Foto: Michele Giotto per concessione di Giulio Stermieri
La stratificazione sonora di Giulio Stermieri
Il suo ultimo disco, nel quale è autore di quasi tutti i brani, Smut! Clock! Spot!, inciso con il quartetto Foursome è uscito in il 25 marzo ed ha già avuto ottime recensioni (come quella, di Aldo del Noce, per il nostro sito). Un altro cd, a nome di Stopping Trio (con Giacomo Marzi al contrabbasso e Andrea Burani alla batteria), è sulla rampa di lancio. Giulio Stermieri, ventisette anni, pianista e tastierista modenese (nel disco del quartetto e negli Assassins di Francesco Cusa suona l’Hammond), sta vivendo una fase molto intensa della sua carriera.
La prima domanda che gli ho posto, è stata sul rapporto fra scrittura e improvvisazione nella sua musica e, più in generale, nel panorama del jazz contemporaneo.
Citerei un’intervista, rilasciata a Jazz Convention da Beppe Di Benedetto, un grande musicista e amico, capace di battute fulminanti, definitive. Beppe parla di un rapporto paritario, basato su un cento per cento di scrittura e un altro cento per cento d’improvvisazione. Dietro questo paradosso c’è una grande verità. Al centro c’è il fare musica, la creazione artistica. Quando metti su carta un’idea musicale e la sviluppi pensi sempre a quella che potrà essere la vita di quel pezzo, a come lo ascolterà il pubblico in un concerto, da un lettore di cd, sulla rete. Pensi al suono che dovrà animarlo e immediatamente ti poni il problema di quali musicisti lo potrebbero eseguire al meglio. O di come potranno interpretarlo quelli con cui lavori abitualmente. Poi quei musicisti li incontri e magari ti suggeriscono qualche soluzione alternativa. Al di là delle capacità tecniche e della sensibilità musicale ognuno di noi si porta dentro esperienze di ascolto e gusti artistici disparati. Anche nella scrittura più rigida e cogente ognuno metterà qualcosa di suo: un accento, un colore, un’emozione. D’altro canto nella fase dell’improvvisazione nessuno può prescindere dal risultato finale che si vuole ottenere, dal progetto. È una dialettica continua, inesauribile.
Uso qualche brano del disco con i Foursome per spiegarmi meglio. La quarta traccia Yo No, nasce da un’improvvisazione collettiva. Stavamo provando prima di un concerto a Venezia e, improvvisando è venuto fuori il nucleo di un pezzo che piaceva a tutti. L’ho rielaborato. In sede d’incisione Simone Copellini ha suggerito alcune utili modifiche che hanno dato al brano la forma definitiva. Per la quinta traccia, Dro, quella che ha sapori rock più pronunciati ho capito che avevo bisogno del suono del sax di Cristiano Arcelli, con cui ho suonato negli Assassins. Non riuscivo a immaginare il pezzo con un sound diverso e ho chiamato Cristiano per l’incisione e lui ha portato in dote il suo talento d’improvvisatore.
Certo, ci sono molti colleghi amano scrivere moltissimo. D’altronde, tanti di noi vengono dal conservatorio e hanno familiarità con i linguaggi accademici.
Hai parlato di sedimentazioni. Quali sono le tue musiche di riferimento?
Moltissime. Ho ascoltato e ascolto di tutto. Magari a ondate. Ho avuto ad esempio un periodo di devozione totale per Henry Threadgill, che però alternavo con tanta altra musica. Mi ritengo, prevalentemente, un musicista di jazz (pur tenendo presenti le difficoltà di “traduzione” del vocabolo): ho quindi cercato di conoscere approfonditamente tutta la tradizione afro-americana: Duke Ellington, Charles Mingus, Ornette Coleman, Lenny Tristano, Cecil Taylor, Herbie Hancock; senza contare le tante novità che escono in questo campo: Alexander Hawkins e Craig Taborn in primis.
La mia tesi di laurea in jazz al conservatorio di Parma verteva su Paul Bley ma, sempre al Boito, ho anche studiato per tre anni composizione classica. A guidarmi in questo mondo è stato, Fabrizio Fanticini, un allievo di Franco Donatoni. Ho quindi anche lavorato su questo grande compositore che ha lasciato dei segni sulla mia formazione. Così come Edgard Varèse, Luigi Nono, György Ligeti, Morton Feldman e tanti altri. Naturalmente i miei scaffali ospitano anche tanto rock; da quello, per così dire, liceale a quello di ricerca. Amo molto il post hardcore (tenendo ben presenti, anche qui, tutte le difficoltà di rinchiudere tutto in una sola parola, in una formula): Shellac e Fugazi sono comunque sono i primi nomi che mi vengono alla mente.
