tra le figure di maggior spicco tanto all’interno del jazz brasiliano quanto nel panorama vastissimo della nuova musica verdeoro. Suona infatti una sorta di mandolino locale – bandolim in portoghese – rinnovando in tal senso l’emblema tipico dello stile choro (musica folk strumentale), aggiungendo una quinta doppia corda (quindi da 8 a 10) su cui inventa una polifonia completa e un’espressività percussiva arricchita, con una raffinata carica inventiva e un suono potente, cristallino, inesauribile. Come Egberto Gismonti o Hermeto Pascoal anche Hamilton si allontana dal samba, dal tropicalismo e dalla bossa nova per cercare un feeling assai più jazzofilo, pur mantenendo la forza creativa dei grandi maestri del proprio Paese. Dopo vari dischi realizzati anche in Europa, De Holanda torna in Brasile per un nuovo album Brasilianos 3, il terzo dedicato appunto alla terra d’origine, che in gruppo, con bell’interplay, riprende il motto dell’autore “Moderno é Tradição” con un sound venato al contempo di arcaismi e contemporaneità, in quintetto con André Vasconcellos (contrabbasso), Gabriel Grossi (armonica a bocca), Marcio Bahia (batteria), Daniel Santiago (chitarra), più il grande vocalist e cantautore Milton Nascimento ospite nel brano Guerra e Paz, come gli altri otto composti tutti dal leader, che trova momenti eccelsi ad esempio nella swingante Primeiras Ideias o nei dieci minuti dell’epica A Marcha dos Candangos, mentre in altri pezzi come Precu ao Santo Céu l’atmosfera è assai raccolta, quasi intima. Insomma, alla fine, si ascolta un lavoro intenso, raffinato, intelligente che getta un ponte tra differenti culture.



Joey DeFrancesco – Never can Say Goodbye (HighNote Records)

Il trentanovenne organista di Springfield in Pennsylvania torna all’etichetta dei clamorosi esordi: con la HighNote aveva via via registrato tra il ’97 e il ’98 All In The family (’97), The Champ (’98) e i due tributi a Frank Sinatra e Don Patterson, ponendosi all’attenzione internazionale quale giovane promessa dell’hammond jazz (e anche del canto, del synth e del pianoforte). Le promesse vengono poi mantenute con il passaggio alla Concord e altri notevoli album come ad esempio Falling In Love Again (’02) e Organic Vibes (’05) con formazioni allargate di taglio hardboppistico. Ora il ritorno alla label newyorchese coincide con un tributo al defunto Re del Pop, come avverte il sottotitolo in copertina: The Music Of Michael Jackson. Si tratta di nove brani celeberrimi del repertorio di Jacko – Thriller, Never Can Say Goodbye, Beat It, Human Nature, Rock With You, She’s Out of My Life, The Way You Make Me Feel, Lady In My Life, Billie Jean – reinterpretati con un mood autenticamente jazziale da un quintetto comprendente il leader su tre diversi organi (ma anche alla tromba, al piano, alla voce), Paul Bollenback (chitarre); Pat Bianchi (tastiere), Byron Landham (batteria), Carmen Intorre (percussioni), più Ann Fontinella (violino), Mark Reynold (effetti sonori), Annie Sciola e Samatha Aurelio (cori) solo in alcuni pezzi. Il risultato finale è notevole e originale, a dimostrazione di certa duttilità del canzoniere jacksoniano che all’epoca degli LP migliori – Thriller, Bad, Off The Wall – s’avvaleva degli arrangiamenti di un grande jazzman quale Quincy Jones, che però forniva un sound tra funk, r’n’b, fusion e disco-dance. Ora questi ultimi aspetti vengono rimossi da Joey DeFrancesco che invece recupera le linee melodiche essenziali di ciascuna canzone (oltre un certo gusto soul) per lunghe sortite solistiche e improvvisative a conferma dell’estrema versatilità dell’intera musica jazz.



Dena DeRose – Travelin’ Light (MaxJazz)

Classe 1966, da Binghantom (Stato di New York), alcuni trascorsi negli sport invernali, oggi insegnante di pianoforte, come musicista si afferma nella Grande Mela alla fine degli anni Novanta con l’album Introducing DeRose (Sharp Nine, 1996), al quale fa seguito solo altri sei dischi, con varie formazioni, dal trio al settetto: Another World (1999), I Can See Clearly Now (2000), Love’s Holiday (2002), A Walk in the Park (2005) e i due Live at Jazz Standard (2007 e 2008). Anche questo nuovo Travelin’ Light è dal vivo, registrato nel club Chromatic Attic ad Anversa (Belgio) il 25 e il 27 marzo 2010, ma rispetto agli altri presenta una succosa sostanziale novità: la protagonista agisce alla voce e al pianoforte in completa solitudine; ed è un’occasione più unica che rara, visto che quella che ormai può ritenersi una moda – la donna al canto e alla tastiera, con gli exploit popolari di Diana Krall o Norah Jones – consta sempre di una sezione ritmica o addirittura di una grande orchestra. Si tratta di un duplice impegno che pochi artisti hanno affrontato, ma che Dena DeRose ha saputo brillante risolvere con estro, fantasia, creatività, pur nell’ambito di una situazione intima, raccolta, quasi cameristica. Ma l’innato senso dello swing jazzistico tanto alla voce quanto al pianoforte, sia nei brani lenti sia nei pezzi veloci, in un repertorio di tredici standard come Blue in Green, East of the Sun, How Little We Know, I’m Old Fashioned, Never Told You, Nice ‘n’ Easy, Portrait in Black and White, S’Wonderful, Twilight World, Two Different Worlds, We Will Meet Again, Why Did I Choose You? più la title track conferma il talent di una jazzgirl che nell’intonazione vocale sembra via via ispirarsi a Sarah Vaughan e Carmen McRae, mentre nell’accompagnamento pianistico ricorda Nat King Cole e Shirley Horn.



Daniele di Bonaventura e Giovanni Ceccarelli – Mare calmo (EvArt)

Filippo Cosentino – L’astronauta (Emme Record Label)

Da diversi anni, ormai, ripetiamo, in particolare recensendo i dischi, che il jazz italiano sta facendo passi da giganti, mettendosi quasi alla pari, su un piano generale, con le grandi nazioni jazzistiche (Stati Uniti ovviamente, ma anche Francia, Germania, paesi scandinavi), rilevandosi talvolta musica originalissima con alcuni solisti già internazionalmente accreditati (Rava, Fresu, Bollani, Pieranunzi, Cafiso e pochi altri). Al di là dei nomi altisonanti, il cosiddetto sincopato tricolore offre ancora graditissime sorprese come questi due nuovi album, che si presentano appunto ‘nuovi’ sin dalle formazioni: Mare calmo è in duo con Daniele di Bonaventura al bandonéon e Giovanni Ceccarelli al pianoforte e al whistle, L’astronauta di Filippo Cosentino in quartetto è con il leader alla chitarra (acustica e classica) e con Antonio Zambrini al pianoforte, Jesper Bodilsen al contrabbasso, Andrea Marcelli alla batteria. Nuovi anche per le location, registrato a Fara di Sabina (Rieti) il primo, a Camerino (Macerata) il secondo, mostrando simbolicamente la diffusione sul territorio dell’italian jazz; e nuovi soprattutto per lo stile e il suono: comune a entrambi è una ricerca raffinata che si concentra tanto sulla timbrica e il colore degli strumenti musicali, quanto sui materiali tematici originali a loro volta ispirati alle tante culture mondiali. A scorrere infatti già l’elenco dei brani di ciascun disco (soprattutto il primo) si nota subito diversi titoli che fanno riferimento a musiche, luoghi, atmosfere, linguaggi di natura al contempo vicina è lontana dal Mediterraneo al Sudamerica, dall’Oriente all’Universo. In dettaglio in Mare calmo prevale un fitto dialogo fra Daniele di Bonaventura e Giovanni Ceccarelli, in cui si mette in luce il reciproco brillante virtuosismo (alle prese in due brani anche in solo, con se stessi). Invece ne L’astronauta Filippo Cosentino imbastisce un lavoro di gruppo, quasi modellandosi evocativamente sul sound del Modern Jazz Quartet con il leader si appropria della delicatezza vibrafonistica di Milt Jackson. Con questi due bei CD confermiamo dunque che il jazz italiano sta facendo passi da giganti, mettendosi alla pari con le grandi nazioni jazzistiche.



Brandi Disterheft – Second Life

Continua la recente fortunata serie di contrabbassiste (talvolta cantanti), giovani e carine, ma anche serie e attentissime ai valori musicali. Dopo la mulatta Esperanza Spaulding, l’australiana Nicki Parrott (entrambe attive a New York), ora tocca a una canadese, Brandi Disterheft nata nel 1980 a Vancouver (British Columbia) dove ha studiato presso la Handsworth Secondary School e in seguito al Humber College di Toronto sotto la guida di Don Thompson. Ha quindi avuto, come docenti, insigni jazzmen da Rufus Reid a Rodney Whitaker, fino all’anziano geniale Oscar Peterson che l’ha in un certo senso scoperta e lanciata nel panorama jazz nazionale, sostenendo che la ragazza possegga addirittura un imprinting ritmico degno di Ray Brown, forse il maggior virtuoso dello strumento accompagnatore. Nel 2007 Brandi Disterheft esordisce con l’album intitolato Debut (Superfran Records) aggiudicandosi, l’inverno successivo, il premio Juno Award come miglior album di jazz tradizionale dell’anno. Ora tocca a questo Second Life dove il jazz è decisamente moderno, con un bel tiro funky e tanto swing lucido, compatto, onirico e divertente, in grado di esplicitare anche preziosi solismi, su brani costruiti come canzoni, ossia con temi sovente melodici, le cui linee si imprimono subito nella memoria. In alcuni casi poi il melodismo vien per così dire facilitato, quando canta lei, non su tutto il disco ma due sole volte, in sestetto, da Combien de chances a Twilight Curtain, mentre poi s’avvale di brave vocalist da Ranee Lee alla celebre Holly Cole rispettivamente in He’s Walkin’ e This Time The Dreams On Me. Per il resto l’album è anche molto vario, passando dal classico piano-jazz-trio in Liege, Let Her Shine, A Night In Haiti ai duetti kalimba/rhodes in Dawn e Second Dawn, dai quartetti bop in Sketches Of Belief e My Only Friends Are The Pingeons. Insomma un disco rimarchevole per il buon momento del canadian jazz.



