The Gurdjieff Ensemble – Komitas

The Gurdjieff Ensemble - Komitas

ECM Records – ECM 2451 – 2015



Levon Eskenian: direzione, arrangiamenti

Emmanuel Hovhannisyan: duduk, pku, zurna

Armen Ayvazyan: kamancha

Avag Margaryan: pogh, zurna

Aram Nikoghosyan: oud

Davit Avagyan: tar

Mesrop Khalatyan: dap, dhol

Vladimir Papikyan: santur, voce

Meri Vardanyan: qanoon

Norayr Gapoyan: duduk, duduk basso

Eduard Harutyunyan: tmbuk, kshots, burvar, piatti, campana






Anniversario sensibile, il trascorso 2015 ha espresso tra le sue criticità l’essere secolare ricorrenza dell’inizio del Genocidio armeno, materia per lo più non di pubblico dominio, e trattato in effetti con modalità non certo di prima pagina dai media, nonché dalla coscienza dei più.


Tra le varie celebrazioni, speciale attenzione culturale sembra esser stata espressa da ECM con ben tre uscite, relativamente indipendenti e tematicamente dedicate al patrimonio musicale di questo antico popolo caucasico: oltre al passaggio nella label di Tigran Hamasyan con materiali corali (Luys i Luso) e l’annunciato album pianistico di Lusine Grigoryan (Komitas: Piano Compositions), per la seconda volta si conferiva spazio (e libertà) su supporto discografico al tradizionale Gurdjieff Ensemble, già notato per una raccolta devoluta al noto pensatore e autore greco-armeno George Ivanocich Gurdjieff, e qui impegnato per volontà del produttore Manfred Eicher nella trattazione tematica dell’opera del “patriarca spirituale” della musica armena Komitas Vardapet (al secolo Soghomon Soghomonyan), religioso, musicologo, compositore nonché testimone ed a suo modo martire del suddetto Genocidio.


Presenza occasionalmente rappresentata in eterogenee incisioni ECM (da Savina Yannatou ad Anja Lechner a Kim Kashkashian), Komitas nell’ambito del suo immane lavoro filologico e divulgativo operò la raccolta di migliaia di canti popolari della sua terra, risalenti non solo al Medioevo, ma fino all’antichità e addirittura all’epoca pre-Cristiana, operando nelle sue trascrizioni combinazioni delle peculiari modalità armene con soluzioni delle tradizioni europee, e fissando buona parte di tali materiali nella forma di lavori per pianoforte nel tentativo di riordinare un così ponderoso patrimonio – in ciò molto vicino all’opera di un Bela Bartok, non fosse che, nella concezione dei suoi connazionali, Komitas è tuttora detentore di profilo e statura di gran lunga più simbolici e leggendari.


Lavoro di riscoperta e profonda dedizione viene qui approntato dal giovane, entusiasta e motivato direttore Levon Eskenian, che in una sorta di procedimento inverso su alcune composizioni ne opera una “liberazione” dalla sintesi pianistica per re-incorporale (e ri-viverle) entro un ventaglio strumentale autoctono, e tuttora regolarmente praticato, adoperandosi anche alla ricostruzione di strumenti ormai scomparsi nella pratica, e che in questa orchestrazione trovano speciali logica ed identità.


Nel “limitarsi” alla selezione di diciotto brani (singolarmente una traccia mnemonica vitale di questa Nazione), l’ensemble si mantiene distante da ogni ipotizzabile completezza, ma sempre riuscendo a conferire compiutezza alle “vignette” musicali di breve durata ma d’esteso respiro ed assortito carattere.


Dalla mistica terrestre e la meditazione d’alta quota di Havun, affidata in duo al più iconico tra gli strumenti armeni (quel duduk qui ricollocato nel suo più letterale e autentico contesto), all’intrigante eleganza e il gioco d’equilibri del prologo di Mankanan Nvag XII, di sottigliezza e levità simil-mozartiana prima di esplodere nel prorompente tempo di marcia della seconda parte, dai sentori spiccatamente speziati di Manushaki e Marali ai languori ineffabili di Yerangui, dalle sottili energie acquee di Hoy, Nazan alle vigorose energie aeree in Havik (affidata ad al flauto Pogh, d’intensa carica espressiva) spiccano, per maggior estensione temporale e discesa in campo di massa orchestrale, Karno Shohor (ultima “traccia” di Yot Par, la sequenza di Sette Danze che costituisce la parte centrale del disco) e soprattutto Msho Shoror, passaggio rappresentativo d’intensa ed articolata drammaturgia, dotata di esoterica, ma tangibile attitudine narrativa, trovando il tutto coerente epilogo nei toni del crepuscolo della via via più eterea Akna Onor.


Accompagnato da una spettrale immagine panoramica di copertina risalente al 1918 (momento in cui lo sterminio armeno sul territorio ottomano era ancora in corso), l’album può esser additato come una pietra miliare almeno entro la non pletorica discografia dedicata a questa identità caucasica.


Spettacolare con sobrietà, illuminante per gamme tenui (e pur abbacinante per valore conoscitivo), e meritevole di plauso risulta il lavoro del lodevole Eskenian, in ciò onorato dalla compiuta resa del competente Gurdjieff Ensemble, per cui non appaia partigiana (anche in virtù delle iniziali premesse) l’enfatizzazione di tale iniziativa che, da un ingiustificabile (quanto poco comprensibile) misconoscimento da parte delle attenzioni generali, rende il peculiare orgoglio identitario di tale Nazione almeno in parte riscattato.




Link di riferimento: player.ecmrecords.com/komitas-2451; gurdjieffensemble.com