Long Song Records – LSRCD139 – 2016
Herb Robertson: cornetta
Steve Swell: trombone, flauto
Daniele Cavallanti: sax tenore, flauto ney
Joe Fonda: contrabbasso, flauto
Tiziano Tononi: batteria
Daniele Cavallanti e Tiziano Tononi sono fedeli ad un’idea di musica che prende le mosse dai protagonisti della rivoluzione del free jazz, procedendo in avanti con i movimenti e i personaggi che hanno operato in continuità con quello stile, in particolare i rappresentanti della scuola di Chicago, senza dimenticare di stabilire un allacciamento consistente con il suono primitivo della madre Africa, lato sud in specie.
No time left è un disco inciso a Brooklyn nel 2015 e i due Nexus hanno fatto le cose davvero in grande, arruolando tre formidabili strumentisti, perfetti per condividere e arricchire questo tipo di progetto.
Joe Fonda, già membro di orchestre di Anthony Braxton, oltre che contitolare di una formazione con Michael Jefry Stevens, è al contrabbasso.
Steve Swell, al trombone, è uno degli specialisti più richiesti sul suo strumento e vanta collaborazioni prestigiose con tanti nomi che contano, da William Parker a Ken Vandermark.
Herb Robertson ha già registrato altri album dei due italiani ed è noto, principalmente, per aver fatto parte di uno dei primi gruppi di Tim Berne.
Insomma, il forte quintetto messo in piedi in America ha tutte le carte in regola ed è orientato nella direzione indicata, quella di un jazz selvatico, ruvido e cartavetrato. La nota “bella”, pulita, il passaggio liscio, levigato sono, infatti, banditi dall’idioma dei cinque “Brooklyn Express”. La front line, così, dialoga e si contrasta all’interno di un discorso polifonico, dove gli ottoni sputano fuoco e barriscono, coadiuvati dalle sordine. Il sassofono di Cavallanti, invece, parte seguendo il percorso dei binari, per deragliare, secondo necessità, articolando un fraseggio sporco ed eterodosso.
Il contrabbasso di Joe Fonda, poi, accompagna la band fornendo impulso e vigore. La batteria di Tononi riempie tutti gli spazi disponibili con un drummin’ poderoso e invadente, funzionale, però, al sound complessivo del quintetto.
Diversi pezzi sono omaggi ai santoni dell’avanguardia degli anni sessanta, settanta e oltre, da Bill Dixon a Ornette Coleman, dal sudafricano Harry Miller al pellerossa Jim Pepper, da Andrew Cyrille all’intruso, in tanto consesso “di colore”, Gil Evans (di pelle bianca). Si ha la sensazione, però, che le dediche siano servite semplicemente come spunto, come richiamo da seguire, accanto ad accordi minimi ed essenziali per far nascere e progredire lunghe improvvisazioni colettive. Di preordinato, di programmato in anticipo c’è veramente poco. Quasi tutto è frutto della capacità di composizione istantanea da parte dei cinque musicisti coinvolti nell’incisione.
Con questo disco Tononi e Cavallanti compiono un altro passo in avanti nella proposta di un jazz arcigno, a suo modo rigoroso, che non cerca il facile consenso, ma sa parlare ad un pubblico disponibile a lasciarsi trasportare da un flusso sonoro inarrestabile, con la sorgente nel passato, più o meno recente e lo sbocco nell’attualità o nel futuro.