Ergo – Moltitude, Solitude (Cuneiform Records)

Ergo è un nuovo trio proveniente da Brooklyn e formato da Brett Sroka (trombone, computer), Carlo Maguire (tastiere, pianoforte, effetti elettronici), Shawn Baltazor (batteria, percussioni). Moltitude, Solitude è il secondo Cd che segue a circa tre anni dall’esordio con Quality Anatomechanical Music Since 2005 (Actuator, 2006) e dalla loro unica apparizione italiana durante il festival Risonanze a Venezia nel 2008. Il sound di Ergo è veramente originale, persino innovativo nel mare magnum del jazz attuale ed è diverso dal solito proprio perché va anche al di là dei generi consolidati o prestabiliti: la critica americana li ha paragonato a una fruttuosa miscela di tanti generi come se Louis Armstrong si incontrasse con i Radiohead, Ornette Coleman con Aphex Twin, o Sun Ra con i Sigur Ros; proprio questi ultimi con il loro sound rarefatto paiono ispiratori diretti di una musica ovattata, quasi cameristica per definizione, ma di un jazz da camera (che per altro è sempre esistito) che ama confrontarsi anche con i linguaggi più attuali, oltre quelli classici in senso stretto: infatti un certo stile ECM – dunque nordico, freddo, distaccato, persino cool nell’accezione più vasta del termine, da sessant’anni entrato nel gergo afroamericano – viene in Moltitude, Solitudine combinato al post-rock, all’electronica, all’avant-garde, all’ambient. Nei sei brani del disco – dai tre minuti di Rana Sylvatica ai dodici di Vessel immediatamente successivo, passando quindi, nell’ordine, a She Haunts Me, Little Shadow, Endlessy, Actuator – gli assolo, i dialoghi fra i tre musicisti, sono quasi tutt’uno con la bellezza semplice delle linee melodiche, con il viluppo di scenari elettro-acustici, con un’immaginazione empatica, con l’equilibrismi fra scrittura e improvvisazione.



Sammy Figueroa – Imaginary Word (Savant Records)

Sammy Figueroa nasce nel Bronx da una famiglia di origine ispanoamericane e fin da giovane, nei primi anni Settanta, matura una forte passione per il suono delle percussioni, che studia fino a diventare fra i musicisti più richiesti in quest’ambito: l’elenco di musicisti pop, rock, soul, jazz con i quali suona via via da allora a oggi è quasi sterminato – da Miles Davis a Sonny Rollins, da David Bowie a Mariah Carey, per citarne alcuni – e forse non c’è al mondo nessun altro percussionista che possa vantare un numero di collaborazioni così importanti per quantità e qualità. Anche come leader – già a diciott’anni forma con il bassista Bobby Valentin il gruppo latin-fusion Raices – Sammy non si fa mancare nulla, registrano a proprio nome diversi album tra cui And Sammy Walked In e The Magician vantano due nominations ai Grammy Awards nel settore “Best Latin Jazz Album. Anche questo nuovo Imaginary Word potrebbe rientrare nella stessa categoria, benché un ascolto meditato riveli, dietro le apparenze, un carattere più jazzistico che latino: e in effetti, al di là degli strumenti del leader – gli endorses sono Pearl Percussion, Sabian Cymbals, Vic Firth Sticks – il sestetto ha l’organico di una vera e propria jazz band con i produttori/arrangiatori Silvano Monasteiros e Gabriel Vivas (fotografati e citati in trio anche in copertina) a suonare rispettivamente il pianoforte e il contrabbasso, mentre ai fiati si trovano Alex Pope Norris (tromba) e Troy Roberts (sax tenore) e alla batteria David Cherton (più due ospiti in un paio di brani). I nove brani – ripartiti nella scrittura metà da Monasteiros e metà da Vivas, tranne l’ultimo (Cuidado di Sheller) – nella forma e nei contenuti hanno uno spiccato gusto hard bop con qualche dolcezza mainstream e ovviamente il calore latineggiante negli echi di salsa, rumba, samba.



Fred Hersch Trio – Whirl (Palmetto Records)

Malato di Aids, Fred Hersch nel 2008 va due volte in fin di vita, in coma per oltre due mesi e per ben otto mesi non fu in grado di bere o di cibarsi; l’Aids passato al cervello gli causa addirittura una forma di demenza che lo porta all’isolamento fisico e mentale con una grave forma paranoica. Ma grazie ed alle cure dei medici e alla forza d’animo, oggi il pianista di Cincinnati è un uomo rinato, come dimostrano l’album con il concerto dal vivo della sua Pocket Orchestra, la registrazione in piano solo dedicata alla bossa di Jobim e appunto questo Whirl con l’accompagnamento di John Hebert (contrabbasso) e Eric McPherson (batteria). E Fred Hersch, che esordisce durante anni tanta nei gruppi di Stan Getz e di Joe Henderson, si conferma pianista elegante, ribadendo che la qualità di musicista brillantissimo e di maestro assai singolare, così come avevano scritto a suo tempo rispettivamente dalle colonne di Downbeat e del New York Times. Sono dieci i brani che il leader inserisce nel disco, spaziando tra propri originals, ovvero Mandevilla, Sad Poet, Skipping, Snow Is Falling, Still Here e la bella title track e una scelta accurata di standards poco frequentati dagli stessi jazzisti; e sono pezzi composti da songwriters come You’re My Everything (Harry Warren) e When Your Love Has Gone (A.E. Swan) oppure da jazzmen contemporanei quali Mrs. Parker of K.C. (Jaki Byard) e Blue Midnight (Paul Motian). E il disco fila liscio, compatto, ben strutturato nel perfetto bilanciamento fra le linee melodiche e le cavalcate soliste, a ribadire la forza morale di un vero artista. Se poi, si volessero approfondire gli ascolti, la discografia di Fred Hersch è ricchissima, trovando soprattutto nel trittico Passion Flower: F:H. Plays Billy Strayhorn, F.H. Plays Rodgers And Hammerstein, Thelonious: F.H. Plays Monk, registrati tra il 1995 e il 1997, tutti per Nonesuch, un punto di riferimento del jazz postmoderno.



Curtis Fuller – The Story Of Cathy & Me (Challenge Records)

È un omaggio commovente, sensibile, poetico, doloroso alla moglie Cathy, la signora Catherine Rose Driscoll Fuller scomparsa per un tumore nel 2010 a cinquantasei anni , alla quale il settantaseienne trombonista di Detroit era legato in matrimonio dal 1980. Dunque questo disco è un tributo musicale pervaso di solitudine e malinconia, che solo il jazz forse sa esplicitare in una forma di racconto compiuto, stavolta ripartito in quindici capitoli, rispondenti ad altrettanti brani molto variegati, in cui non mancano sprazzi di allegria o felicità, nel ricordo dell’amata; già i titoli in scaletta riflettono questo tipo di narrazione: Interlude 1: My Name Is Curtis Fuller; Little Dreams; The First Time Ever I Saw Your Face; Asked & She Said Yes; The Right To Love; My Lady’s Tears; Interlude 2: My Children; Sweetness; Look What I Got; Interlude 3: Cancer, A Horrible Experience; Life Was Good, What Went Wrong; Love Was Everything When Love Was You And Me; Too Late Now; Spring Will Be A Little Late This Year; Interlude 4: My Wish For Cathy And My Friends. E a ciò si aggiunge un hard bop fresco, sincero, multiforme con il leader assai ben ispirato e molto ben sorretto da una band al contempo delicata e vigorosa grazie all’onnipresenza – oltre Curtis Fuller all’inseparabile trombone – di Lester Walker (tromba), Daniel Bauerkemper (sax tenore) Nick Rosen (piano), Brandy Brewer (basso), Henry Conerway III (batteria) e in sette brani via via Akeem Marable (tenore), Clarence Levy (percussioni), Kenny Banks, Jr. (piano), Kevin Smith (basso) e Tia Michelle Rouse (voce). Il risultato alla fine è considerevole, anche per la sincera partecipata originalità del progetto, per un musicista che ha attraversato oltre mezzo secolo di storia jazzistica, vero e proprio eroe del trombone jazz moderno accanto a J. J. Johnson e Kai Winding, in grado persino di influenzare, allora, nel linguaggio armonico il genio di Miles Davis e John Coltrane.



Tia Fuller – Decisive Steps (Mack Avenue)

A vederla nelle immagini della copertina e del libretto del disco sembrerebbe la tipica cantante dance: Tia Fuller viene infatti fotografata in ambiti succinti, tacchi vertiginosi, pose un po’ sexy. Ma l’abito non fa il monaco, come dice il proverbio: a sentire l’album emerge invece una jazzista coi fiocchi, lontana insomma dal cliché dello show business che in questo caso non giova a una ragazza di talento, che, a differenza di tante divette black, riesce musicalmente a puntare su basi concrete per un jazz decisamente moderno. Altra novità di Decisive Steps è la formazione composta da tutte donne: oltre la leader al flauto e ai sax alto e soprano, troviamo Shamie Royston ai pianoforti acustico ed elettrico, Miriam Sullivan al contrabbasso e Kim Thompson alla batteria. Non è però acceso femminismo esclusivista: gli ospiti infatti, in metà dei brani, sono tutti uomini (e famosi) come Sean Jones alla tromba, Christian McBride ai bassi, Warren Wolf al vibrafono e Maurice Chestnut da tap dancer. Il discorso su jazz e liberazione femminile riguardava semmai, negli anni Settanta-Ottanta, le jazziste nordeuropee: qui magari sembra riproporsi un fenomeno rimasto un po’ ai margini della storia del jazz, ma riscoperto qualche tempo fa con alcune antologie di 78 giri dell’epoca swing con big band di sole fanciulle. Del resto il ruolo della donna nel jazz non si è mai limitato a quello della cantante, come vorrebbe far credere una pur notevole tradizione di blues, bop, soul, free singers da Bessie Smith a Jeanne Lee, passando attraverso le superlative Ella, Billie, Sarah, eccetera. Fin dalle origini esistono jazzwomen in vesti di strumentiste, arrangiatrici, band leader come Lil Hardin, Mary Lou Williams, Melba Liston e Jutta Hipp, e oggi ad esempio Marilyn Crispell, Maria Schneider, Sylvie Courvoisier, Susie Ibarra, Annette Peacock, Carla Bley, Myra Melford, Nicole Mitchell, Esperanza Spaulding sono musiciste di primaria importanza. Tia Fuller, ora al terzo album a proprio nome, dopo Pillar of Strength (Wambui, 2005) e Healing Space (Mack Avenue, 2007). oltre una decina in vari gruppi (tra cui il notevole Turned To Blue dell’anziana jazz singer Nancy Wilson), e dopo due anni di tournée nella band della cantante Beyoncé, eccola con Decisive Steps alla prova del nove, o meglio del tre: il terzo album da solista per un artista jazz è veramente qualcosa che può far compiere il salto di qualità; e così sarà probabilmente in quanto la stoffa c’è: talento sicuro nel fraseggio, nel timbro, negli assolo di coltraniana memoria e mano felice nel comporre sette brani su dieci: l’iniziale title track, la delicata Shades Of McBride e lo standard conclusivo My Shining Hour sono i tasselli migliori di un mosaico coloratissimo.



