Foto: la copertina del libro
Renzo Arbore e il jazz
Fin dal titolo della fresca autobiografia – “E se la vita fosse una jam session?”, uscita da Rizzoli – si intuisce subito il viscerale rapporto passionale tra l’autore e i ritmi sincopati. Forse, citando la jam session, Renzo Arbore vuole mettere l’accento sul modello di improvvisazione culturale che da sempre caratterizza una carriera artistico-mediatica che dura ormai da oltre mezzo secolo. Ma, se è pur vero che molte delle creazioni radiotelevisive di questo vulcanico protagonista dello spettacolo italiano del secondo Novecento sono all’insegna dell’aleatorietà (programmata), sembra altrettanto giusto e realistico considerare le variegate attività di Arbore mediante i parametri di una cultura jazzistica che sperimenta in primis su stesso e che rende nota a un pubblico massivo ormai disabituato ad ascoltare lo swing, il dixieland o il bebop.
Gli inizi di Arbore, seppur dilettantistici, sono all’insegna del jazz quando, giovanissimo, nella città natale (Foggia) inizia a imparare a suonare il clarinetto e quando, studente universitario, a Napoli debutta nei locali a suon di dixieland, refrattario però al free come ricorda polemicamente Mario Schiano, il quale invece diventa fin da subito paladino dell’avanguardia partenopea, ingaggiando con il foggiano un duello a distanza mai sopito (problema, questo, diplomaticamente evitato nel libro). L’autobiografia di Arbore trova poi in Roma il luogo ideale per dare un segnale forte alla propria esistenza lavorativa, professionale, artistica: sono gli anni (Sessanta e Settanta) dei primi grandi successivi quale conduttore (e autore) radiofonico e poi televisivi in programmi diventati “cult” fin da subito.
Nei vari Bandiera gialla, Alto Gradimento, Speciale per voi però manca spazio per il jazz, anche perché Renzo furbescamente cavalca le mode giovanile del beat, del pop, del rock, aprendo una tantum, però, solo a qualche cantante o solista r’n’b e soul. Forse più avanti, con l’Altra domenica, Quelli della notte, Indietro tutta, dove gode di maggior libertà espressiva, pur mantenutosi entro i limiti dello spettacolo leggero, riesce a inserire qualche filmato jazz o ad avere persino ospiti famosi. Certo è che fino a quel momento (anni Ottanta) Arbore resta soprattutto un inventore, un entertainer e persino un talent scout, con un unico interessante jazzista da lui scoperto e lanciato: il cantante Gegé Telesforo. E proprio con quest’ultimo dà vita all’unica trasmissione, DOC, dove il jazz (ma anche il blues e il funk) entrano massicciamente con live set di media durata: da segnalare in tal senso le performance di Dizzy Gillespie, Chet Baker, Pat Metheny, James Brown e molti altri e, soprattutto, Miles Davis in trenta memorabili minuti (i soli concessi dal trombettista a una TV pubblica in tutta la carriera) con tanto di intervista e presentazione della band.
In questi stessi Eighties, Renzo debutta ufficialmente da musicista nel ruolo di cantautore un po’ anomalo, tra umorismo e goliardia, scrivendo e cantando talvolta brani dalle ruspanti sonorità bluesy e jazzy; e riesce persino a sfiorare la vittoria al Festival di Sanremo con Il clarinetto, un pezzo decisamente swing, che scala anche i primi posti della hit parade. Per nulla propenso o abituato a ripetersi – e questo gli fa onore in un ambiente, quello mediatico, dove tutti fanno a gara per mantenere poltrone o cadreghini – Arbore, come nelle jam session, si lancia sempre in qualcosa di nuovo, inventandosi addirittura regista in un paio di film tanto geniali quanto sgangherati (Il Pap’occhio e FF.SS.) per abbandonare quasi definitivamente il sistema radiotelevisivo e dedicarsi alla passione musicale, riscuotendo un’enorme visibilità all’estero, in particolare, negli Stati Uniti, dove viene osannato come ambasciatore di un Italian Style da lui stesso creato, alternando le melodie partenopee ai motivetti swing. In virtù di tali successi viene addirittura insignito della Presidenza dell’Umbria Jazz Festival che, con o senza lui, dagli anni Novanta diviene la maggiore kermesse europea dopo Montreux (entrambe, però, sempre più contaminate dai gusti pop).
Le varie formazioni che Renzo costruisce attorno a se stesso – come direttore, band leader, cantante e clarinettista – si chiamano, via via, I Senza Vergogna, la New Pathetic Elastic Orchestra, la Barilla Boogie Band, L’Orchestra Italiana, gli Swing Maniacs, gli Arborigeni, con un repertorio, come già detto, conteso fra italianità e americanismo, folklore e dixieland: di recente Arbore insiste nel recupero di quella cosiddetta canzone jazzata che in Italia, grosso modo dagli anni Trenta ai Cinquanta, dal Trio Lescano a Renato Carosone, produce un ritmo frizzante all’interno di un tranquillizzante sincopato tricolore. Non si saprà mai se il jazz italiano senza Renzo Arbore sarebbe diverso, certo è che con lui le occasioni per far conoscere la grande musica afroamericana con i mezzi potenti di una comunicazione popolarissima, guardando a ritroso, non sono mancate, visto che, alla fin fine, è l’unico che ha fatto passare un po’ di jazz alla RAI-TV, almeno dal 1976 in poi.
Tuttavia Arbore stupisce ancora una volta all’inizio del Nuovo Millennio, quando, tornando in TV con Speciale per me, ha il merito di rendere popolare, addirittura pop, un giovane nuovo post-bopper, Stefano Bollani; certo con Renzo si diverte a imitare i cantautori al canto e alla tastiera, ma se tutti avessero la verve del capelluto pianista, forse l’italian jazz se la passerebbe meglio.