Tutti questi ascolti si sono stratificati e sedimentati, sono diventati elementi impliciti del mio approccio musicale. Ad esempio non posso dire di percorrere le strade segnate da Frank Zappa ma senza la sua lezione i miei orizzonti, sarebbero molto più limitati. Lo amo moltissimo. Guai a pensare che sia stato un rocchettaro amante di Stravinsky oppure Varèse. È stato ben di più. La sua riflessione sull’umorismo in musica è importantissima. La sua concezione del ritmo, che definirei frattale, citando Ben Watson, è originalissima. Quello che non amo particolarmente sono i collage di genere, i piatti musicali misti. Ho inserito un lied di Alban Berg nel disco dei Foursome, ma affidandolo alla voce di Gaia Mattiuzzi, una cantante che mi dava la garanzia di mantenere intatta la deliziosa atmosfera del brano, pur dandone una versione molto personale.
D’altronde il jazz ha sempre “giocato” con le canzoni.
Franco Ambrosetti, storico esponente dell’hard bop, mi ha detto recentemente che l’Italia è il paese europeo dove si trovano i musicisti più talentuosi, soprattutto quelli più giovani. Il trombettista svizzero dice anche però che il panorama musicale italiano è fiacco, privo di opportunità per i ragazzi più dotati che sono messi ai margini dai soliti nomi. Secondo lui un giovane musicista italiano dovrebbe trovare il coraggio di cercare altrove il premio alle sue capacità.
Non sono d’accordo. Almeno per ora. Io, pur vivendo nella profonda provincia emiliana, riesco a suonare la mia musica, ho occasioni di lavoro e riconoscimenti. Sono nato in un periodo in cui Internet e le tariffe aeree low cost rendono tutto più facile. Se voglio partecipare a una session a Edimburgo o a Berlino non ho eccessivi problemi. Non dobbiamo piangerci addosso e recriminare su quello che non abbiamo. È una mentalità fin troppo diffusa nel nostro ambiente, esasperata anche dai social network.
Certo, i problemi ci sono e sono seri, ma penso che sia meglio affrontarli organizzandosi in una struttura come la MIDJ piuttosto che inondare facebook di post che poi lasciano il tempo che trovano.
Comunque penso, a costo di sembrare qualunquista, che per un musicista l’azione politica più importante è fare musica al meglio, così come per ogni individuo credo sia “politica” un’azione cosciente e coerente con il suo ruolo all’interno della società.
Non avrei problemi ad andare a vivere all’estero, ma solo se trovassi occasioni concrete di miglioramento rispetto a quelle che ho qui in Italia.
Ok. Cosa hai in programma quindi per il pubblico italiano?
Sto ultimando la realizzazione del primo disco dello Stopping Trio. E’ una formazione che, fino a ora, ha “scavato” l’immenso giacimento degli standard, con un’attenzione tutta particolare alla lezione di Paul Bley: quello del trio del trio con Charles Mingus e Art Blakey e ancor più quello di Footloose!, con gli straordinari Steve Swallow e Pete La Roca. Amiamo anche, però, quella formazione favolosa che vedeva Duke al piano, lo stesso Mingus al basso e Max Roach alla batteria e che incise Money Jungle. Abbiamo suonato pezzi di Monk, di Ornette, di Cole Porter, di Carla Bley. Abbiamo portato la nostra proposta al Festival di Parma e in diverse altre situazioni live. Il pubblico, pur manifestando apprezzamento, ci ha tuttavia chiesto di inserire nelle scalette brani originali. È quindi tempo di svolte. Nel disco proporremo il nostro vecchio repertorio, in omaggio a quanto fatto fino a ora. Poi ci metteremo a lavorare anche su materiale nostro. No, la pratica degli standard non è ancora un capitolo passato del jazz. Fanno parte della nostra formazione accademica e della storia del jazz. I musicisti attingeranno sempre, secondo me, a questa fonte inesauribile.