Giacomo Gates – Everything Is Cool (Savant Records)

Ecco un altro personaggio, tutto da scoprire, almeno in Italia: un vero cantante jazz che approda negli ambienti artistici in maniera definitiva e continuativa solo negli ultimi due decenni in parallelo alla carriera di docente universitario sempre su argomenti musicali. Prima di allora, Gates si dedica ai mestieri più disparati (guidano persino bulldozer) in lungo e in largo per gli States (Alaska compresa), quasi in sintonia con i vagabondaggi esistenziali cari alla precedente beat generation. Ma in un certo senso nello stile e nel vocalismo di Giacomo si può riscontare un’affinità più o meno diretta con la cultura beatnik e hipster, che tenta con la jazzpoetry un connubio tra letteratura e improvvisazione e che all’epoca, già alla fine degli anni Quaranta, predilige un canto jazz d’intonazione bebop che poi sfocerà nell’innovazione del vocalese. E dunque proprio al vocalese nel precipuo lato teatraleggiante, raccontatore, cabarettista, si richiama Everything Is Cool, dove, fra i dodici song presenti, dal sapore agrodolce dei blues e delle ballad, con lo strascicato swing uptempo, si ascoltano ben tre cover di Babs Gonzales (When Lovers They Lose, Here Today And Gone Tomorrow e la title track) ovvero il vocalist che per primo traghetta il canto bebop verso un inedito fraseggio e una complessa raffinata sillabazione. Ma le sorpese non si fermano qui, perché, eccetto un proprio intervento (Who Threw The Glue?) ricanta i consimili Jon Hendricks (Social Call) e Oscar Brown (Hazel’s Hips) oppure i pezzi bop o cool in origine strumentali di Frank Rosolino (Please Don’t Bug Me), Thelonious Monk (Well You Needn’t) e di Dave Brubeck (il celeberrimo Take Five). E c’è pure posto per Elvis Costello riletto da Chet Baker (Almost Blue) o per il geniale Lenny Bruce con un monologo (All Alone) trasformato in una cantilena un po’ da crooner.



Roberto Gatto Quintet – Remembering Shelly (Albóre Jazz)

Enrico Intra e Franco Ambrosetti – Live In Milan (Albóre Jazz)

Wasabi – Closer (Via Veneto Jazz)

Questi tre album di jazz italiano hanno molti denominatori comuni, a partire da quello per così dire esotico che riguarda il Giappone, nel senso che i primi due CD appartengono a un’etichetta nipponica (distribuita in Italia da Egea), mentre il terzo presenta un gruppo il cui nome fa riferimento alla tipica salsina per condire pesci e verdure nel Paese del Sol Levante. Poi sono tutti e tre dischi molto belli, a dimostrazione dell’effettiva raggiunta maturità del sound nostrano, anche in rapporto a una valorizzazione internazionale (nel terzo infatti compare un gradito ospite straniero). E ancora si può dire che Remembering Shelly, Live In Milan e Closer siano dischi a tema, non concept album secondo la tradizione rock, ma tre opere incentrate su altrettanti progetti unitari: nel primo caso c’è l’omaggio al grande batterista Shelly Manne, esponente del west coast jazz negli anni Cinquanta alla testa di piccoli gruppi con favolosi solisti; nel secondo il tributo è alla città di Milano (citata attraverso vie e personaggi), che è il luogo adottivo in cui operano da sempre i due co-leaders; nel terzo infine si tratta di qualcosa di più sfumato o più vicino, come pare suggerire il titolo, un rimando insomma a paesaggi, sentimenti, colori del vissuto quotidiano. Musicalmente parlando il tutto si traduce in Remembering Shelly nell’ottimo quintetto guidato da Gatto (batt.) con Max Ionata (ten.), Marco Tamburini (tr.), Luca Mannutza (p.), Giuseppe Bassi (cb.), dove i sei lunghi standard e un solo original vengono riproposti seguendo in parte lo stile dei gruppi di Manne, ma optando al contempo per un sound più italiano e personalizzato. Italiano e personalizzato sono anche due aggettivi che calzano a pennello per Live in Milano dove Intra (p.) meneghino doc assieme ad Ambrosetti (tr.) svizzero ticinese si lanciano in due, in trio e in quartetto, ben supportati dalla ritmica di Luciano Terzano (cb.) e Tony Arco (batt.), per un jazz sperimentale che non rinnega liricità e melodia nei sette pezzi del primo e nei due del secondo e nei due potenti standard. Per quanto concerne infine Wasabi, il trio fa leva su Lorenzo Feliciati (b.), Alessandro Gwis (p., tast., sint.), Emanuele Smimmo (batt.) con l’amichevole partecipazione di Cuong Vu (tr.) americano di origine vietnamita. A parte i tre brani in quartetto i restanti otto rappresentano l’evoluzione del classico piano jazz trio con tutto l’armamentario di Gwis in bell’evidenza tra post-bop e nu jazz elettronico.



David Hazeltine – Inversions (Criss Cross Jazz)

David Hazeltine, cinquantadue anni, nativo del Mikwaukee si è messo in luce nei primi anni Novanta come pianista classico dalla personalissima originalità, che consisteva nell’approfondire le sonorità perpetuate da tutti quei pianisti che non avevano condiviso in pieno la rivoluzione bebop, preferendo mantenersi sul crinale di una sobria mainstream. Ed ecco quindi David Hazeltine rifarsi, per sua stessa ammissione, via via a Oscar Peterson, Barry Harris, Buddy Montgomery e il più moderno Cedar Walton, dai quali ricava un robusto swing coniugato a un altrettanto incisiva qualità melodica, in grado di spaziare tranquillamente dai ritmi brillanti alle situazioni calme, moderate, rilassate. In tal senso la produzione discografica di David Hazeltine è lo specchio fedele di questa proposta estetica: dal 1992, quando si stabilisce a a New York, a oggi sono una ventina i dischi pubblicati a proprio nomee tutti di buon livello, alcuni persino eccellenti come i due trii Modern Standards (Sharp Nine, 2004) con David Williams e Joe Fansworth o Manhattan (Chesky, 2005) con George Mraz e Billy Drummond, senza dimenticare The Jobim Songbook In New York (Chesky, 2006) ancora in tre o The Inspiration Suite (Sharp In Nine) con un quintetto quasi simile alla formazione di Inversions; cambia infatti il solo Joe Locke e poi nel nuovo album suonano, oltre il leader al pianoforte, Eric Alexander al tenore, Steve Nelson al vibrafono, John Webber al contrabbasso e il fido Farnsworth alla batteria. Il repertorio di Inversions comprende su otto brani originali come la title track, A Lil’ Bit e For Cedar, un pezzo veloce del sassofonista (Dave’s System), una celebre song di Cole Poter (Everything I Love) e due cavalli di battaglia dello storico bebop quali Tin Tin Deo (Gillespie) e Lover Man (Ramirez, ma nello stile di Parker). I cinque procedono con il loro inequivocabile mainstream, condito di hard bop, scambiandosi frequenti assolo, a dimostrazione di solidità e compattezza nel suonare assieme e nel mostrare indubbie doti strumentisti sui temi di un jazz arcinoto.



Heads Of State – Search For Peace (Smoke Sessions)

Il discorso fatto intorno al nuovo album di Steve Davis (Say When) e di altre recenti produzioni Smoke Sessions – ad esempio Night And Day di Vincent Herring, Afro Blue di Harold Mabern, Spiritman di Steve Turre, Collective Portrait di Eddie Henderson – vale a maggior ragione per questo nuovo supergruppo composto da Gary Bartz (sassofoni), Larry Willis (pianoforte), Buster Williams (contrabbasso), Al Foster (batteria) che incarnano la quintessenza dell’hard bop di ieri, di oggi e forse di domani. A leggere attentamente i nomi, si scopre che due di loro (Bartz e Foster, i più anziani) han fatto parte del Miles Davis elettrico, quando il mitico trombettista proprio non ne voleva sapere di rileggere il proprio passato. Eppure Bartz e Foster, come del resto lo stesso Miles, arrivavano prima del jazzrock, essendo maturati a suon di hard bop, lo stile che appunto accomuna l’intera gamma Smoke Sessions. È trascorso ormai molto tempo sia dalla buriana fusion sia dagli inizi del jazz contemporaneo che però coincidono con un tipo di sound (l’hard bop, appunto) che si suona tutt’ora. Il problema è come suonarlo. E per farlo bene, con cognizione di causa, chi meglio degli ex vi riuscirebbe? Nessuno o quasi. Ecco dunque il ritorno all’ovile – peraltro già sancito da molto tempo – di Bartz e Foster che assieme a Williis e Williams danno vita a un poderoso quartetto a riflettere vecchi ma sempreverdi amori, dal mainstream in avanti, fino al John Coltrane Quartet, qui direttamente omaggiato attraverso un celebre brano coltraniano come Impressions o mediante la rilettura di Search For Peace di McCoy Tyner, che nel gruppo era l’inimitabile pianista. Ma Bartz, di fatto, anche se non ufficialmente, il leader di Heads Of State, sforna pure due interessanti originals, Soulstice e Uncle Bubba, oppure guarda ad altri due maestri del sax, rispettivamente contralto e tenore, proponendo Capucin Swing di Jackie McLean e Summer Serenate di Benny Carter. E per finire – sempre all’insegna di un quartetto coeso e raffinato – non manca nemmeno “la tradizione” con gli standard dall’evocatrice I Wish I Knew di Waren/Gordon all’ellingtoniana Lotus Blossom di Bily Strayhorn.



Ideal Bread – Transmit (Cuneiform Records)

Mats/Morgan Band – The Music Or The Money? (Cuneiform Records)

The Claudia Quintet – Royal Toast (Cuneiform Records)

Alla domanda ancora frequente se esista oggi un jazz d’avanguardia, si potrebbe rispondere semplicemente invitando a consultare il catalogo e in particolare ad ascoltare i dischi della Cuneiform Records, la prestigiosa etichetta statunitense ubicata a Silver Spring nel Maryland, che da circa un ventennio si espone con opere coraggiose e anche con un’attività meritorio di recupero sulle creativissime ricerche del jazz britannico durante i Seventies (vedi Soft Machine e affini). Ma pure sul nuovo la Cuneiform è prestigiosa, autorevole, originale, come ad esempio accade con queste tre ottime uscite. Ideal Bread è un quartetto composto da Josh Sinton (sax baritone), Kirk Knuffke (tromba), Reuben Radding (contrabbasso) e Tomas Fujiwara (batteria) che, come avverte il sottotitolo (Vol. 2 Of The Music of Steve Lacy) riprende e omaggia il free jazz del grande sopranista (1934-2004) con una formazione non dissimile da quella con Enrico Rava che esordì per la ESP nei lontani anni Sessanta: certo, il suono del soprano è diverso da quello del baritono, ma gli Ideal Bread puntano alla sostanza in merito soprattutto al ruolo compositivo e all’aspetto strutturale delle improvvisazioni lacyane. Mats/Morgan Band è un collettivo codiretto dagli svedesi Mats Öberg (pianoforti) e Morgan Ågren (batteria), che suona assieme da oltre un quarto di secolo; della band stabilmente fanno ora parte Jimmy Agren (chitarre), Tommy Tordsson (basso), Patrik Ogren (cello), Eric Karlsson (tastiere) più altri nove orchestrali per questo album doppio che fin dal titolo si rifà chiaramente al mitico concept We Are In It Only For The Money (1967) delle Mothers Of Invention a sua volta risposta critica al Sergeant Pepper dei Beatles; e quindi si tratta di un lavoro eclettico che mescola parecchie sonorità da Frank Zappa alla Mahavisnhu Orchestra, da Miles Davis agli Earth Wind & Fire per arrivare comunque a un sound fresco e personale. The Claudia Quintet è infine un gruppo composto da superstar della neoavanguardia nordamericana con il leader percussionista John Hollenbeck attorniato da Drew Gress (basso), Matt Moran (vibrafono), Ted Reichman (fisarmonica), Chris Speed (sax tenore e clarinetto) e l’amichevole partecipazione di Gary Versace al pianoforte: qui la musica, complice la strumentazione, è meno aggressiva e più melodica, benché non manchino i riferimenti allo Zappa degli ani Settanta e al minimalismo colto (tipo Steve Reich). Tutti e i tre dischi in conclusione mostrano come esista oggi un jazz d’avanguardia che si può ascoltare con piacevolezza e rilassamento, senza nulla togliere all’intelligenza delle singole proposte.



Keith Jarrett e Charlie Haden – Jasmine (ECM Records)

Capita spesso, nel jazz, che qualcuno centellini le proprie apparizioni tanto dal vivo quanto su CD: il caso più noto resta quello di Keith Jarrett che però risulta afflitto dalla sindrome da affaticamento cronico, ovviamente surclassata da imprese artistiche sempre di notevolissima qualità, come il recente Jasmine (ECM), con il quale torna a esibirsi in duo con Charlie Haden dopo trent’anni. Secondo Paolo Assiero sono quattro i punti di forza di questo lavoro: la scelta del repertorio che attinge al songbook americano tra brani più o meno noti esplorando nel contempo territori inaspettati; l’attenzione per il suono tipica di casa ECM è qui portata avanti splendidamente senza che arrivi ad apparire una ricerca fine a se stessa; la forza di una musica che ci suggerisce ad ogni nota il coinvolgimento emotivo dei musicisti (come non essere di tanto in tanto scossi dalle incursioni vocali spesso strazianti dello stesso Jarrett?); l’assoluta compatibilità dei due musicisti porta ad un equilibrio ineguagliabile: il carattere riflessivo di Haden riesce in qualche modo a dominare l’irruenza di Jarrett (provate a confrontare le sue esecuzioni su Jasmine con gli esiti densissimi raggiunti nel trio con Peacock e DeJohnette); la formazione è assolutamente orizzontale e il ruolo di primo piano tra i due musicisti si scambia in maniera sorprendentemente naturale.



Line Kruse – Dancing On Air (Stunt Records)

«Con quest’album il mio desiderio è stato quello di creare una musica che, come un ponte, unisse i mondi in cui musicalmente navigo tutti i giorni. Dal Nord e dal Sud… le influenze si sviluppano, si arricchiscono… e si fondo assieme.» Questi gli intenti che l’autrice scrive e sintetizza a grandi lettere nel booklet del disco: giunta, dopo Warn Waves e Dream, al terzo album la violinista danese, che da anni vive a Parigi, offre un lavoro compatto e omogeneo, pur tra i mille richiami voluti ed esplicitati, firmando tute le dieci composizioni, come pure gli arrangiamenti e la direzione di una band cosmopolita. Infatti i musicisti che di volta in volta si ascoltano, a piccoli gruppi, nei vari Dolan, Festejo, Gymnopédie No. 1, Källebäcken, Recuerdos, Road Movie, Smoke, Sprin, Wandering Winds e nella title track, rispondono al nome di Jean Yves Jung (pianoforte), Lars Danielsson (contrabbasso), Minino Garay (batteria, bombo, percussioni), Miguel Ballumbrosio (cajón, zapateo, bata-cajón, quijada), Manu Sauvage (sintetizzatori), Jean Pierre Smadja (oud), Nico Morelli (Fender Rhodes), Fabrizio Fenoglietto (basso), Michel Feugère (tromba), Denis Leloup (trombone), Stéphane Chausse (clarinetto), Julie Gros (violoncello), oltre Line Kruse al violino, ai fiati, alla programmazione degli archi. Va da sé che con tale varietà di strumenti musicali, il sound non può che essere un world-jazz che guarda alle tradizioni scandinave, francesi, argentine e ispano-americane in genere in un tripudio di improvvisazioni post-bop, ritmi latini, armonie nordiche, insomma un raffinato mescolamento di folclore ed electro-jazz che fa di Line Kruse e di Dancing On Air un punto di riferimento per quella nuova musica europea che, come diceva la protagonista all’inizio, nel libretto, unisce mondi interi.



Mona Larsen – Grains Of Sand (Stunt Records)

Arriva solo ora il primo disco regolarmente distribuito in Italia di questa bravissima cantante che in Danimarca, dove da sempre vive e lavora, è una sorta di gloria nazionale: attiva fin dal 1967, accolta fin da subito nella celebre Danish Radio Big Band, è una vocalist post-bop che può vantare anche numerose collaborazioni con grandi jazzmen sia statunitensi sia nordeuropei, nonché, tra gli anni Settanta e Novanta, due gratificanti esperienze in ambito fusion con la Halberg/Larsen Band e l’Emborg/Larsen Group. Fondamentale poi è il ruolo di voce principale nei tre dischi ECM dell’americano Michael Mantler Cerco un paese innocente (1995), The School Of Undetrstanding (1997) e Songs And One Symphony (2000). Grains Of Sand è invece il quarto album a proprio nome dopo Freedom Jazz Dance (1994), Erindringens Brød (1996), (2002); insomma si tratta di un grosso curriculum artistico, che in effetti conferma le originali doti di un’interprete sensibile, acuita, profonda dal timbro precipuamente scandinavo, ossia fatto di netti chiaroscuri, che s’adattano, a loro volta, alle scelte ardimentose di un repertorio che investe molto sui propri original – ad esempio il notevole She’s Young tra lento e mid-tempo – ma si diverte pure a strapazzare in senso buono alcune grandi melodie: infatti i jazz standard Very Early (Bill Evans) o Crepuscule with Nellie (Thelonious Monk), l’ultraclassico All The Things You Are (Kern/Hammerstein) o la bossa Dindi (Tom Jobim) sembrano altra cosa rispetto alle versioni già note, proprio perché, pur senza scat o vocalizzi, Mona Larsen insiste in una cristallina ricerca di avvicinamento ai suoni degli strumenti, insistendo unicamente sul modo di cantare le frasi del testo. È il risultato è sotto gli occhi, pardòn sotto le orecchie di tutti: ancora una volta il jazz danese ha fatto centro proponendo una bella persona di gusto raffinato e di sobria spettacolarità, tra l’altro accompagnata da un ottimo trio con Thomas Clausen, Thomas Fonnesback e Karsten Bagge (più il sax di Hans Ulrik in quattro degli undici pezzi).



Mike LeDonne – AwwwlRight! (Savant Records)

Il nome di LeDonne non circola frequentemente in Italia, benché possegga un curriculum di tutto rispetto: sono i tipici misteri del jazz (e non solo del jazz) nel Bel Paese, dove si è pronti a esaltare Tizio o Caio all’inverosimile e tenere nell’anonimato musicisti di valore. In tal senso questo ottimo polistrumentista nato nel 1956 a Bridgeport nel Connecticut, a partire da AwwwlRight! meriterebbe ben altra risonanza. Nato artisticamente come pianista jazz, fin da giovanissimo, grazie al negozio di dischi dei genitori e al ruolo di chitarrista del padre, Mike si laurea a 21 anni nel prestigioso New England Conservatory Of Music di Boston, per salpare quindi alla volta di New York, dove entra far parte dapprima della Widespread Depression Jazz Orchestra e quindi, per ben undici anni nel quartetto del grande vibrafonista Milt Jackson; ma l’ex membro del Modern Jazz Quartet non è l’unico datore di lavoro per LeDonne, visto che lo si trova spesso accanto ad altri importanti maestri Benny Goodman, Sonny Rollins, Art Farmer, Bobby Hutcherson e soprattutto Benny Golson, con il quale gira il mondo in tournée fin dal 1996. Nonostante la brillantezza di pianista – l’anziano collega Oscar Peterson lo definisce, all’epoca, colme il più promettente e talentuoso della sua epoca – Mike passa all’organo (il “classico” Hammond B3) con cui ininterrottamente si esibisce ogni martedì allo Smoke Jazz Club sulla Broadway, facendo altresì incetta di premi nella categoria: e intanto arriva pure i dischi a proprio nome, una quindicina dal 1988, tra cui vanno almeno menzionati Soulmates (1995) e Night Song (2005) e per essere matematicamente in linea, con altri dieci anni di distanza questo AwwwlRight!. Il nuovo cd potrebbe benissimo inserirsi nella cosiddetta B.A.M. (Black American Music) di cui oggi tanto si parla e che altro non è che un hard bop più o meno rivisitato. In questi otto brani – metà cover metà original – non manca infatti il riferimento alla variante soul jazz, nel solco di Jimmy Smith ad esempio, sia per la formazione impiegata (un quartetto con chitarra, tenore, batteria, più tromba e contrabbasso in tre pezzi) sia per il sound che sprigiona vitalismo, allegria, divertimento, con robuste prestazioni solistiche.



Lodati Fontana Detesta – Elleffedi Flash (Setola di Maiale)

Federico Casagrande – The Ancient Battle Of The Invisible (CAM Jazz)

Paolo Botti Quartet – Slight Imperfection (Caligola Records)

La chitarra sperimentale è in buone mani oggi in Italia, in quanto collocabile soprattutto in area jazz sia con giovani interessanti performer sia grazie agli esponenti del free in grado di perpetuare un discorso che mescola amabilmente gli stili di Jimi Hendrix, Sonny Sharrock, Derek Bailey, Fred Frith, John McLaughlin, Marc Ribot, Bill Frisell, Pat Metheny e tutti quelli che soprattutto in America e in Inghilterra con Fender, Gibson, Hohner, Ibanez, ESP, Paul Reed Smith, Epiphone fanno dello strumento un mezzo di ricerca, avanguardia, creatività. Da noi basti pensare ad esempio al recente straordinario Tempo Fugit (Silta) di Sergio Sorrentino, chitarrista classico che spazia da Bach a Maderna, fino a cimentarsi nei compositori che gli scrivono appositamente pezzi per lo strumento amplificato. Non è un caso che il Sorrentino più “libero” da Behind The Window a Immersus Emergo registri per la stessa label di Claudio Lodati che in Elleffedi Flash si presenta agli strumenti sia acustico sia elettrico in trio con Antonio Fontana (seconda chitarra) e Tommaso Testa (basso ed effetti): ed ecco tredici improvvisazioni talvolta brevissime, ma sempre tese, vibranti, con sonorità aspre vicine a melodie sognanti, in un magico interplay nato in sola lunghissima session in cui sentimento e razionalità paiono divenire un tutt’uno. Federico Casagrande con The Ancient Battle Of The Invisible si esibisce invece in quartetto assieme al canadese Jeff davis (vibrafono) e ai francesi Simon Tailleu (contrabbasso) e Gautier Garrigue (batteria) in un “invisibile campo di battaglia” dalla forte impronta melodica, con il fascino degli intrecci e dei ruoli strumentali; il senso arioso degli arrangiamenti evidenzia quindi la bellezza delle piccole cose e dei minimi gesti in un contesto di grande ricchezza espressiva. Significativa l’aggiunta, alle dinamiche del classic guitar trio, di un vibrafono dal gusto classico. L’incontro tra il suono ovattato e cristallino della sei corde del leader e le tonalità aristocratiche delle lamelle di metallo di Davis costituiscono una bella pennellata cromatica a un affresco immaginifico, dove regna un senso di calma apparente, un flusso senza ansia degli eventi che, tra le righe, nasconde infine leggere inquietudini di un album vibrante e fascinoso. Infine il Paolo Botti Quartet con Slight Imperfection omaggia le radici jazz e blues con perfette interpretazioni dei comprimari, dalla potente cavata di Tito Mangialajo (contrabbasso) al dettato dei tempi di Dimitri Grechi (contralto), spaziando altresì tra un Filippo Monico (batteria) dai ritmi assai complicati e un polimorfico indefesso multistrumentismo dello stesso leader (viola, banjo, tenor guitar, dobro, tromba, harmonica) Preziosa la presenza vocale di Betty Gilmore in quattro brani e il violino di Emanuele Parrini in un sol pezzo: album di rara intelligenza, da godersi anche senza bisogno di tante mediazioni interpretative.



Halie Loren – Stages (White Moon)

Halie Loren è una giovane bionda cantante che vive appartata a Eugene nell’Oregon e che ha già avuto modo di pubblicare quattro Cd Full Circle (2006), They Oughta Write a Song (2008) Many Times, Many Ways: A Holiday Collection (2008) e questo nuovo – con piccole etichette locali, che però l’han già fatta conoscere fuori dal ristretto entourage di un’America provinciale, che però è da sempre un grande bacino di autentici talenti: in Stages, come nei precedenti album, Halie Loren canta un po’ di tutto, a livello di generi, pur mantenendosi fedele a se stessa e a uno stile che ha saputo modellare sulle orme della tradizione jazzistica, della torch song, delle folksinger degli anni Settanta e anche delle nuove jazz woman come Norah Jones e Diana Krall. Lo stile interpretativo è dunque un po’ jazzy e un po’ cantautorale, con marcata predilezione nelle ballate sentimentali, ma il repertorio è invece ricco ed eterogeneo e, come giustamente accade in questi ultimissimi anni, va a pescare da tutti i possibili filoni delle musiche popolari contemporanee: ad esempio ascoltiamo il rock con On A Sunny Afternoon dei Kinks e I Still Haven’t Found What I’m Looking For degli U2, il country in My Rainbow Race da Pete Seeger, la bossa nella classica The Girl From Ipanema, il pop classico tra Summertime e Cry Me a River e persino il nuovo slow da Love Me Like a River Does dell’affascinante Melody Gardot, senza nulla togliere alla bellezza della Loren (nessuna parentela con l’italica Sophia), anche molto brava con quei toni un sofferti e gli accenti lacrimevoli, che lasciano però trapelare anche una grinta tutta femminile in Is You Is or Is You Ain’t My Baby un tipico jump di Louis Jordan o nel virtuosistico in solo High Heel Blues già portato al successo dal duo Tuck & Patti. Precisa infine la band che l’asseconda con Matt Treder (piano), Mark Schneider (basso), Brian West (batteria) e Tim McLaughlin (tromba).



Jesper Lungaard Trio – 60 Out Of Shape (Storyville)

Enrico Pieranunzi – Tales From The Unexpected (Challenge Records)

Enrico Pieranunzi – Proximity (CAM Jazz)

Il pianista romano Enrico Pieranunzi ci ha ormai abituati a considerarlo una presenza assidua nell’ambito discografico, grazie a una capacità di pubblicare, da ormai alcuni decenni, circa due-tre dischi l’anno (a nome proprio o con illustri colleghi) sempre di ottimo livello: non è il solo nell’ambito del jazz a fare del binomio qualità/quantità un prezioso bilanciamento creativo, ma se si considera che quasi mai fuoriesce dalla poetica del piano jazz trio, l’impegno costante nell’inventare sempre nuova musica è davvero supporto da risorse espressive quasi illimitate, che oltretutto restano fedeli a uno stile personale riconoscibilissimo. La discrezionalità antidivistica di Pieranunzi non lo ha condotto ai picchi di popolarità di altri suoi colleghi presso il pubblico di massa, ma forse è meglio così, perché gli ha consentito di perpetuare una ricerca senza sbavature artistiche o concessioni mercantili, raccogliendo soprattutto la stima e il favori di moltissimi jazzisti stranieri, a comunicare dal mitico Chet Baker che nel 1978 volle Enrico nel proprio quartetto, ricambiando – fatto più unico che raro per il trombettista cool – con la partecipazione nell’album The Heart of the Ballad e Little Girl Blue a nome Enrico Pieranunzi. Se abbiamo appena citato Chet è perché un certo richiamo a lui si avverte nel disco Proximity – registrato a New York – che, perla prima volta, dopo anni in trio o in solo, vede il pianista alla testa di un quartetto tutto americano con il grande Ralph Alessi (qui pure alla cornetta e al flicorno) e Danny McCaslin (sax tenore e soprano) e Matt Penman (contrabbasso); gli otto pezzi di Proximity sono del leader e confermano il suo interesse verso la dimensione verticale della musica con l’assoluto rispetto per le fondamentali gerarchie dell’armonia e della tonalità, fino a giungere a una sonorità al contempo astratta ed evocativa dai forti echi cosmopoliti. Del resto Pieranunzi è senza dubbio il meno italiano fra tutti i jazzmen tricolori, perché si proietta in una dimensione molto aperta, a cominciare dai musicisti che l’accompagnano come in Tales From The Unexpected uscito nella prestigiosa collana European Jazz Legends: Enrico si esibisce dal vivo al Teatro Gütersloh in Germania assieme all’olandese Jasper Somsen (contrabbasso) e al nizzardo André Ceccarelli (batteria); e la formula del piano jazz trio vola al settimo cielo, accentuando l’ulteriore peculiarità dell’uso inventivo dei tempi musicali in un repertorio di dieci pezzi tra lenti e veloci ancora tutto pieranunziano. Dove invece il pianista deve mettersi un po’ da parte, si fa per dire, è quando “fa l’ospite” nel disco del collega Jesper Lungaard 60 Out Of Shape; ma la subalternità è relativa, trattandosi di un altro piano jazz trio – il leader al contrabbasso e Alex Riel alla batteria, entrambi danesi, non a caso dal vivo al Jazzhus Montmartre di Copenhagen – in cui le tastiere restano dominanti, pur concedendosi Lungaard molti (forse troppi) interventi solistici: ma ascoltare, per la prima volta dopo tanti anni, il nostro alle prese con otto standard fenomenali è uno spasso, perché si sente l’ennesima conferma di un talento a trecentosessanta gradi.



Giovanni Mirabassi – Adelante! (Discograph)

Vive a Parigi da circa vent’anni il perugino Giovanni Mirabassi, pianista fortemente influenzato da Bud Powell, Art Tatum, Oscar Peterson ed Enrico Pieranunzi, ma con un imprinting ormai personale e riconoscibilissimo. Dal 1996 pubblica dischi con etichette francesi; ne ha già fatti una ventina, spesso accanto a cantautori swinganti quali Claude Nougaro e Nicolas Reggiani e uno in particolare Avanti! (2000) anticipava questo nuovo, perché entrambi sono dedicati ai canti della rivoluzione. La parola è la stessa, prima in italiano ora in spagnolo (adelante), anche se l’attenzione ora ricade su un repertorio assai più vasto di quello nazionale, spaziando fra celebri inni su temi e personaggi che hanno scandito le lotte sociali da metà ottocento agli anni sessanta del secolo scorso, il tutto però reso esclusivamente in forma jazzistica, per solo piano, con l’aiuto di una cantante in un paio di pezzi. Dunque non c’è che l’imbarazzo della scelta addentrandosi in una scelta di diciassette brani, a volte molto brevi, che hanno segnato appunto la Storia con la S maiuscola. S’inizia con L’Internazionale, che era l’inno dei lavoratori all’epoca di Karl Marx e si passa alla ballata cubana Hasta Siempre che Silvio Rodriguez scrisse subito dopo la morte di Ernesto Che Guevara; e via via si possono ascoltare Le déserteur canzone pacifista del poeta e jazzman Boris Vian, il simbolo tanguero moderno Libertango di Astor Piazzolla, la marcetta tedesca Lili Marlene che era un po’ la colonna sonora della seconda guerra mondiale senza distinzioni di parte o ancora Gracias a la vida della folk singer cilena Violeta Parra, in seguito interpretata da tutti (Joan Baez compresa). Con Mirabassi viene a mancare il furore degli originali, per far spazio a meditazioni introspettive, che fanno spesso risaltare la bellezza melodica di molti pezzi, al di là del loro colore o del significato politico a torto o a ragione attribuitogli.



Nils Petter Molvaer – Baboon Moon (Columbia/Sony Music)

A sentire il leader, in svariate interviste, questa che suona nel disco è la sua miglior band di tutti i tempi, da quando registra come principale solista; e non c’è che dargli ragione perché il trio composto ovviamente da Molvaer alla tromba e agli effetti elettronici e poi da Stian Westerhus alla chitarra elettrica e da Erland Dahlen alla batteria è coeso, brillante, concentrato, duttile nel girare e rigirare una materia sonora che, pur confermando uno stile ormai ben noto a un pubblico internazionale, riesce ancora a stupire e a inserire elementi di novità e scampoli di fantasia. Infatti, giunto all’undicesimo album dopo il primo meraviglioso Khmer (1997) e via via Solid Ether, Recoloured, NP3, Streamer, Remakes, Er, Edy, Re-Vision, Hamada, Nils Petter non si discosta dal tipico sound creato fondendo il jazz nordico, il rock minimalista, la techno soffice, la fusion più sperimentale con un occhio di riguardo al Miles Davis funk innovativo, ma si impegna anche a inserire segni un po’ aggressivi in un paio di brani che sanno di free. Alla fine però prevale la fedeltà alle atmosfere soffuse, tranquille, direttamente ispirate al paesaggio norvegese, sia pur riportato in un contesto urbano e in una realtà contemporanea; e l’ascolto dei nove pezzi in scaletta Baboon Moon, Bloodline, Blue Fandango, Coded, Mercury Heart, Prince of Calm, Recoil, Sleep With Echoes, Small Realm (qui citati in ordine alfabetico) consente di riascoltare, in maniera del tutto appagante e creativa, un jazzman europeo che ha saputo, nel jazz, rinnovare la musica degli anni Duemila, senza mai entrare in conflitto con i gusti del pubblico, anzi accogliendo fans da molti altri generi.



Ada Montellanico – Suono di donna (Egea Records)

Marilena Paradisi – Come dirti (Silta Records)

La vocalità femminile nel jazz italiano si esprime in vari modi, ma solo una minima parte delle cantanti-performer è vicina all’avanguardia o alla sperimentazione: è Tiziana Ghiglioni, tuttora iperattiva, ad aprire le danze negli anni Settanta, però senza fare scuola, dal momento che le attuali “ricercatrici” stanno seguendo individualmente, uno ad uno, la propria strada: accanto a Cristina Zavalloni e Maria Pia De Vito, spiccono dunque i nomi di Marilena Paradisi e Ada Montellanico, che appaiono come la rappresentazione agli antipodi della ricerca creativa nel jazz contemporaneo, tanto la prima risulta free come un quadro astratto, quanto la seconda riesca a trattare in profondità la forma-canzone. Entrambi firmano lavori intensamente femminili, appoggiandosi a un’altra importante figura jazzistica – Stefania Tallini per la Paradisi, Giovanni Falzone per la Montellanico – nello sviluppo di progetti di ampio respiro. In Come dirti la via del dialogo con la celebre pianista romana, per un inedito duo voce/tastiera di femminile intensità è all’insegna di sedici brevi pezzi totalmente aleatori, in cui prevale la forte vena performativa anche sull’estemporaneità dei testi letterari: improvvisare su modelli ostici sembra un gioco da ragazze per entrambe affascinate dalle infinite risorse di sonorità tanto arcane quanto modernissime. Approfittando invece di schemi collaudati soprattutto nel canto jazz tradizionale Suono di donna, basato su composizioni di altre note colleghe – Joni Mitchell, Ani DiFranco, Carla Bley, Björk, Carol King, Abbey Lincoln – è un album dove la voce calda e pastosa, assecondata dal trombettista siculo e da un eccellente ottetto, conferma la vocazione della jazz singer a ricantare il mondo canzonettistico: e dopo il progetto su Luigi Tenco e su numerosi songwriters è ora giunto il momento di confrontarsi con tanti brani eterogenei (anche rock, pop, folk) oltretutto personalizzati e rivitalizzati da ottimi arrangiamenti.



Oregon – In Stride (CAM Jazz)

Soft Machine Legacy – Live Adventures (Moonjune)

Ecco i nuovissimi album di due fra i maggiori gruppi fusion o jazzrock che dir si voglia; gli unici, tra i grandissimi, a essere sopravvissuti egregiamente alle temperie di quattro-cinque decenni. Le analogie e le similitudine forse però si fermano qui, nel senso che già dalla pur lunga storia di ciascun organico emergono nette le divergenze artistiche fra i due quartetti: americano il primo, nato nel 1970 all’Università dell’Oregon (da cui prende il nome) con gli allora quattro allievi Ralph Towner (chitarra, piano, sintetizzatore, tromba), Paul McCandless (strumenti a fiato), Glen Moore (basso, violino, tastiere) e Colin Walcott (tablas, congas, sitar); inglese il secondo, sorto nel coacervo rock della Canterbury fine anni Sessanta, tra studenti, amanti però della beat generation (il nome deriva dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs) grazie a Kevin Ayers (basso), Robert Wyatt (percussioni e voce), Daevid Allen (chitarre) e Mike Ratledge (tastiere). Tre quarti di Oregon sono ancora gli stessi: solo Walcott, morto in un incidente stradale, è sostituito da Mark Walker, mentre la Morbida Macchina di disco in disco ha quasi sempre cambiato musicisti al punto che oggi troviamo altri quattro personaggi (che non a caso si fanno chiamare The Soft Machine Legacy), ossia John Etheridge (chitarra), Theo Travis (sax tenore, flauto), Roy Babbington (basso), John Marshall (batteria): in mezzo tanti latri, fra cui l’indimenticabile Elton Dean alle ance. Perché dunque In Stride e Live Adventures assieme? Anzitutto per un discorso di coerenza: in oltre quarant’anni entrambi non si sono mai venduti alle mode, all’effimero, ai cambiamenti repentini, inutili o vistosi. Sia Oregon sia Soft Machine (Legacy compresa) hanno portato avanti un progetto artistico-culturale con sound inconfondibili e con esiti finali sempre all’altezza di ogni situazione. Ed entrambi – come si vede, analogie e similitudini crescono! – lavorano da allora a oggi su percorsi trasversali, fondendo musiche lontane, con ritmi, melodie, improvvisazioni che nel caso di Oregon riguardano più un’esperienza definibile worl-jazz, mentre per Soft Machine le ascendenze nel prog-rock e nella psichedelia sono ben riconoscibili. Oggi, per entrambi restano una musica senza confini, onirica la prima, sanguigna la seconda, che rivive i vasti di stagioni che non di scordano tanto facilmente.



Roberto Ottaviano – Forgotten Matches (Dodicilune Dischi)

Painting Jazz Duo – The Well Tempered Duo: Bach Project (Dodicilune Dischi)

I legami che uniscono questi due album sono evidenti: si tratta di due doppi Cd della stessa giovane jazz label leccese che rendono omaggio a grandi musicisti però fra loro diversi e lontani nel tempo e nello spazio: da un lato Steve Lacy (tipico esponente del free americano anni Settanta) e dall’altro Joahnn Sebastian Bach (che non ha bisogno di presentazioni). A far da tramite c’è Roberto Ottaviano che è protagonista assoluto del primo album in due diverse formazioni e che, quasi da sponsor, redige le note di copertina del secondo. Anche sul piano artistico Forgotten Matches e The Well Tempered Duo: Bach Project risultano accostabili per il comune intento a fare nuova ricerca su materiali “vecchi” o meglio abbondantemente storicizzati, ma da cui, vista la geniale originalità si possono ancora pescare nuove idee sonore. Quindi la musica di Steve Lacy (1934-2001) suonata dal sopranista barese prima in quartetto con Glen Ferris (trombone), Giovanni Maier (contrabbasso), Cristiano Calcagnile (batteria) e poi in duo con Alexander Hawkins (pianoforte) viene rivisitata come in un taccuino di viaggio di un’avventura in territori inesplorati alla ricerca di una mediazione fra il noto e l’ignoto, per usare un’espressione dello stesso Ottaviano. Anche The Well Tempered Duo: Bach Project, ovvero un progetto sul bachiano Clavicembalo ben temperato (composto tra il 1722 e il 1744) e un prezioso lavoro d’avanguardia godibile da parte del Painting Jazz Duo, ovvero Emanuele Passerini (sax tenore e soprano) e Galag Massimiliano Bruno Belloni (un’unica persona, al pianoforte); vengono perciò costruite improvvisazioni aperte in tutte e dodici le tonalità maggiori e minori con l’aggiunta di due preludi atonali a mo’ di premessa estetica. Il risultato sembra confermare le parole di Lacy riportate da Ottaviano: «Non bisogna mai abbandonare la propria strada, anche se siamo circondati da tanta musica.»



Marilena Paradisi e Arturo Tallini – Rainbow Inside (Silta Records)

Il disco riporta come sottotitolo Free Improvisations to Watercolours, perché le libere improvvisazioni tra voce (e pianoforte) e chitarra acustica riguardano l’opera pittorica di Alessandro Ferraro, “esposta” anche nel booklet, con una scelta di dodici acquerelli, tanti quanti le dodici tracce registrate dalla Paradisi con Tallini in un’unica ispirata jam session con una totale estemporaneità, come loro stessi avvertono. Quindi i suggestivi acquerelli sonori incontro i chiari, delicati, poetici colori appositamente realizzati da Ferraro per un progetto multimediale, che risulta originale e coraggioso, romantico e sperimentalista al tempo stesso. Rainbow Inside non è facilmente etichettabile in un unico genere assoluto, perché le idee e gli esiti della bella cantante romana, fin da ragazza votata a collaudare vocalmente tanto gli ambiti jazz quanto i contesti dotti avanguardisti, si rapportano tutti all’arte suprema di un’improvvisazione intesa come percorso e scoperta di suoni arcaici, primitivi, rituali che quasi si trasformano in immagini do pittura, fotografia, cinema. Per Rainbow Inside la voce-strumento di Marilena ha voluto con sé un valoroso chitarrista del panorama classico contemporaneo, Arturo Tallini, che rivela la propria acuta curiosità di virtuoso e ricercatore in grado di assecondare perfettamente, grazie a un intelligente calore strumentistico, la molteplicità dei timbri, i salti repentini dall’acuto fino all’abisso della camaleontica Paradisi: e insieme nascono quindi atmosfere liriche assai variegate via via in Spring in Istanbul, Architecture, Bird Bazaar, Water Tree, Kids Playground, Giants of Dew, My First Day, Conversation1, Light Forms, Choir, Conversation2, My First Night. Confessa Marilena: «In questa ricerca musicale al fondo c’è il senso di una profonda ribellione a una musica che deve solo intrattenere, ad un’arte che muore ogni giorno nell’indifferenza, a una cultura che valorizza solo la mediocrità e impedisce alle persone di essere creative, a una bellezza che non viene mai colta. (…) Se ascoltando la nostra musica qualcuno uscirà di casa per cercare una poesia, un libro, un suono, un colore, un amore… saremo riusciti nel nostro intento.»



Enzo Pietropaoli – Solo (Fonè Jazz)

Eleonora Bianchini & Enzo Pietropaoli – Dos (Fonè Jazz)

Usciti in contemporanea i due album presentano il contrabbassista romano, già al fianco dei maggiori jazzisti Italiani o alla testa di propri ensembles, con un due organici ridotti al vero minimo: Solo e Dos sono infatti due titoli che richiamano l’esperienza dapprima in completa solitudine, quindi in compagnia di un’unica voce femminile. Anche sul piano sonoro i due album possono vantare strette analogie: registrati pochi girono l’uno dall’altro, nell’ottobre scorso alla Pieve del Convento dei Cappuccini di Peccioli (Pisa) con il medesimo staff tecnico, offrono anche, come ben evidenziato sulle due copertine, il cosiddetto ‘naturale sound recording’, ossia una presa diretta del suono che sfrutta l’acustica dello spazio architettonico in chiave espressiva. Di solito gli interni medievali vengono oggi usati per il canto gregoriano o la musica antica (prima polifonia), ma con il tempo anche i linguaggi, contemporanei si sono voluti interfacciare con i pieni e i vuoti di un ambiente millenario in grado di accogliere molto bene la cavernosità della voce contrabbassistica e al contempo quella della donna cantante. E quindi Pietropaoli ha ulteriormente dimostrato che persino il suo strumento (di solito nel jazz asservito, con la batteria, all’accompagnamento ritmico) è in grado di offrissi come solista e melodico, arrivando persino a interpretare cover rock famosissime (Bob Marley, Simon & Garfunkel, i Nirvana, Bob Dylan), un paio di jazz standard (Cole Porter e Django Reinhardt) e ben otto original autobiografici, in cui il contrabbasso racconta un po’ memorie, suggestioni, luoghi, passaggi. Con Eleonora Bianchini lo scenario muta leggermente perché si tratta di un album di tutte cover ripescate nella storia della canzone italiana (Franco Califano), nel rock (Beatles, Led Zeppelin, Radiohead), nella musica sudamericana (Ivan Lins), per un approccio minimalista a brani anche talvolta ricchi, pieni, sontuosi, nelle versioni originali.



Richard Pinhas – Metal/Crysta (Cuneiform Records)

Jason Robinson – The Two Faces Of Janus (Cuneiform Records)

L’azione della Cuneiform Record, gloriosa label indipendente di Silver Spring nel Maryland, operativa dagli anni Ottanta, è senza dubbio meritevole nell’aver promosso, favorito e lanciato alcune tendenza della musica moderna che all’epoca sembrano fuori moda, come il progressive, il primo jazzrock, la Scuola di Canterbury. Il tempo ha dato ragione alla Cuneiform, che intanto si è allargata verso la fusion, il free, il nu-jazz, la nuova musica elettronica e alla molte altre novità sperimentale. Anche questi due nuovi dischi confermano la storia dell’etichetta proiettata fra presente e futuro, anche nei recuperi di registrazioni passate. Pensando però alla stretta attualità, Metal/Crystal è il doppio CD del francese Richard Pinhas, chitarrista e compositore, vicino al noise e all’electro-music che realizza un’opera decisamente radicale con l’aiuto del nipponico Merzbow (Masami Akita) e dell’americano Wolf Eyes, entrambi agli effetti elettronici. I tre coadiuvati in alcuni pezzi da sei musicisti francesi creano dunque un flusso magmatico con performance vicine alla mezz’ora (Depression, Hysteria, Schizophrenia) o al quarto d’ora (Bi-poilarity, Paranoia), dalle palesi innovazioni elettro-acustiche dalle quali emergono anche le provenienze culturali da tre differenti continenti (Europea, Asia e Nord America). Più jazz The Two Faces Of Janus di Jason Robinson, dove le due facce del dio Giano (non a caso detto bifronte) nell’antica Grecia qui riflettono, metaforicamente, la spinta verso il passato e verso il futuro da parte di un leader conteso fra post-bop, free, improvised music. Al quartetto di base con Jason Robinson (tenore, soprano, flauto), Liberty Ellman (chitarra), Drew Gress (contrabbasso), George Schuller (batteria), s’aggiungono in cinque brani su dieci Rudresh Mahanthappa e Marty Ehrlich (entrambi al sax alto). Il suono che ne fuoriesca ricorda la new thing sia californiana sia newyorchese, ossia le due patrie adottive di Robinson, che non si risparmia in assolo vigorosi e in improvvisazioni cerebrali, senza mai dimenticare il linguaggio afroamericano ad esempio in The Elders, Paper Tiger Cerberus Reigning e nella title track.



Powerhouse – In An Ambient Way (Chesky Records)

Wallace Rooney (tromba), Bob Belden (sax soprano e flauto), Oz Noy (chitarra), Kevin Hays (fender rhodes), Daryl Johns (basso) e Lenny White (batteria) si riuniscono, l’anno scorso, in una sorta di superband, decidono di chiamarla PowerHouse e di risuonare per intero l’album In A Silent Way di Miles Davis, che, alla sua uscita, il 30 luglio 1969, tra lo sbarco sulla Luna e Woodstock, fa scalpore, in quanto reca già i segni di un radicale cambiamento non solo nella poetica del grande trombettista, ma soprattutto per i destini dell’intera storia della musica jazz. Per rifare In A Silent Way, Powerhouse ascolta con estrema attenzione dischi come Miles in the Sky (1968) e Filles de Kilimanjaro (1969) che già lasciano intravedere il cambio stilistico verso il jazzrock, benché il nuovo gruppo preferisca con In a Silent Way preferisca rimarcare le sonorità di un primo vero approccio completamente elettrico di Davis alla musica, con il predominio dell’elettronificazione di chitarre, bassi, pianoforti. Nell’originale le registrazioni in studio di Miles vengono costruite, montate, e largamente rimaneggiate dal produttore Teo Macero in fase di post-produzione. Le tecniche di montaggio – già usate nei dischi pop-rock – incorporano elementi di sonate classiche nell’inciso, mentre entrambe le due lunghe tracce sul long playing originario consistono di tre parti distinte strutturate come una sonata con un preludio, uno svolgimento, un finale. Gli ultimi sei minuti della prima traccia sono in realtà i primi sei dello stesso brano ripetuti pari pari, con un trucchetto che permette alla traccia di acquista una struttura anomala particolarissima. Nel CD invece Powerhouse tiene distinti i brani, facendone sei momenti – Shhh/Peaceful, In A Silent Way, It’s About That Time, Early Minor, Mademoiselle Mabry, In A Silent Way (Outro) – di fascinazione ancora modernissima anche per la semplice ragione che, nonostante la, distanza ormai storica, nessuno si è mai avventurato a rifarli nello spirito davisiano, così come invece Roney e compagni riescono a evidenziare assai bene.



Lee Ritenour – A Twist Of Rit (Concord)

Nato l’11 gennaio 1952 Lee Mark Ritenour resta un chitarrista elettrico amatissimo da musicisti di ogni genere che spesso lo vogliono come ospite nei loro dischi, mentre la critica da sempre storce un po’ il naso di fronte agli album a suo nome, ritenendoli (giustamente) prodotti commerciali, dove l’immensa perizia tecnica è quasi unicamente al servizio di uno spettacolarismo poco originale nel solco di una fusion ai limiti dello straight ahead e dell’easy listening. In mezzo c’è il grosso pubblico che di fronte a un sound orecchiabile senza problemi (e senza idee innovative) premia long playing come Rio, Friendship, Captain Fingers con vendite stratosferiche rispetto al consueto mercato dell’album jazz. Ora Ritenour per festeggiare il quarantesimo anniversario di onorata carriera ripropone alcuni suoi vecchi brani – tratti per lo più da First Course del 1975 e dal citato Rit del 1980 – chiamando a raccolta diversi blasonati strumentisti, smistandoli in una serie di piccole band “tutte stelle”: il progetto è quello di rinnovare la confezione e aggiornare il sound di brani già noti, qui dunque riproposti con un estro inedito e insolito che davvero sorprende e alla fine fa giudicare positivamente l’intera operazione. A rispondere con entusiasmo alla chiamata in A Twist of Rit è per primo un amico e compagno di strada, il versatile Dave Grusin, che si alterna alle tastiere con John Beasley e Patrice Rushen; seguono poi i sassofonisti Ernie Watts e Bob Sheppard con Rashawn Ross al flicorno; le sezioni ritmiche comprendono Melvin Lee Davis e Tom Kennedy ai bassi elettrici; il percussionista Paulinho Da Costa risulta inoltra l’altra grande celebre star, che affianca i batteristi Dave Weckl, Ronald Bruner Jr. e Chris Coleman. Per la prima volta si aggiungono alla lista di Lee i chitarristi Michael Thompson, Wah Wah Watson, David T. Walker nonché il raffinato pianista Makoto Ozone. Quest’ultimo, in particolare, con Weckl, Ritenour e Kennedy, dà le iniziali del proprio cognome all’acronimo del titolo di W.O.R.K.n’ IT, dove l’apposito quartetto si concentra in un disimpegno interessantissimo, tentando una terza via tra la fusion e un sophisticated jazz. Ma tutto l’album è riuscito e suona più jazzrock.



Claudio Roditi – Simpatico (Resonance Records)

Trombettista di Rio de Janeiro, attivo a New York dal 1976, punto di riferimento dalla latin-music contemporanea, anche grazie al lungo sodalizio con il cubano Paquito D’Rivera al sax alto, Claudio Roditi, sessantaquattrenne, è da tempo in grado di spaziare tranquillamente dalla salsa alla bossa nova fino all’hard bop; anzi, in anni recenti, ha preferito addirittura avvcinarsi al jazz-jazz con album considerevoli per la Nagel Heyer come il trittico Three For One, Light In The Dark e Reflection, in trio con Klaus Ignatek (pianoforte) e Jaen-Louis Rassinfosse (contrabbasso) oppure lo Smile del 2005 con la Bremen Philarmonic Strings. Ora, con Simpatico torna un po’ ai primi amori nel senso che mette in piedi una formazione decisamente brasileira, un sestetto quasi di all stars con lui in primis alla tromba (anche al flicorno, al piccolo trumpet e alla voce) e con Romero Lubambo (chitarra), Michael Dease (trombone) Helio Alves (tastiere) John Lee (basso elettrico) e Duduka Da Fonseca (batteria). Forse il cambio d’etichetta e la nomination ai Grammy per il precedente Brazilliance (2009), anch’esso per così dire etnico, ha fatto sì che Claudio Roditi recuperasse la propria anima verde-oro, radunano in Simpatico dodici pezzi scritti interamnete da lui: A Dream for Kristen; Alberto and Daisy; Alfitude; Blues for Ronni; How Intensitive; Piccolo Blues; Slammin’; Slow Fire; Spring Samba; Vida Nova; Waltz for Joana; Winter Dreams. Nelle note di copertina racconta come in fonda si senta più interprete, solista, jazzman piuttosto che compositore, nonostante i brani sparsi qua e là per differenti occasioni. Ecco quindi giunto il momento di accoglierli e di dargli un nuovo senso in questa veste latin molto boppeggiante: ci sono ad esempio molti evidenti omaggi alla propria storia musicale da Alfitude (dedicata al bossista Johnny Alf) a How Intensitive (parafrasi di How Insensitive, cioè Insensatez), oppure piccoli tributi alla moglie Kristen o all’amico Ronni Rose o persino al liutaio Tom Crown e al mare dei Caraibi. Insomma, un disco vario, gradevole, ben suonato, ideale per gli amanti dell’etno-jazz moderato o del mainstream venato di Sud America.



Gianluca Salvadori – Due passanti (Pus(h)in)

Rita Sannia – Legatura di valore (Dodicilune Dischi)

Esiste ormai, da alcuni anni, una forte identità della canzone jazzata che, a livello leggero guarda ai fenomeni di varietà dagli anni Trenta ai Cinquanta, come le Blue Dolls o le Marinetti Sisters, mentre, su un piano maggiormente articolato, viene professato e abbracciato un modello per così dire cantautoriale che, di fatto, s’afferma negli anni Settanta con Paolo Conte e che oggi riguarda via via i casi di Vinicio Capossela, Sergio Caputo, Piji Siciliani e molti altri. In tal senso è bello constatare che c’è ancora chi, come Gianluca Salvatori (da Firenze), ha il coraggio di esordire su disco a 62 anni, dopo una vita trascorsa a guidare aeroplani. E il debutto è con i fiocchi: grazie a canzoni scritte fin a ragazzo, all’epoca dei Beatles, il lavoro acanto a un parallelo secondo Cd Musica e sudore) mostra grandissima maturità nel comporre testi e musiche, con diverse ascendenze, ma con un punto di riferimento inequivocabile, dalla voce alle tematiche: Fabrizio De André. Ma Salvadori si rivela anche un folksinger molto più musicale grazie a un piccolo gruppo jazz che ben asseconda le tredici song autografe. Anche la bella Rita Sannia (da Carbonia) esordisce discograficamente non più giovanissima e anche qui ci si trova di fronte a un album perfettamente riuscito, forse a tratti più jazz del precedente, data anche la voce duttile e le scelte coerenti a un lavoro di rifinitura di standard e in particolare di impegno letterario per quanto riguarda i nuovi testi. Rita infatti oltre ricantare brani celeberrimi di Cat Stevens, Carole King, Graham Nash, Baden Powell e Carlos Gardel, interpreta proprie liriche su musiche del chitarrista Peo Alfonsi sulle corde di un pop-jazz cameristico; e l’esito finale fa ben sperare per un’artista che ha ancora molto da dire, come del resto anche Salvadori, in un’accoppiata estetica forse anomala o stravagante, ma di certo foriera di nuovi sviluppi.



Terrell Stafford & Dick Oatts Quintet – Bridging The Gap (Planet Arts)

Bridging The Gap è un bel disco di classico hard bop se così si può dire giacché l’aggettivo classico forse non si addice del tutto a uno stile decisamente moderno, che però è da mezzo secolo entrato a far parte dei luoghi comuni jazzistici: in sostanza il quintetto reitera la buona musica inventata da Art Blakey, Horace Silver, Clifford Brown, Sonny Rollins e pochi altri. Dick Oatts al sax alto, non a caso messosi in luce oltre trent’anni fa nelle formazioni di Red Rodney e di Thad Jones, perpetua una lezione – unico bianco in un giovane contesto all black – che più ispirarsi ai singoli o ai gruppi (benché i Jazz Messengers restino un referente sicuro), si basa sulle peculiarità del tipico quintetto di jazz moderno; a livello anche compositivo (otto brani su nove), ma soprattutto di assetto, di interplay, di gioco tra solismo e accompagnamento, sono le istanze del collettivo a prevalere. L’amalgama è notevole, i temi sono ben scritti, le individualità già marcate – anche l’altro leader, Stafford, alla tromba, si conferma buon seguace della linea Gillespie-Brown-Morgan-Hubbard-Shaw; egregia è pure la sezione ritmica con Gerald Clayton (pianoforte), Ben Williams (contrabbasso), Rodney Green (batteria). Si tratta insomma dell’ennesima conferma di due bravi solisti ascoltabili separatamente in album come Sout Paw (Steeplechase, 2001) per Oatts o Centripetal Force (Candid, 1996) per Stafford. E, infine, tutto fa intendere che Bridging The Gap, registrato a Englewood il 5-3-2009, con nove pezzi tutti di ottima fattura – Bridging The Gap, Time To Let Go, Meant For You, Three For Five, Salvador’s Space, I Love You, JCO Farewell, Bens’ Beginning, The 6/20/09 Express – si faccia apprezzare quale naturale omaggio a una «maniera» importante che qui, consapevolmente, evita il manierismo di certa frusta dietrologia jazzistica.



Trace Elements – Electric Job. Live In Teramo (Eurolines)

Il jazz italiano è in crescita esponenziale ormai da diversi anni, come dimostra questo grande disco, da collegarsi assieme ad altre recenti uscite, dove i “nostri” si confrontano con importanti solisti stranieri: ad esempio in Are You Sirius? (In Jazz We Trust) è formato da Valerio Pontrandolfo (sax tenore) assieme al favoloso Harold Mabern Trio, Unbroken Circuit (Caligola) è un duo di chitarre alla pari fra Maurizio Brunod e Garrison Fewell, Trio Med (Abeat) si rivela come Marcotulli/Erskine/ Danielsson, ovvero una ritmica stratosferica per la pianista romana. In Electric Job. Live In Teramo i Trace Elements sono costituiti dall’italiano Paolo Di Sabatino (piano elettrico fender rhodes), dal cileno Christian Galvez (basso) e dallo svizzero Jojo Mayer, a conferma di un solido internazionali che poggia sulla fruttuosa condivisione di un linguaggio sonoro comune, in questo caso un jazz elettrico che si richiama direttamente – nelle atmosfere, nei pattern, negli spunti, nel risultato finale – alle sonorità funkeggianti dei primi sismi anni Settanta, quando erano ancora un po’ sperimentali, benché vivacissimi, i tentativi di fondere tutto assieme, “dall’hard all’hard”, ovvero hard bop, free, soul, psichedelia, rhythm’n’blues, prog, hard rock. I dieci brani del disco – Chiara di luna, Coco’s Way, Evening Dance, Five O’Clock In The Morning, In The Sky, Ostinato, Scene Four, Suite Pt. 2, The Country Lane, Time For Fun – presentano situazioni ritmicamente variegate che vanno dalla ballad al mid-tempo fino ai molti boogaloo dal retrogusto vintage, a dimostrazione della versatilità di un gruppo compatto, dove anche l’interplay regna sovrano, perché tutti hanno gli spazi e i modi solistici a disposizione, oltre garantire la compattezza di un “bel tiro” che sa molto di black music.



Trip – Trip (HighNote Records)

Trip è uno di quegli album, dove il nome del gruppo si identifica con il titolo stesso: da un lato, nei contenuti, la parola fa riferimento a un viaggio (non solo musicale), dall’altro la band è composta da Tom Harrell alla tromba, Mark Turner al sax tenore, Ugonna Okegwo al contrabbasso, Adam Cruz alla batteria. In realtà possiamo anche considerarlo come il nuovo disco di Harrell, soprattutto per continuità con le recenti esperienze discografico-concertistiche: da quando infatti registra per la High Note, dopo gli anni passati alla BMG (1996-2003) con larghi organici, il barbuto trombettista ritorno in un certo qual modo alle proprie origini prediligendo le piccole formazioni proprio come quando suonava nei combo di Horace Silver, Dizzy Gillespie, Phil Woods, con il quale ha intrattenuto un lungo fruttuoso sodalizio. E forse, inconscia mete, l’aver chiamato a sé il giovane talento dei nuovi tenoristi – il Turner peraltro appena sentito nel nuovo disco di Stefano Bollani – sta a dimostrare ilo desiderio di creare una front line efficiente, decisiva, impegnata a proporre un jazz originale, senza troppo stravolgere regole, metodi, forme, valori. Il sodalizio Harrell-Turner non possiede insomma la storica rivoluzionarietà di quelli effettuati via via da Miles Davis con John Coltrane, Ornette Coleman con don Cherry, John Zorn con Dave Douglas, anche se in questo disco ilo lavoro è ottimamente svolto e alla fine risulta al contempo gradevole, stimolante, inventivo, complice altresì l’ottima sezione ritmica, dove Okegwo e Cruz non si limitano ad accompagnare ma entrano nel vivo di un progetto ambizioso, già a partire dall’evocata matrice letteraria. Infatti la parte centrale del disco è dedicata a un classico della letteratura di ogni tempo, Le Avventure di Don Chisciotte di Manuel de Cervantes; se brani su disdici mettono in musica altrettanti capitoli in modo assolutamente evocativo, fuori insomma dal rischio di pacchiane contaminazioni spagnoleggianti. Il sound di Trip di fatto rimane entro i confini di un aggiornatissimo hard bop, che si misura appunto con la capacità di scrittura di Harrell (tutti e dodici i pezzi sono da lui firmati) e la conseguente funzione di fare “gioco di squadra” anche alle prese con un romanzo “musicato”.



John Zorn e Fred Frith – Late Works (Tzadik Records)

John McLaughlin and The 4th Dimension – To The One (Mediastarz)

Contact – Five On One (Pirouet Records)

Late Works, To The One, Five On One sono tre bei CD usciti in questi ultimi mesi, CHD vengono a costituire un fronte compatto di agguerriti ultrasessantenni, che idealmente nascono in piena rivoluzione bebop e muovono i primi passi nella musica durante la calda stagione free e hippie, non senza assimilarne linguaggi, codici, riflessi antropologici. Infatti To The One di McLaughlin, Contact del quintetto Five On One e Late Works di Zorn e Frith presentano tre grandissimi chitarristi che esordiscono proprio nel momento in cui inizia la parabola discendente del free jazz e del movimento hippie. Fred Frith, fondatore del gruppo prog Henry Cow, si avvicina poi all’improvised music europea radicale e in tal senso non si smentisce, riprendendo la collaborazione con l’esponente più oltranzista del nuovo free newyorchese, appunto Zorn al sax alto: il duo inventa dieci brani assai vari dove urlo e rumore vengono spesso stemperati da atmosfere anche liriche e sognanti, comunque al’insegna di una ricerca timbrica coraggiosissima. Anche John McLaughlin parte dal free, ma è il jazzrock, a cominciare dal contributo in Bitches Brew di Miles Davis, a garantirgli una notorietà popolare: con la Mahavishnu Orchestra propone di fatto un rock orientato verso una fusion psycho-hard, che ora, dopo le tante parentesi indiane, sembra riprendere sin dalla formazione, trii o quartetti con Gary Husband (tastiere e percussioni), Etienne M’Bappe (basso), Mark Mondesir (batteria). John Abercrombie, che dei tre risulta per così dire il più tradizionale, vicino insomma alle estetiche post-bop, benché attivo – attorno agli anni Settanta – nel raffinato gruppo fusion Getaway, qui suona con un quintetto di all stars con Marc Copeland (piano), Drew Gress (contrabbasso), Billy Hart (batteria) e soprattutto Dave Liebman (tenore e soprano), altro collaboratore davisiano: il chitarrista è autore di ben tre dei nove brani presenti, in cui riversa un gusto delicato.